Эпизоды

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7833

    SANGIULIANO, DIETRO LO SVARIONE C'E' LA SOLITA VULGATA di Stefano Chiappalone

    Più che un semplice anacronismo è un boomerang. Domenica a Taormina durante l'evento "Taobuk 2024 - Identità italiana, identità culturale" il ministro Gennaro Sangiuliano a un certo punto ha citato: «... la Santa Inquisizione, perché l'Inquisizione nella Spagna dell'epoca era un contropotere molto forte. Colombo va davanti alla Santa Inquisizione e spiega il suo progetto. Colombo, sapete, non ipotizzava di scoprire un nuovo continente, ma Colombo voleva raggiungere le Indie circumnavigando la terra sulla base delle teorie di Galileo Galilei. Allora i padri, chiamiamoli "padri"...». Il tutto per dire che «Nell'attività normativa legislativa quando ci mettiamo a ragionare a come riformare, troviamo sempre i soloni che ci dicono: "Ma questa cosa non è mai stata fatta". Ma se nella storia dell'umanità non ci fosse stato qualcuno che a un certo punto ha rotto gli schemi, noi non avremmo fatto tante conquiste». Insomma, il riformatore odierno come un novello Colombo o Galileo.
    Applausi scroscianti sul posto e ironia sferzante sul web, facendo notare un "dettaglio" che dovrebbe essere ovvio come il proverbiale uovo di Colombo (restando in tema): le date non tornano, dal momento che Galileo Galilei nacque nel 1564, quando Cristoforo Colombo era morto da ben 58 anni e pertanto difficilmente avrebbe potuto avvalersi delle «teorie» dello scienziato pisano. Un'occhiata a wikipedia avrebbe risparmiato una gaffe tanto più eclatante in bocca al ministro della Cultura. Come se un sottosegretario agli Esteri confondesse i libanesi con i libici (ah no, è già accaduto). O se qualcuno collocasse Times Square a Londra invece che a New York... ma Sangiuliano ha fatto anche questo.
    Non c'è solo l'anacronismo: se pure Galileo fosse vissuto qualche tempo prima, di quali teorie si sarebbe potuto avvalere Colombo per il suo viaggio? Dell'eliocentrismo? A rendere possibile il viaggio di Colombo servivano due dati: che la terra fosse sferica, e lo si sapeva da parecchi secoli, malgrado qualcuno ancora sia convinto che le obiezioni a Colombo si basassero sul mito della "terra piatta" (ma la sfericità della terra era cosa nota anche nel vituperato Medioevo). E che la circonferenza terrestre fosse sufficientemente "piccola" da consentire la lunga navigazione attraverso l'Oceano. In effetti le misurazioni di Colombo attingevano alla Geografia non di Galileo bensì di Tolomeo (forse il ministro si riferiva a lui, come ipotizza Focus?)
    BASTA LO SLOGAN
    Sviste non da poco, ma che importa, basta aver lanciato lo slogan: l'uomo delle riforme incurante dei pregiudizi come il navigatore genovese, che la vulgata descrive – al pari di Galileo - come la quintessenza della modernità. Il che basta a godere di quella sorta di "impunità culturale" per cui su certi temi, argomenti o personaggi, si può pontificare a piacimento e ogni strafalcione è perdonato purché si esalti la (presunta) modernità di qualcuno rispetto alla (presunta) arretratezza dei tempi in cui visse. Uno schema buono per tutte le occasioni. E poi l'inquisizione ci sta sempre bene a dare un tocco noir, tanto nessuno va a controllare che non si occupava di viaggi per mare (e che le ricerche più recenti hanno restituito un'immagine non esattamente corrispondente alla leggenda nera, da non sostituire con una leggenda rosa, ma semplicemente con le luci e le ombre della verità storica). Potenza della propaganda ottocentesca che tuttora riecheggia dai sussidiari ai documentari.
    Comunque sia, le obiezioni dei dotti di Salamanca non si fondavano sul terrapiattismo, bensì su calcoli più esatti di quelli di Colombo: in altri termini, la circonferenza terreste era più ampia e quindi il viaggio sarebbe stato più lungo di quanto avesse preventivato il genovese. Troppo lungo per disporre di provviste sufficienti. E chissà come sarebbe finito se nel percorso tra il porto di Palos e le "Indie" non si fossero imbattuti in quel continente imprevisto. Forse come quello dei fratelli Vivaldi, che esattamente due secoli prima si erano già proposti di andare «per mare Oceanum ad partes Indiae», ma non fecero più ritorno.
    COLOMBO CATTOLICO ROMANO
    E la sbandierata modernità di Colombo? Il suo Giornale di bordo si apre «nella grande città di Granada dove (...) vidi il Re Moro venire alle porte della città e baciare le regali mani delle Vostre Altezze e del Principe mio signore». Dalla Reconquista all'ansia di convertire i popoli soggetti a quel «principe che è chiamato Gran Khan»: «quante volte egli ed i suoi predecessori avevano mandato messi a Roma per cercar dottori nella nostra Santa Fede che di essa li istruissero, e mai il Santo Padre ne li ha provveduti, e così tante persone andarono perdute per esser cadute in idolatrie ed aver ricevuto dottrine di dannazione». E poiché il Santo Padre non aveva fatto nulla (anche allora si temeva il proselitismo?), los reyes catolicos «hanno risolto di inviare me, Cristoforo Colombo, alle menzionate contrade dell'India, per vedere (...) la maniera in cui possa intraprendersi la loro conversione alla nostra Santa Fede».
    Un'ultima nota sulla modernità di Galileo, entrato suo malgrado - e anzitempo - in questa vicenda. Il nodo della querelle tra lui e il cardinale Bellarmino stava nella pretesa galileiana di proporre come verità un'ipotesi scientifica. Lasciamo la parola a uno storico non sospetto di filo-cattolicesimo, come Alessandro Barbero: «Attenzione a dire che Galileo era moderno... quando ha scoperto queste cose ha detto: "Questa è la verità e io intendo insegnare la verità". E il cardinale Bellarmino, pover'uomo, gli diceva: "Ma senti, noi non vogliamo farti mica delle cattiverie, basta che tu accetti di insegnare che questa è un'ipotesi e tu puoi anche dire che con quell'ipotesi lì le cose vanno bene, funzionano, però è un'ipotesi". E Galileo, duro: "No, è la verità, non è un'ipotesi!". E il mio professore di fisica concludeva, lo ricorderò per sempre: "Non era moderno Galileo, era moderno il cardinale Bellarmino!"».
    Parafrasando un noto tormentone di vent'anni fa: «Dammi tre parole: Colombo, Galileo e Inquisizione». Gli ingredienti perfetti per far sfoggio di luogocomunismo. E lo svarione è perdonato, perché in fondo è in linea con la vulgata.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7829

    IL TERRORE, APICE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE di Mauro Ronco
    Il Terrore designa la fase acuta del processo rivoluzionario, noto come Rivoluzione francese, che ha devastato la Francia nel decennio dal 1789 al 1799. Per quanto sia possibile distinguere in esso periodi diversi - il primo, nell'agosto-settembre del 1792; il secondo, dalla caduta dei girondini, il 2 giugno 1793, alla caduta di Maximilien de Robespierre (1758-1794), il 28 luglio 1794 -, appare più rispondente alla realtà storica considerare il Terrore un blocco unitario, come esito coerente di un movimento che, per accelerazioni progressive, volle fare terra bruciata del passato religioso, culturale e civile della Francia, e praticò sistematicamente, come metodo di lotta politica, l'annientamento dell'avversario esercitando il potere in modo totalitario. Fra i più rilevanti provvedimenti, grondanti intrinseca ingiustizia, antecedenti alla fase strettamente terroristica, vanno ricordati la confisca dei beni della Chiesa cattolica, la loro trasformazione in beni nazionali e la loro vendita all'incanto, con i decreti del 17 marzo e del 14 maggio 1790; la Costituzione Civile del Clero, del 12 luglio 1790, che voleva svellere il clero cattolico dalla Chiesa universale, e la legge Le Chapelier (Isaac, 1754-1794), del 14 giugno 1791, che interdiceva qualsivoglia associazione fra cittadini esercitanti il medesimo mestiere.
    IL PRIMO PERIODO: AGOSTO E SETTEMBRE 1792
    Focalizzando l'attenzione sul primo periodo del Terrore - agosto-settembre del 1792 -, può osservarsi che, a partire dall'estate del 1792, la violenza abbandona le apparenze legalistiche. Il 10 agosto 1792 la marmaglia - che già aveva fatto, sotto la guida di abili mestatori, la prova generale il 20 giugno precedente - assale, sospinta dalla Comune insurrezionale, il palazzo delle Tuileries, da cui re Luigi XVI di Borbone (1754-1793) si era allontanato con la famiglia per porsi sotto la protezione dell'Assemblea Legislativa. Alle guardie svizzere, fedeli alla consegna di difendere la residenza reale, il sovrano, sollecitato dai deputati, trasmette l'improvvido ordine di cessare la resistenza. È l'inizio del Terrore: scampato il pericolo, la folla stermina gli svizzeri e gli altri difensori. La Comune impone l'elezione di un nuovo corpo assembleare e la decadenza del re: l'Assemblea, terrorizzata, sospende il re "[...] fino a che si pronunci la Convenzione nazionale ". La Comune, affermando la sua dittatura, incarcera il re, insieme con la famiglia, nella prigione del Tempio. Si scatena la caccia ai "sospetti ": i vincitori arrestano i sacerdoti che non hanno prestato giuramento alla Costituzione Civile del Clero - detti "refrattari " in contrapposizione ai "giurati " -, gli aristocratici, i parenti degli emigrati e i semplici cittadini malvisti dai sanculotti parigini. Poi, all'inizio di settembre, all'annuncio che l'armata prussiana preme alla frontiera, gli agitatori trucidano nelle prigioni gli arrestati. La carneficina, iniziata il 2 settembre, prosegue il 3, il 4 e il 5 successivi. Le prime esecuzioni sono compiute al convento dei Carmelitani, trasformato in prigione dei sacerdoti fedeli alla Chiesa. Dopo un macello iniziale, compiuto in modo indiscriminato e disordinato a colpi di fucile, di sciabola e di picca, è inscenata una parodia giudiziaria. Il commissario di una sezione della Comune si installa in un corridoio del pianterreno e si fa consegnare la lista dei prigionieri. A due a due i sacerdoti sopravvissuti gli sono presentati innanzi. Con zelo repubblicano, Violette - così si chiamava il figuro - si assicura dell'identità e della persistenza nel rifiuto del giuramento. Poi pronuncia la "sentenza", che viene eseguita immediatamente, con l'uso delle armi più diverse. Dei centocinquanta-centosessanta prigionieri - la grandissima parte sacerdoti - centoquindici sono uccisi: fra essi, il beato Jean-Marie du Lau d'Alleman (1738-1792), arcivescovo di Arles, e i fratelli de la Rochefoucauld-Bayers, il beato François-Joseph (1736-1792), vescovo di Beauvais, e il beato Pierre-Louis (1744-1792), vescovo di Saintes. Maria Teresa di Savoia Carignano, principessa de Lamballe (1749-1792), è vittima dei massacri di settembre: la sua testa, issata su una picca, è condotta come trofeo per le vie della città e portata innanzi alla prigione del Tempio affinché la regina Maria Antonietta (1755-1793) possa vederla. Sono uccisi circa milletrecento prigionieri dei duemilacinquecento imprigionati. Il Comitato di Sorveglianza Rivoluzionaria della Comune si affretta a informare, già in data 3 settembre, i Comitati Dipartimentali che "[...] una parte dei cospiratori feroci detenuti nelle prigioni è stata messa a morte dal popolo " e che gli "[...] atti di giustizia sono apparsi indispensabili al popolo per trattenere con il terrore le migliaia di traditori ". Georges-Jacques Danton (1759-1794), artefice dell'insurrezione del 10 agosto e ministro della Giustizia al momento dei massacri, risponde, all'ispettore delle prigioni che gli manifesta inquietudine: "Me ne fotto dei prigionieri; divengano ciò che potranno ". E il 2 settembre proclama: "Il popolo vuol farsi giustizia da sé di tutti i cattivi soggetti che sono nelle prigioni ". Il 3 aggiunge: "Questa esecuzione era necessaria per tranquillizzare il popolo di Parigi [...]. È un sacrificio indispensabile; d'altra parte il popolo non si sbaglia [...].Vox populi, vox Dei, è questo l'adagio più vero e più repubblicano che io conosca ".
    IL SECONDO PERIODO: DAL GIUGNO DEL 1793 AL LUGLIO DEL 1794
    Con l'elezione dei membri della Convenzione, il 21 settembre 1792, sorge la nuova "legalità " repubblicana. Il Terrore assume forme più raffinate e vuole diventare "legale ". Lo stesso 21 settembre la Convenzione proclama all'unanimità l'abolizione della monarchia; il 25 la Repubblica è dichiarata "una e indivisibile ". Sennonché, l'odio comune contro la religione cattolica e la tradizione storica della Francia cela feroci contrasti fra le fazioni. Già il 25 ottobre Robespierre, accusato in assemblea di volersi fare tiranno, rivendica orgogliosamente la contrarietà al diritto di tutta la Rivoluzione, che egli individua come un blocco unitario. Il Terrore - religioso, politico, militare, economico - è organizzato sistematicamente per accelerare il corso della Rivoluzione. Consapevoli di essere una infima minoranza in Parigi e, ancor più, nel paese, i membri della setta giacobina terrorizzano la Francia intera. Il regime di annichilimento è diretto dal Comitato di Salute Pubblica - creato il 6 aprile 1793 -, che esercita di fatto il governo del paese. Nella fase più allucinante del Terrore - dal settembre del 1793 al luglio del 1794 - ne fanno parte dodici uomini, di cui Robespierre è l'elemento trainante e Louis Saint-Just (1767-1794) e Georges Couthon (1755-1794) i più ascoltati consiglieri. Il Comitato si avvale del Tribunale rivoluzionario - Tribunale criminale straordinario, creato il 10 marzo 1793 - e di una serie di leggi eccezionali, fra cui va ricordata quella sui sospetti, del 17 settembre 1793, che prevede l'arresto e la messa a morte di chiunque non sia allineato con il Comitato. L'infrastruttura indispensabile alla repubblica del Terrore è costituita dai Comitati di Sorveglianza Rivoluzionaria, diffusi su tutto il territorio nazionale nel numero di più di ventimila, con poteri di polizia che prevedono l'arresto dei "nemici della libertà ". I sacerdoti, ormai anche quelli "giurati", appartengono alla categoria dei sospetti e possono essere messi a morte in qualsiasi momento. È imposto il calendario repubblicano, allo scopo di abolire ogni traccia cristiana e cancellare il ritmo settimanale con la centralità della domenica. La scristianizzazione si accanisce contro le chiese, gli oggetti di culto e di arte e contro le memorie dei defunti. A Parigi il vescovo Jean-Baptiste Joseph Gobel (1727-1794), collaborazionista e rivoluzionario lui stesso, abdica pubblicamente, prono agli ordini della Comune, alle funzioni episcopali, deponendo il 7 novembre 1793 la croce pettorale e l'anello nelle mani dei convenzionali, senza che il gesto gli serva per scampare alla ghigliottina l'anno successivo. Il 10 novembre si celebra nella cattedrale di Nôtre-Dame una grottesca festa della Ragione: al centro un tempio simil-greco circondato di cartapesta; ai lati, i busti di Voltaire (François-Marie Arouet, 1694-1778), di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e di Benjamin Franklin (1706-1790); sulla scena un'attrice dell'Opéra a rappresentare la Ragione. Il 23 novembre la Comune decreta la chiusura di tutte le chiese di Parigi.
    MISERIA E FAME
    La miseria e la fame flagellano le città, per le cui strade si consuma la caccia ai sospetti. Le delazioni sono innumerevoli e il Tribunale rivoluzionario stenta a tenere il passo, sì che la Convenzione, preoccupata dell'efficienza del sistema, approva, il 10 giugno 1794, la riforma: sola pena prevista è la morte; tutti i cittadini hanno l'obbligo di denunciare i cospiratori e i contro-rivoluzionari; non v'è più bisogno di ascoltare testimoni, a meno che la "formalità " non sia necessaria per scoprire altri complici; le deposizioni sono soltanto orali e non più scritte; i difensori sono aboliti. L'articolo XVI della legge statuisce infatti che difensori dei patrioti calunniati sono gli stessi giurati patrioti; i cospiratori, invece, non meritano difensori di sorta. Grazie a tale legge è reso più sbrigativo il sistema delle "infornate " di condannati. Ogni giorno può essere giudicato un numero doppio di accusati rispetto a prima, il che fa salire il rendimento,

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  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=3281

    LA COMUNIONE AI DIVORZIATI RISPOSATI E' UN'ESIGENZA DOVUTA AI TEMPI? FALSO! di Francesco Agnoli
    Quello che si sente dire, non di rado, anche in ambienti cattolici, è che la concessione della comunione ai divorziati risposati è un'esigenza dovuta ai tempi. Troppe sono oggi le persone divorziate risposate, per mantenere in vita vecchie regole e vecchi schemi.
    Si tratta con tutta evidenza di una idea debole, per la quale la verità è sottomessa all'arbitrio del numero. Fu utilizzata dai radicali al tempo del divorzio ("sono già milioni i divorzi de facto, per ignorare ancora la possibilità di un divorzio riconosciuto", si diceva già allora), e sempre dagli stessi per legalizzare l'aborto: "poiché gli aborti clandestini sono ormai la norma, tanto vale regolarizzare l'aborto tout court".
    Ma lo scopo di questo articolo non è quello di valutare un simile ragionamento sul piano logico; e neppure da un punto di vista teologico. Lo scopo è semplicemente capire, da un punto di vista storico, se questa posizione sia compatibile con l'insegnamento di Cristo.
    La domanda che vogliamo porci è allora questa: come si comporterebbe Colui che è sommamente buono e misericordioso, Gesù Cristo stesso, se venisse oggi? Cambierebbe la dottrina dell'indissolubilità matrimoniale, ritenendola inadeguata ai tempi, e irrispettosa per l'alto numero di divorziati risposati oggi esistente? Introdurrebbe eccezioni, casistiche, problematicità varie come quelle proposte dal cardinal Kasper? Renderebbe un po' più flessibile, quel laconico e lapidario comandamento che dice "Ciò che Dio congiunge, l'uomo non separi" (Mt.19,8)?
    Il primo punto da cui partire è senza dubbio questo: il matrimonio, nel mondo antico, pre-cristiano, è di due tipi: monogamico, o poligamico.
    La monogamia è presente in Grecia, presso il popolo ebraico e a Roma; in altre civiltà, invece, vige la poligamia.
    L'insegnamento di Cristo sulla famiglia non è dunque una novità del tutto inaudita: la monogamia, lo si ripete, era intuita presso vari popoli come l'istituto portante della società. Siamo di fronte a quello che viene chiamato di solito il "diritto naturale": anche popoli non cristiani portano nel loro cuore il suono di esigenze morali universali. Come Ippocrate aveva capito che abortire è uccidere, in un'epoca in cui l'aborto era però la norma, così i romani comprendevano bene che l'optimum, nel rapporto uomo donna, è la fedeltà e la durata del coniugio.
    Così in età repubblicana, cioè prima di Cristo, a Roma è previsto il fidanzamento, attraverso una cerimonia ufficiale comprendente lo scambio di un anello (messo nell'anulare, perché, secondo Aulo Gellio, esisterebbe "un nervo molto sottile, che parte dall'anulare e arriva al cuore"). Ad esso segue il matrimonio: una cerimonia solenne, contrassegnata da una sorta di comunione davanti ad un altare, su cui viene offerto a Giove un pane di farro. Inoltre vi è il sacrificio di un animale, di cui vengono lette, da un aruspice, le interiora. Una donna, sposata una sola volta, e quindi di buon auspicio, unisce le mani degli sposi, di fronte ai sacerdoti e a dei testimoni, a dimostrazione della funzione anche sociale del matrimonio. Uomini e divinità sono dunque chiamati a testimonianza di un fatto, lo si ripete, di cui è piuttosto chiara l'importanza.
    In verità, però, se andiamo a scavare in profondità, scopriamo che anche la monogamia romana, forse la più solida nel mondo antico, era inficiata da mille eccezioni: il maschio, per esempio, poteva andare tranquillamente con le schiave, senza che ciò costituisse uno scandalo neppure per la moglie; inoltre poteva ripudiare la moglie per una serie piuttosto abbondante di motivi. Così anche la monogamia ebraica era quasi una finzione, in quanto le scuole rabbiniche potevano ampliare a dismisura la possibilità del ripudio, permettendo così agli uomini di sposare, in successione, molte e molte donne. Non solo: anche la poligamia era piuttosto praticata.
    Se torniamo a Roma, in età imperiale, cioè all'epoca di Cristo, e poi nei secoli di graduale affermazione del cristianesimo, i costumi sono precipitati. Tutti gli storici sono concordi nel rilevare che la monogamia, già dissolubile, dell'età repubblicana, è in grave crisi. La durata media dei matrimoni è sempre minore; i divorzi sono sempre di più; persino la cerimonia nuziale, in perfetto accordo con la graduale diminuzione del senso del coniugio, è divenuta semplice, veloce, quasi banale. Ormai, come scrive Igino Giordani nel suo capolavoro, "Il messaggio sociale del cristianesimo", «per divorziare non occorrevano forme complicate. Come per sposare. Bastava un avviso a voce o per iscritto o per messaggio»; tutto era più semplice rispetto al passato repubblicano e il divorzio «divenne una piaga che incancrenì l'istituto del matrimonio e logorò la famiglia».
    Il grande Seneca, un contemporaneo di Gesù, scrive che ormai le persone «divorziano per sposarsi e si sposano per divorziare». Giovenale, nel I secolo dopo Cristo, ricorda il nome di una donna che si è sposata 8 volte in 5 anni, mentre Marziale descrive la crisi del matrimonio contemporaneo citando Telesilla, con i suoi 10 mariti. Il grande storico romano Carcopino, nel suo La vita quotidiana a Roma, ribadisce il concetto: il divorzio in età precristiana, a Roma, era raro, in età imperiale estremamente diffuso. Anche perché, come ricorda la storica Eva Cantarella, nel suo L'ambiguo malanno, alla possibilità del divorzio richiesto dal marito, con la donna di solito come vittima impotente, si era andata affiancando la possibilità che a divorziare fossero anche le donne.
    Dato di fatto incontestabile: all'arrivo di Cristo e nei secoli successivi nell'impero romano il matrimonio e la famiglia erano in crisi più che mai; una crisi che si riversava anche sulla società e che finiva anche per avere ripercussioni demografiche. In questo contesto, per citare ancora la Cantarella, la predicazione di Cristo sul matrimonio indissolubile fu senz'altro ben poco "realistica" e alquanto "rivoluzionaria". Tanto più che per i pagani il matrimonio durava sinché dura la volontà di stare insieme, mentre i cristiani "prendevano in considerazione la sola volontà iniziale, fissandola per così dire nel tempo, e solo ad essa attribuendo valore determinante".
    Di qui le legislazioni degli imperatori cristiani, che piano piano cominciarono a limitare i divorzi, imponendo «per la prima volta, una casistica di circostanze che li giustificavano».
    Quanto all'insegnamento e all'educazione cristiani, un apologeta come Giustino nella sua Apologia per i cristiani del II sec. d. C espone il pensiero tradizionale della Chiesa, condannando le seconde nozze e il divorzio dei suoi contemporanei e invitando a rispettare in toto l'insegnamento di Cristo. Che certamente non si impone facilmente, soprattutto presso i ceti più alti. Sembra per esempio che Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, sia stato il primo sovrano franco ad avere una sola moglie, meritandosi anche per questo l'appellativo di "Pio".
    Nel corso dei secoli seguenti la Chiesa si batterà in ogni modo anzitutto per insegnare l'importanza e la grandezza dell'indissolubilità matrimoniale, nello stesso tempo per difenderla, soprattutto dalla prepotenza maschile. Tutti ricordano che per questa posizione intransigente si arrivò persino ad uno scisma, quello con l'Inghilterra di Enrico VIII, quando sarebbe bastato annullare le nozze del re inglese, o concedergli il divorzio da Caterina, per scongiurarlo.
    Ma i casi simili sono moltissimi. Ricordava infatti lo storico Jacques Le Goff su Avvenire (21/1/2007): "Si dice spesso che in caso di adulterio non vi è uguaglianza fra uomo e donna. Ora, in un certo numero di casi molto particolari, e spesso molto famosi, l'uomo è stato severamente condannato dalla Chiesa, pensiamo al re di Francia Roberto il Pio o a Filippo Augusto. Roberto il Pio, nei primi anni dell'XI secolo, dovette separarsi dalla seconda moglie, Berta di Blois, poiché il clero lo considerava bigamo (la prima moglie era ancora viva) e incestuoso (i due erano consanguinei in terzo grado). Il papa Innocenzo III, invece, eletto nel 1198, lanciò l'interdetto contro il regno di Filippo Augusto, che aveva ripudiato nel 1193 la moglie, Ingeborg di Danimarca, e aveva sposato Agnese di Merania. Negli statuti urbani del XII secolo in Italia e del XIII in Francia, si trovano articoli sulla punizione dell'adulterio che prevedono dure pene sia per gli uomini che per le donne. Così, ad esempio, le Consuetudini di Tolosa del 1293, che raccomandano e illustrano in un disegno la castrazione di un marito adultero...".
    Possiamo citare un altro caso interessante, che ci dice di come l'indissolubilità sia stata per la Chiesa una verità non negoziabile, neppure con i più potenti. Come nel caso di Teutberga. Racconta lo storico Robert Louis Wilken, nel suo I primi mille anni, riguardo al papa Niccolò I: «In un famoso confronto sfidò il re Lotario II di Lotaringia, che aveva divorziato dalla moglie Teutberga perché non gli aveva dato un erede maschio. Quando gli arcivescovi di Colonia e Treviri giunsero a Roma con i verbali di un sinodo che aveva riconosciuto la validità del divorzio, Niccolò scomunicò i due vescovi. Per tutta risposta l'imperatore Ludovico II (fratello di Lotario, ndr) fece marciare le sue truppe su Roma, accusando Niccolò di 'volersi ergere a 'imperatore del mondo'. Il papa però fu irremovibile e alla fine Lotario dovette accettare Teutberga come sua legittima consorte».
    Ora, a parte notare quanto gesti come questo, ripetuti molte volte nella storia, abbiano significato per la difesa della dignità femminile, spesso esposta, in passato,

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7799

    VANDEA, UN GENOCIDIO IN NOME DELLA FRATERNITE' di Giorgio Cavallo

    La Francia ha inventato la politica moderna. Lo ha fatto durante la Rivoluzione, quando sono stati coniati gli stessi concetti di destra e di sinistra. Tutto il nostro modo di ragionare e di intendere la politica è nato a Parigi, mentre le teste degli oppositori al regime (veri o presunti, poco importava) cadevano sotto la lama affilata del rasoio nazionale, la ghigliottina. Ma la Rivoluzione ha generato anche la sua opposizione e nemesi, la Contro-Rivoluzione. L'ha fatta sorgere dalla periferia profonda, tra i mulini a vento e le fredde campagne della Bretagna, dell'Angiò, del Poitou. Il termine con il quale si identifica questa opposizione al fenomeno totalizzante e degenerativo della Rivoluzione è "Vandea", dal nome dell'attuale dipartimento affacciato sull'Atlantico. Di fronte alla tirannide di Robespierre e dei suoi emuli ed alle disgraziate leggi anticristiane messe in atto dalla banda di fanatici salita al potere nel 1789, i contadini vandeani e bretoni presero le armi dimostrando che è possibile opporsi alla tempesta, ed opporsi in armi.
    Per capire come andarono le cose, bisogna prima ricordare che la regione occidentale della Francia fu segnata nel corso della seconda metà del XVII secolo dall'opera evangelizzatrice di un grande santo e mistico: San Luigi Maria Grignon de Montfort, autore del famoso Trattato della vera devozione alla Santa Vergine. Devotissimo alla Madonna e affezionato sostenitore della preghiera del Rosario, San Luigi Maria ha influito molto sulla coscienza dei bretoni e dei vandeani, al punto che è possibile dire che senza il suo insegnamento non vi sarebbe stata l'insorgenza del 1793. Perché il punto è che la sollevazione della Vandea avvenne in nome della regalità di Cristo e di Maria (non a caso il simbolo degli insorti era un Sacro Cuore) e, solo secondariamente, in nome del re. Ad insorgere non furono i nobili, spesso collusi con il nuovo potere e talvolta addirittura artefici dei primi fuochi rivoluzionari; no: furono i contadini a sollevarsi contro la scristianizzazione della Francia, contro il massacro di preti e suore e contro la leva obbligatoria che tanti figli mandava a morire per difendere uno Stato divenuto apostata. Ma, necessitando essi dell'esperienza dei nobili, i quali avevano tutti frequentato la scuola militare come usanza imponeva all'epoca, si recarono da alcuni di loro affinché costituissero un piccolo esercito: l'Armata Cattolica e Reale.
    PERDERE TUTTO IN CASO DI SCONFITTA
    Fu così che emersero delle figure straordinarie, come quella del marchese Charles Melchior Artus de Bonchamps, del conte Henri du Vergier de La Rochejaquelein o ancora di François-Athanase de Charette de La Contrie, alcuni tra i più celebri comandanti dell'esercito cattolico. Tra loro, personaggi diversi ma accomunati indubbiamente da un coraggio leonino: comandare un esercito insorgente voleva dire perdere tutto in caso di sconfitta. Tutto voleva dire tutto, poiché i rivoluzionari non perdonavano, e per i non allineati il destino poteva essere amaro: oltre alla pena di morte, anche la ritorsione sui familiari e sui beni che la nobiltà locale deteneva da secoli e secoli. Per il caso di Charette, valga il ricordo che la sua famiglia apparteneva all'antichissima dinastia italiana dei Del Carretto (tra Liguria e Piemonte), con origini che si perdevano nell'Alto Medioevo e che da secoli si era stanziata in Francia. Dunque, dinastie che si erano legate in modo indissolubile con il territorio: un territorio che ora chiamava i loro antichi signori per essere difeso. Recentemente, un libro ha raccolto alcune delle più sorprendenti figure della Vandea Militare: è la Storia delle Guerre di Vandea scritta da Giuseppe Baiocchi (Ed. Il Cerchio, Rimini 2023), monumentale opera della quale è stato edito il primo volume e che racconta con tono divulgativo gli episodi salienti del conflitto focalizzando l'attenzione sulle biografie di Bonchamps, del cavaliere Baudry d'Asson, del marchese di La Rouërie.
    La difesa avvenne in modo eroico, spesso disperato. I contadini attaccavano con tecniche miste tra un esercito regolare e una banda di guerriglieri e, proprio per questo, inizialmente ebbero la meglio su un esercito ancora abituato a tattiche e schemi antichi. Per tutta la primavera-estate del 1793 la Vandea mise in scacco i blu repubblicani, costituendo un problema serio per la dittatura dei giacobini. Ma come? La Rivoluzione, figlia della "religione laica" dei Lumi, aveva "liberato" il popolo ed ora una parte di quel popolo si ribellava? Robespierre diede l'ordine di schiacciare la Vandea ad ogni costo.
    Dopo la drammatica battaglia di Cholet del 17 ottobre 1793 le cose mutarono. Alcuni dei comandanti storici furono uccisi: è il caso di Bonchamps, che prima di morire ordinò di non infierire sui prigionieri nemici e ne liberò circa cinquemila. Un gesto di clemenza che non fu riconosciuto dai repubblicani, ormai convinti della necessità di dover sterminare i vandeani. Tutti i vandeani. E così, mentre il resto dell'armata cattolica iniziava un lento sciame tra le brume autunnali della Normandia, terminando tragicamente il suo percorso penoso nelle paludi di Savenay, i giacobini ordinarono lo sterminio sistematico di tutta la regione, che avvenne dal principio del 1794.
    STERMINARE LE DONNE E I BAMBINI
    Non dovevano rimanere in vita nemmeno le donne e i bambini; le prime, considerate alla stregua di «solchi riproduttori» e i secondi ritenuti «potenziali briganti». Dunque, individui da sterminare con rigore scientifico, sistematico. L'obiettivo: migliorare la specie francese, depurandola dal cancro della Reazione. Pura eugenetica, prima dell'eugenetica. I vandeani erano esseri inferiori, che avevano alzato la testa contro le sedicenti tesi di pace, amore e libertà recate da Voltaire e dai suoi eponimi, ed incardinate nel motto rivoluzionario «liberté, égalité, fraternité».
    Le violenze e i soprusi attuati dalle Colonne Infernali (drappelli dell'esercito regolare che avevano il compito di seminare morte e sterminio) furono di una efferatezza tale che lo storico francese Reynald Secher ha parlato di genocidio vandeano. Il genocidio figlio dell'Illuminismo. La rassegna degli orrori è tale che fa ancora raccapriccio, e che ci ricorda come il sonno della ragione generato dalla follia totalitaria generi mostri, evocando l'inferno in Terra. Interi paesi furono dati alle fiamme, i civili seviziati, arsi vivi, squartati. In alcuni casi (poi testimoniati dalle cappelle espiatorie erette nella Restaurazione) ad essere uccisi in modo spietato furono specialmente le donne incinte ed i bambini. Centinaia di bambini, una vera e propria strage degli innocenti. Tra i nomi dei massacri più noti, quello di Lucs-sur-Boulogne tra il febbraio e il marzo 1794, con un numero di vittime tra le 500 e le 600. Nel mentre, i prigionieri dell'esercito cattolico catturati vivi andavano incontro a destini altrettanto tragici: non volendo sprecare pallottole per fucilarli tutti, i ribelli nelle mani dei carnefici furono annegati nella Loira, secondo ciò che la creatività suggeriva. Il «matrimonio repubblicano», a tal proposito, consisteva nell'immergere nei flutti della «vasca da bagno nazionale» (il fiume) un giovane ed una giovane nudi. Spesso, preti e suore subirono questo doloroso supplizio; altri, come il beato Noël Pinot, furono condotti alla ghigliottina ancora vestiti dei paramenti sacri: il suo martirio è narrato con attenzione nel saggio di Baiocchi. Martirio, sì. Perché di martiri, uccisi in odium fidei, si trattò: i civili e i religiosi sterminati dall'esercito del boucher de la Vendée (il macellaio della Vandea) François Joseph Westermann e annegati per ordine del rappresentante in missione Jean-Baptiste Carrier a Nantes furono a tutti gli effetti dei martiri, vittime dell'odio anticattolico che la Rivoluzione francese aveva dimostrato fin dai suoi albori, e che ora era emerso nella sua più luciferina violenza.
    COMBATTERE PER CRISTO SOVRANO DELLA STORIA E DEI POPOLI
    I nomi dei macellai che infierirono sui ribelli è stato macchiato di infamia, tant'è che la stessa Rivoluzione li sconfessò, condannando alla ghigliottina sia Westermann che Carrier (ma non altri, come il lugubre organizzatore delle Colonne Infernali, Louis-Marie Turreau). Invece, i nomi dei vandeani riposano in eterno coperti da una gloria che, a posteriori, nessuno può a loro togliere. Per quanto stigmatizzati come dei perdenti e degli illusi, nessuno (nemmeno Napoleone!) poté negare che il coraggio di uomini come Charette era fuori dal comune. Ma più che il coraggio contò la causa, l'idea per la quale queste migliaia di uomini e donne ritennero giusto combattere per ripristinare l'Ancien Régime, il vecchio ordine con al centro Cristo sovrano della storia e dei popoli. La causa era tanto radicata e sentita che nemmeno lo sterminio di circa trecentomila vandeani bastò a sopire il desiderio di giustizia della più cattolica delle regioni francesi. La Vandea, infatti, rimase la spina nel fianco della Rivoluzione. Insorgenti bretoni sotto la guida di Georges Cadoudal tentarono a più riprese di uccidere Napoleone. E la sollevazione dell'Ovest francese continuò con alti e bassi fino al 1815, con un'ultima parentesi addirittura nel 1832, nel tentativo di fare cadere il regime liberale di Luigi Filippo d'Orléans, salito al trono dopo la breve rivoluzione di luglio del 1830. L'anno di Rue du Bac. L'anno della fine della chimera della Restaurazione, esperimento fallito perché ormai le idee della Rivoluzione erano e

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    MARTA SORDI, ADDIO ALLA GRANDE STORICA di Alfredo Valvo
    Marta Sordi lascia un vuoto incolmabile nel campo degli studi di storia antica, che ha dominato per decenni, e fra gli amici – allievi e colleghi – che l'hanno conosciuta e stimata. Nata a Livorno nel 1925 e laureatasi in Lettere all'Università degli studi di Milano con Alfredo Passerini, Marta Sordi intraprese subito dopo la laurea la sua attività di ricerca. Presso l'Istituto italiano per la Storia antica, a Roma, per un quinquennio fu allieva di Silvio Accame, maestro e amico. Dal 1962 all'Università di Messina Marta Sordi formò una prima Scuola, attiva ancor oggi.
    Alcuni anni più tardi, nel 1967, passò a Bologna, dove ha lasciato una traccia incancellabile, e infine approdò due anni dopo all'Università Cattolica di Milano, dove insegnò Storia greca e Storia romana fino alla fine della sua lunga carriera accademica, nel 2001. Il numero delle sue pubblicazioni è difficilmente calcolabile. Non vi è problema aperto nel campo degli studi di storia antica nel quale Marta Sordi non sia autorevolmente intervenuta lasciando comunque, sempre, un'impronta di originalità e fornendo risposte almeno degne di considerazione, il più delle volte risolutive. Dominava senza difficoltà tutta la storia antica – il mondo etrusco, greco e romano, il cristianesimo dei primi secoli – sostenuta da una intelligenza vivacissima, una memoria prodigiosa e una capacità di cogliere sempre il nocciolo delle questioni.
    Tra le sue opere si ricordano La Lega tessala fino ad Alessandro Magno (1958), I rapporti romano-ceriti e l'origine della civitas sine suffragio (1960), Il cristianesimo e Roma (1965), Roma e i Sanniti nel IV secolo a.C. (1969), Il mito troiano e l'eredità etrusca di Roma (1989), ; La 'dynasteia' in Occidente: studi su Dionigi I (1992), Prospettive di storia etrusca (1995), I cristiani e l'Impero romano (2004). Nel 2002 sono usciti due volumi che raccolgono i suoi scritti minori: Scritti di Storia greca e Scritti di Storia romana, ai quali sono da aggiungere Impero romano e cristianesimo. Scritti scelti (2006), e Sant'Ambrogio e la tradizione di Roma (Roma 2008). Ma molti altri sono i contributi pubblicati successivamente. Resta indicativa della sua originalità e della sua personalità una delle sue principali caratteristiche nell'affronto di ogni problema storico, che è stata anche una lezione per le generazioni di studenti che l'hanno avuta per maestra: l'interpretazione delle fonti, siano esse letterarie epigrafiche o di qualsiasi altra natura, non può essere condizionata da pregiudizi, di qualsiasi genere. La conoscenza vastissima, per non dire totale, dei documenti utili per la ricostruzione storica e una capacità di sintesi talvolta prossima alla divinazione, oltre naturalmente all'intelligenza storica, consentivano alla Sordi di dominare il campo del dibattito con assoluta libertà, cioè in piena indipendenza dalle tante opinioni, apparentemente consolidate, che costituiscono la communis opinio. (...)
    Curò e diresse la collana dei «Contributi dell'Istituto di storia antica», uscita con cadenza annuale dal 1972 in poi presso Vita e pensiero; negli ultimi dieci anni aveva coordinato con energia e rigore i convegni annuali della fondazione Canussio di Cividale del Friuli, della quale ha presieduto il comitato scientifico. Marta Sordi ricevette prestigiosi riconoscimenti della sua attività, tra i quali la Medaille de la Ville de Paris, nel 1997, la Medaglia d'oro per i Benemeriti della cultura, nel 1999, e la Rosa Camuna per la Regione Lombardia, nel 2002. L'entità e l'importanza dell'opera scientifica di Marta Sordi si commentano da sole.
    Chi ne ha condiviso un lungo tratto della vita ha ricevuto da lei una lezione di fermezza e di coraggio, di ideali e principi affermati e vissuti, dello studio e della ricerca intesi come servizio alla verità, di fedeltà e obbedienza alla Chiesa. Una conclusione è sempre troppo limitativa di una personalità grande.
    Tuttavia, nel presentare più di due anni or sono, all'Università Cattolica, Impero romano e cristianesimo.
    Scritti scelti, mi vennero in mente parole ricorrenti nel pensiero e negli scritti di Benedetto XVI che Marta Sordi gradì molto, anche se ne rimase stupita, e che qui ripeto come estremo omaggio, carico di affetto e di rimpianto: «La fede è chiamata a spingere la ragione ad avere il coraggio della verità». Credo che questa esortazione Marta Sordi l'abbia messa in pratica lungo tutta la sua vita di studiosa.

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    LA PASQUA DELLE TRE ENCICLICHE DI PIO XI CONTRO NAZISMO, COMUNISMO E MASSONERIA di Roberto de Mattei
    Il titolo "La Pasqua delle tre encicliche" vuole ricordare tre importanti documenti emanati da papa Pio XI a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro nel marzo del 1937. Tre Encicliche che si rivolgevano a tutti i cattolici del mondo e che mantengono ancora oggi la loro attualità.
    Pio XI, ottantenne e convalescente dopo una lunga malattia che lo aveva immobilizzato per mesi, affrontava tre gravi sfide poste alla Chiesa dalle ideologie anticristiane del suo tempo: il neopaganesimo della Germania hitleriana, con la Mit brennender Sorge;il comunismo della Russia sovietica, con la Divini Redemptoris; l'anticristianesimo del Messico laicista e massonico, con la Firmissimam constantiam. L'uscita di queste tre encicliche nel giro di due settimane fu un fatto unico nella storia della Chiesa.
    IL NEOPAGANESIMO DELLA GERMANIA HITLERIANA
    La prima enciclica, la Mit brennender Sorge, era datata la Domenica di Passione il 14 marzo 1937. Pio XI affermava: «Se è vero che la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell'ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; tuttavia chi li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi e, divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l'ordine, da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme. (...) Sulla fede in Dio genuina e pura si fonda la moralità del genere umano. Tutti i tentativi di staccare la dottrina dell'ordine morale dalla base granitica della fede, per ricostruirla sulla sabbia mobile di norme umane, portano, tosto o tardi, individui e nazioni al decadimento morale. Lo stolto, che dice nel suo cuore: "non c'è Dio", si avvierà alla corruzione morale. E questi stolti, che presumono di separare la morale dalla religione, sono oggi divenuti legione».
    IL COMUNISMO DELLA RUSSIA SOVIETICA
    La seconda enciclica, la Divini Redemptoris, fu pubblicata il 19 marzo 1937, festa di S. Giuseppe, patrono della Chiesa e dei lavoratori cristiani. Denunciando il comunismo mondiale e ateo che dalla Russia si diffondeva nel mondo, Pio XI diceva: «Per la prima volta nella storia stiamo assistendo ad una lotta freddamente voluta, e accuratamente preparata dell'uomo contro "tutto ciò che è divino" (...) Procurate, Venerabili Fratelli, che i fedeli non si lascino ingannare! Il comunismo è intrinsecamente perverso e non si può ammettere in nessun campo la collaborazione con esso da parte di chiunque voglia salvare la civilizzazione cristiana. E se taluni indotti in errore cooperassero alla vittoria del comunismo nel loro paese, cadranno per primi come vittime del loro errore, e quanto più le regioni dove il comunismo riesce a penetrare si distinguono per l'antichità e la grandezza della loro civiltà cristiana, tanto più devastatore vi si manifesterà l'odio dei "senza Dio».
    Pio XI lanciava un «appello a quanti credono in Dio»: «Ma a questa lotta impegnata dal «potere delle tenebre» contro l'idea stessa della Divinità, Ci è caro sperare che, oltre tutti quelli che si gloriano del nome di Cristo, si oppongano pure validamente quanti (e sono la stragrande maggioranza dell'umanità) credono ancora in Dio e lo adorano. Rinnoviamo quindi l'appello che già lanciammo cinque anni or sono nella Nostra Enciclica Caritate in Christi affinché essi pure lealmente e cordialmente concorrano da parte loro "per allontanare dall'umanità il grande pericolo che minaccia tutti". Poiché - come allora dicevamo, - siccome "il credere in Dio è il fondamento incrollabile di ogni ordinamento sociale e di ogni responsabilità sulla terra, perciò tutti quelli che non vogliono l'anarchia e il terrore devono energicamente adoperarsi perché i nemici della religione non raggiungano lo scopo da loro così apertamente proclamato"».
    Il Papa aggiungeva: «Dove il comunismo ha potuto affermarsi e dominare - e qui Noi pensiamo con singolare affetto paterno ai popoli della Russia e del Messico, - ivi si è sforzato con ogni mezzo di distruggere (e lo proclama apertamente) fin dalle sue basi la civiltà e la religione cristiana, spegnendone nel cuore degli uomini, specie della gioventù, ogni ricordo. Vescovi e sacerdoti sono stati banditi, condannati ai lavori forzati, fucilati e messi a morte in maniera inumana; semplici laici, per aver difeso la religione, sono stati sospettati, vessati, perseguitati e trascinati nelle prigioni e davanti ai tribunali».
    IL LAICISMO MASSONICO DEL MESSICO
    Proprio al Messico era dedicata la terza enciclica, Firmissimam constantiam, emanata il giorno di Pasqua, il 28 marzo 1937. In essa il Papa affermava che «quando le più elementari libertà religiose e civili vengono impugnate, i cittadini cattolici non si rassegnino senz'altro a rinunziarvi».'Qualora i poteri costituiti «insorgessero contro la giustizia e la verità al punto di distruggere le fondamenta stesse dell'autorità, non si vedrebbe come dover condannare quei cittadini che si unissero per difendere con mezzi leciti ed idonei se stessi e la Nazione, contro chi si vale del potere pubblico per rovinarla».
    Pio XI non invitava alla resa, ma ricordava ai cattolici messicani ad avere «quella visione soprannaturale della vita, quella educazione religiosa e morale e quello zelo ardente per la dilatazione del Regno di Cristo che l'Azione Cattolica si propone di dare. Di fronte a una felice coalizione di coscienze che non intendono rinunziare alla libertà rivendicata loro da Cristo (Gal. 4, 31) quale potere o forza umana potrebbe aggiogarle al peccato? Quali pericoli, quali persecuzioni, quali prove potrebbero separare anime così temprate dalla carità di Cristo? (cf. Rm, 8, 35)».
    I cristeros messicani avevano impugnate le armi in nome di Cristo Re. Pio XI, rivolgendosi ai cattolici messicani, richiamava la sua enciclica Quas primas dell'11 dicembre 1925 in cui proclamava Cristo Re dell'universo. Una verità che opponeva alle ideologie anticristiane che alla vigilia della Seconda guerra mondiale minacciavano il mondo. Ma anche nelle ore più buie la virtù della speranza, alimenta la fede dei cristiani.'Così, nella Divini Redemptoris, Pio XI affermava: «Con gli occhi rivolti in alto, la nostra fede vede i "nuovi cieli" e la "nuova terra", di cui parla il primo Nostro Antecessore, San Pietro (II Petr., III, 13). Mentre le promesse dei falsi profeti in questa terra si spengono nel sangue e nelle lacrime, risplende di celeste bellezza la grande apocalittica profezia del Redentore del mondo: Ecco, Io faccio nuove tutte le cose (Apoc., 21, 5)».
    È questo il nostro augurio nella Pasqua di Resurrezione del 2024, ricordando la Pasqua delle tre gloriose encicliche di Pio XI del 1937.'

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    CONCORDATO DEL 1984: QUARANT'ANNI DI SCRISTIANIZZAZIONE di Roberto De Mattei
    Quarant'anni fa, il 18 febbraio 1984, il presidente del Consiglio Bettino Craxi ed il cardinale
    Segretario di Stato Agostino Casaroli firmarono solennemente a Villa Madama, il Nuovo Concordato tra la Santa Sede lo Stato italiano, che rivedeva profondamente i Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929.
    I Patti Lateranensi del 1929, avevano sancito un nuovo rapporto di collaborazione tra Chiesa e Stato in Italia, la cosiddetta "Conciliazione", dopo il lungo dissidio seguito all'occupazione militare dello Stato pontificio e alla presa di Roma del 20 settembre 1870. Essi avevano il loro principio fondamentale nel riconoscimento della Religione cattolica, apostolica e romana, come la sola Religione dello Stato. Da questo principio scaturivano alcune importanti conseguenze, come l'insegnamento della dottrina cristiana nelle scuole, il riconoscimento giuridico del matrimonio sacramentale, la proclamazione del carattere sacro della città di Roma.
    La Costituzione repubblicana del 1948, pur essendo animata da un profondo spirito laicista, nel suo articolo 7, recepì i Patti Lateranensi come fondamento dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia. La novità del "Nuovo Concordato", firmato nel 1984, come spiegò lo stesso Presidente del Consiglio Craxi, consisteva invece nel realizzare la «moderna separazione» tra Stato e Chiesa, affermando il principio della "neutralità" dello Stato in materia di religione. Lo stesso cardinale Casaroli precisò che il «fulcro» del Nuovo Concordato era costituito dall'abolizione del "principio originariamente richiamato dai Patti Lateranensi della religione cattolica come sola religione dello Stato». La segreteria di Stato vaticana e la Conferenza episcopale italiana, esprimevano pubblicamente il loro plauso per il nuovo traguardo raggiunto.
    IL CENTRO CULTURALE LEPANTO
    L'11 febbraio 1984, una settimana prima della firma del Nuovo Concordato, il Centro Culturale Lepanto, che avevo l'onore di presiedere, pubblicò, come inserto pubblicitario, su alcuni quotidiani nazionali un «manifesto» intitolato «Può un cattolico preferire lo Stato ateo?». Scrivevamo tra l'altro: "Non meraviglia che le forze rivoluzionarie e anticristiane, che professano l'ateismo e l'egualitarismo radicale, esprimano la loro sostanziale soddisfazione verso un progetto concordatario in cui vedono affermato il principio dell'uguaglianza delle religioni, e quindi un implicito ateismo di Stato, destinato ad avere enormi conseguenze in seno alla società civile. Ciò che invece è strabiliante è che la stessa intima soddisfazione per questo Concordato venga espressa pubblicamente dai vertici del mondo cattolico, sia laici che ecclesiastici, tanto da considerarlo molto migliore dell'antico e quindi a questo nettamente preferibile. Il Centro Culturale Lepanto - associazione civico-culturale che si ispira all'immutabile dottrina della Chiesa - rivolge a queste autorità del mondo cattolico italiano una domanda, rispettosa ma pressante: Può un cattolico preferire uno Stato "neutrale" in materia di religione, e quindi implicitamente ateo, ad uno Stato ufficialmente cattolico? Questa preferenza non contraddice la dottrina cattolica e lo stesso buon senso? Negli ultimi due secoli, il Magistero della Chiesa, soprattutto per bocca dei Sommi Pontefici, ha sempre condannato il principio anticristiano del laicismo e della neutralità religiosa, affermando per contro il dovere dello Stato di riconoscere pubblicamente e di sostenere efficacemente la vera Religione. Tra le innumerevoli citazioni, ci limitiamo a riportare questa di san Pio X: «È una tesi assolutamente falsa, un errore pericolosissimo, pensare che bisogna separare lo Stato dalla Chiesa. Questa posizione si basa infatti sul principio che lo Stato non debba riconoscere nessun culto religioso. Essa è assolutamente ingiuriosa verso Dio, poiché il Creatore dell'uomo è anche il fondatore della società umana, e mantiene in vita sia questa che noi singoli individui. Perciò gli dobbiamo non soltanto un culto privato, ma anche un culto sociale ed onori pubblici» (Enc. Vehementer dell' 11 febbraio 1906). Lo stesso buon senso impone del resto che un cattolico abbia il diritto di vivere in una società in cui costumi, leggi e istituzioni subiscano la più profonda influenza da parte della vera Religione. La stessa logica esige che il cattolico reclami l'irrinunziabile diritto di formare una famiglia cattolica, una civiltà cattolica, uno Stato di principio e di fatto cattolico. Assolutamente illogico è invece che un cattolico preferisca uno Stato "neutrale" ad uno Stato animato dallo spirito della Santa Chiesa. Come può infatti egli preferire uno Stato in cui la Religione cattolica perda il suo primato e il suo prestigio per essere trattata alla stregua di una setta qualsiasi? In cui l'insegnamento religioso non venga più impartito nelle scuole, se non su esplicita richiesta? In cui 1e preziose figure dei cappellani debbano abbandonare ospedali, carceri, caserme? In cui l'adorabile immagine del Crocefisso venga estromessa da ogni edificio pubblico? In cui la bestemmia non sia più perseguibile come reato, ma venga considerata una rispettabile opinione? Non sono forse queste le logiche conseguenze del Nuovo Concordato?".
    CONCLUSIONI
    Ciò che era scandaloso non era l'accordo, ma l'elogio che di esso facevano le autorità ecclesiastiche. Esse avrebbero potuto presentare il Nuovo Concordato come un compromesso doloroso, ma necessario, esprimendo il loro rammarico per una oggettiva menomazione dei diritti della Chiesa e ricordando l'ideale dello Stato cattolico, come modello a cui tendere. La CEI, in una dichiarazione ufficiale del 19 febbraio 1984, si vantava invece di aver "dato il deciso contributo di sua competenza nelle fasi dell'elaborazione del testo, lieta ora che il contributo sia stato accolto".
    Il 12 dicembre 1984 venne posta a Roma la prima pietra della grande moschea islamica che fu ufficialmente inaugurata il 21 giugno 1995, Fu questa una delle prime conseguenze della scomparsa del carattere sacro della città di Roma, tutelato dai Patti Lateranensi.
    Quarant'anni dopo possiamo confermare ciò che nel 1984, unica voce cattolica in Italia, affermavamo ad alta voce. Il Nuovo Concordato rappresentò una grave tappa nel processo di scristianizzazione del nostro paese.

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    MUORE VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA, ESCLUSO DALLA SUCCESSIONE PER IL SUO MATRIMONIO di Stefano Chiappalone
    Con la morte di Vittorio Emanuele di Savoia [...] torna sotto i riflettori il casato che ha cinto la corona d'Italia dal 1861 al 1946, ma - insieme alle non poche controversie che lo hanno coinvolto in vita - anche l'annosa questione di chi sia il “vero” capo di casa Savoia, dopo la morte di Umberto II, l'ultimo re d'Italia deceduto in esilio nel 1983. In sintesi: prosegue il ramo Savoia-Carignano, con Vittorio Emanuele e ora suo figlio Emanuele Filiberto? Oppure, come altri sostengono, sarebbero subentrati i cugini del ramo Savoia-Aosta, con Amedeo (morto nel 2021) e ora suo figlio Aimone? E perché? La questione è apparentemente “di nicchia”, ma tutt'altro che priva di interesse, essendo legata alla storia del nostro Paese e - perché no? - a un ipotetico futuro sovrano, in caso di improbabile ma non impossibile ritorno della monarchia, cui si intreccia anche una profezia attribuita a san Pio da Pietrelcina.
    Il “nocciolo” della disputa risale al 1970 per via del matrimonio tra Vittorio Emanuele e Marina Ricolfi Doria: non essendo la sposa di famiglia reale, in mancanza di assenso di Umberto II, lo sposo sarebbe stato escluso dalla successione. Assenso necessario secondo le norme di casa Savoia per ogni matrimonio (diseguale o meno), ma se «contratto con persona di condizione e stato inferiore (...), tanto i contraenti, che i discendenti da tale matrimonio, si intenderanno senz'altro decaduti dal possesso dei beni e dei diritti provenienti dalla Corona e dalla ragione di succedere nei medesimi». Salvo «qualche singolare circostanza» che spingesse il sovrano a dare il beneplacito, come stabilito nel 1780 dalle Regie Patenti di Vittorio Amedeo III, re di Sardegna.
    LA SOLENNE AMMONIZIONE
    Norme che Umberto II, non più re ma pur sempre capo di casa Savoia, ribadiva in una lettera del 25 gennaio 1960 al figlio, all'epoca fidanzato con l'attrice Dominique Claudel, «in modo che tu sappia con esattezza in quale situazione verresti a trovarti», richiamandosi «alla legge della nostra Casa, vigente da ben 29 generazioni e rispettata dai 43 Capi Famiglia, miei predecessori, succedutisi secondo la legge Salica attraverso matrimoni contratti con famiglie di Sovrani. Tale legge, io 44mo Capo Famiglia, non intendo e non ho diritto di mutare, nonostante l'affetto per te». Umberto era netto sulle conseguenze: «la tua decadenza da qualsiasi diritto di successione come Capo della Casa di Savoia e di pretensione al trono d'Italia, perdendo i tuoi titoli e il tuo rango e riducendoti alla situazione di privato cittadino. Perciò tutti i diritti passerebbero immediatamente a mio nipote Amedeo, Duca d'Aosta». Vittorio Emanuele il 25 aprile 1960 riconosceva «la situazione nella quale verrei a trovarmi se decidessi di rinunciare alle mie prerogative e mi sposassi con una donna - qualunque essa fosse - non di sangue reale» e la relativa situazione anche «sotto l'aspetto strettamente dinastico».
    L'ammonimento si ripeté il 18 luglio 1963, quando l'ex sovrano riprese carta e penna dopo aver letto un'intervista al figlio circa le possibili nozze (poi di fatto avvenute) con Marina Doria, vedendosi costretto a «ripeterti, parola per parola, quanto ebbi a scriverti il 23 [sic] gennaio 1960, in una simile circostanza». «L'intervista non rispecchia il mio pensiero», rispose Vittorio Emanuele il 25 agosto in calce alla lettera paterna. Fatto sta che qualche anno dopo quel matrimonio che “non s'aveva da fare” si fece nel 1970 a Las Vegas, con rito civile, all'insaputa del padre. Quello religioso seguì l'anno dopo a Teheran.
    LA PROFEZIA DI PADRE PIO
    A dirimere la questione nel frattempo insorta fra i due rami fu chiamata nel 2001 la Consulta dei Senatori del Regno, fondata nel 1955 da ex senatori attivi durante la monarchia e poi man mano rinnovatasi per le evidenti necessità anagrafiche. Il risultato, in breve, fu che invece di sciogliere il nodo si spaccò in due anche la Consulta. Da allora di Consulte ce ne sono due: una, presieduta dal medico Pier Luigi Duvina, che riconosce la successione di Vittorio Emanuele (e di Emanuele Filiberto), l'altra, presieduta dallo storico Aldo Alessandro Mola, che invece riconosce i Savoia-Aosta (Amedeo e Aimone) quali legittimi successori di Umberto II. Il picco di tensione tra i due rami si raggiunse però nel 2004 alle nozze reali di Felipe VI di Spagna quando lo scontro divenne anche fisico e Marina Doria dovette andare a scusarsi con Amedeo che aveva appena rimediato un pugno dal cugino Vittorio Emanuele.
    Anche prescindendo dalla querelle matrimoniale relativa a Vittorio Emanuele, un altro elemento avrebbe nel tempo giocato a favore del ramo Savoia-Aosta: la legge salica - che attribuisce il trono solo agli eredi maschi - anch'essa richiamata nella lettera di Umberto II del 1960. Emanuele Filiberto non ha fratelli e ha due figlie femmine che pertanto non sarebbero entrate nella linea di successione se il nonno Vittorio Emanuele all'inizio del 2020 non avesse dichiarato abolita la legge salica, legiferando a tutti gli effetti come capo di Casa Savoia e pertanto considerandosi tale. Decisione che ha suscitato malumori tra i rami del casato, dichiarata da Amedeo «nulla, tanto più perché proveniente da persona esclusa dalla successione dinastica», attraverso un comunicato. [...]
    Da capofamiglia si presenta Aimone, che invia le condoglianze ai parenti dal sito intitolato Casa Reale di Savoia. E c'è chi vede in Aimone l'uomo della profezia sul crollo della monarchia e sul suo ritorno per mano di un ramo collaterale, attribuita a san Pio da Pietrelcina, che negli anni '30 avrebbe predetto - il condizionale è d'obbligo - alla futura regina Maria José: «Un ramo della pianta seccherà, ma un altro ramo germoglierà portando copiosi frutti». [...]
    Nota di BastaBugie: in merito alla profezia di padre Pio accennata alla fine dell'articolo ecco cosa si trova scritto su Wikipedia.
    Secondo una profezia, padre Pio da Pietrelcina avrebbe previsto la fine del Regno d'Italia, l'estinzione del ramo principale dei Savoia discendenti da Umberto I e il successivo ritorno della monarchia in Italia con il ramo collaterale dei Savoia-Aosta. Nella cripta dove riposano i resti mortali del frate, a San Giovanni Rotondo, è presente un grande bassorilievo commissionato nel 1968 da Gian Paolo Quinto e modellato dallo scultore Cesarino Vincenti, intitolato Maestà e Bellezza ti stanno intorno. L'opera raffigura la Sacra Famiglia attorniata da un gruppo di persone raccolte in preghiera, fra le quali spicca un uomo che, nonostante l'opera sia stata realizzata quando Aimone aveva solo un anno, ha il viso di Aimone di Savoia-Aosta da adulto, con sulle spalle il collare dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata.

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    LA FESTA (DIMENTICATA) DELLA LIBERTA' DAI TOTALITARISMI di Valter Lazzari
    La legge sul 9 novembre è una delle più brevi del nostro ordinamento, un solo articolo. «Legge 15 aprile 2005, n. 61 Istituzione del "Giorno della libertà". 1° comma. La Repubblica italiana dichiara il 9 novembre "Giorno della libertà", quale ricorrenza dell'abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo. 2° comma. In occasione del "Giorno della libertà", di cui al comma 1, vengono annualmente organizzati cerimonie commemorative ufficiali e momenti di approfondimento nelle scuole che illustrino il valore della democrazia e della libertà evidenziando obiettivamente gli effetti nefasti dei totalitarismi passati e presenti». Stop, finita. Breve ma da conoscere e far conoscere.
    Lo scorso anno è balzata alle cronache non già per essere stata onorata, ma per le proteste da parte di presidi, insegnanti, sindacati della Scuola, verso il ministro dell'Istruzione per il solo fatto che, essendo tale legge disattesa, egli esortava ad applicarla. Laddove invece si va diffondendo la pratica di celebrare a scuola una "giornata contro l'omo-bi-trans-eccetera-fobia" nonostante nessuna disposizione la prescriva. Eppure molto sarebbe il materiale, generalmente ignorato, che almeno in questo giorno si potrebbe portare alla discussione.
    IL TRENTENNALE DEL 1989
    Ricordiamo, quattro anni fa, come è stato celebrato il trentennale del 1989? Liquidato con qualche articolo il solo giorno del 9 novembre, mentre sarebbe stato notiziabile e commercialmente allettante scandire mese per mese tutto il 2019. Una Rai che, per esempio, aveva poco prima minuziosamente ripercorso e vivisezionato la Grande guerra (occasione per blandire pacifisti e nostalgici della rivoluzione d'ottobre), il 1989 lo ha trattato poco e male. Chiediamoci, è casuale questo obnubilamento del 9 novembre e dell'89? È una svista? O non è ancora una volta la manipolazione ideologica della Storia e della storiografia, l'annoso discorso dell'occupazione gramsciana di tutte le casematte culturali (università, editoria, letteratura (e premi letterari!), cinema, teatro, arti figurative, etc. etc.
    Il totalitarismo, ci ricorda Hannah Arendt nel suo celebre saggio, non pretende solo la subordinazione politica degli individui, ma invade e controlla anche la loro sfera privata. Questa, una delle principali differenze coi regimi autoritari. Da noi nel ventennio non succedeva che, col pretesto di insegnare norme igieniche, gruppi di "volontari" venissero a ingerire in casa per vedere quali libri, quali simboli religiosi appesi, come invece fanno i "Comités de Defensa de la Revoluciòn" nelle case dei cubani. Da noi non succedeva che a ridosso della Pasqua, si interrogassero capziosamente gli scolaretti delle elementari e dell'asilo, per farsi dire se in casa si dipingevano le uova per la festa. In Albania sì. E successivamente in quelle case faceva irruzione la polizia politica. In Albania per battezzare un bimbo si rischiava la vita: un sacerdote, don Stiefen Kurti, subì la fucilazione per aver battezzato un neonato (20 ottobre 1971). Quegli stessi anni '70 in cui un noto disegnatore satirico recentemente scomparso, in Albania ci passava le settimane estive di volontariato "per l'edificazione del Socialismo" (e non risulta che mai abbia pronunciato ravvedimento). Proprio gli anni in cui Italia e mondo democratico, inscenavano fluviali cortei per la pena capitale eseguita in Spagna su uomini i quali, a prescindere dai loro nobili (?) ideali avevano tuttavia compiuto sanguinari atti di terrorismo con corredo di vittime innocenti. La Spagna non era un regime totalitario, i Paesi del Patto di Varsavia lo erano.
    STUDIARE HAMAS E ISRAELE
    Onorando il dettato della legge sul 9 novembre si potrebbe studiare Hamas (anche a prescindere dal contegno che essa tiene verso Israele): spiegare nelle scuole (che paiono essere parecchio simpatizzanti, docenti compresi) come Hamas governa nel suo stesso territorio. Con quali strumenti giuridici ha potuto destinare incommensurabili risorse ricevute dagli Stati amici, o dalla Unione Europea stessa, per armamenti sofisticati, per una rete di cunicoli e una edilizia tutta offensiva, lasciando il suo popolo nella miseria. Uno Stato che opprime il suo popolo al punto da farsene scudo umano, che gli impedisce lo sfollamento in luoghi sicuri e installa il quartiere generale bellico sotto strutture ospedaliere, che elimina fisicamente gli oppositori parlamentari e permette lo stupro delle proprie cittadine se carcerate, che purifica il territorio dagli omosessuali spicciamente defenestrandoli dai grattacieli perché intanto per essi c'è la pena di morte. E se non bastano questi indicatori per configurare il totalitarismo, raccomandiamo ai docenti di esporre semplicemente agli studenti lo statuto di Hamas e le ripugnanti pagine dei manuali scolastici che coi nostri soldi UE hanno potuto editare.
    Si potrebbe altresì spiegare come funziona Israele, vero Stato di diritto, l'unica democrazia che si possa incontrare a partire dal mare dinnanzi alle Canarie fino all'India. E approfondire di come la minoranza araba è rappresentata in tutti i livelli della Pubblica Amministrazione, fino alla Magistratura e compresa la Corte Suprema. Conoscere della possibilità per la popolazione araba di accedere alle università come Medicina senza numero chiuso (ciò che invece vale per la popolazione ebraica) proprio per favorire l'integrazione e la partecipazione alla vita sociale dello Stato di Israele. Altro che apartheid! Magari pure accennando al Welfare e a una Sanità che cura indistintamente tutti.
    I sistemi totalitari, ci ricorda ancora la Arendt, perseguono sempre una politica estera bellicista e apertamente diretta al dominio mondiale. È dimostrata l'aspirazione alla pace e alla normalizzazione di Israele verso altri paesi arabi, percorso proficuamente iniziato con gli Accordi di Abramo che invece i regimi totalitari hanno voluto interrompere: perché la guerra è consustanziale al totalitarismo.
    Tutto questo, anche questo, la legge 61/2005, istitutiva del Giorno della Libertà ci permette di mettere a tema. Occorre solo volerla utilizzare. Coraggio prof!

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    IL SACERDOTE CHE CON IL SUO GENIO SCIENTIFICO CATALOGO' OLTRE 1000 SPECIE DI FUNGHI di Barbara Sartori
    I colleghi statunitensi lo consideravano un maestro, «the most learned in the world». Richieste di consulenze gli arrivavano da tutta Europa.
    Ma, in Italia, al di fuori di una ristretta cerchia di esperti, restava un modesto parroco della Val di Sole.
    È un sacerdote trentino vissuto a cavallo tra Otto e Novecento il più grande micologo italiano, l'abate Giacomo Bresadola. La Biblioteca della sede piacentina dell'Università Cattolica - che ne conserva gran parte delle opere, vere rarità editoriali, donate da Giuseppe Fogliani, dal 1960 al '92 docente della Facoltà di Agraria - vuol rendere omaggio al suo genio scientifico. Fino al 28 settembre, nell'atrio d'onore, è possibile ammirare alcuni testi originali e riproduzioni delle tavole dipinte dal Bresadola per illustrare i funghi analizzati in cinquant'anni di ricerche. Si calcola, limitandosi alle sole nuove specie, che ne abbia catalogate ben 1017.
    Nato a Ortisé nel 1847, Giacomo Bresadola è indirizzato dal padre alle scuole tecniche a Rovereto, per farne un ingegnere. Lui preferisce il seminario: nel 1870 è sacerdote.
    Non dimentica però la passione per le scienze. A Baselga di Piné il giardino della canonica diventa un orto botanico. A Roncegno comincia lo studio delle fanerogame, piante della famiglia dei faggi e degli abeti, sotto la guida Francesco Ambrosi, direttore e bibliotecario del Museo di storia naturale di Trento. È lui a proporgli di occuparsi di muschi e licheni, presentandogli il biologo Venturi. Si deve invece al cappuccino Giovanella da Cembra, se, mentre era curato a Magras, tra il 1878 e l'83, inizia a interessarsi di funghi. Ma i testi su cui lavorare - si accorse il sacerdote - erano imprecisi.
    Decise perciò di scrivere ad Andrea Saccardo, docente di botanica all'Università di Padova, chiedendogli di inviargli le sue opere e proponendosi «per la ricerca di qualche fungo o altro che riguarda la Micologia, che specialmente in questi paesi montuosi è ricca, e vergine dalle ricerche degli scienziati». È l'inizio della carriera di micologo. Nel 1881 entra in contatto con gli studiosi nordamericani e pubblica la sua prima opera, Fungi tridentini novi vel nondum delineati, un atlante di 281 specie locali, descritte e illustrate dall'autore.
    Seguiranno Mycromicetes tridentini (1889) e la divulgativa Funghi mangerecci e velenosi dell'Europa media , in italiano (pubblicata postuma).
    Il rigore dello studio e la finezza del tratto sono la peculiarità del metodo del Bresadola, che non si accontentava di vaghe descrizioni, ma - seguendo l'insegnamento del francese Lucien Quélet - corredava le sue schede con note critiche e minuziosi disegni, frutto di un attento esame al microscopio. Il suo credito crebbe a tal punto che i musei di Londra, Parigi, Uppsala, Liegi, Washington, Kiev gli inviavano da analizzare le loro collezioni più preziose e ancora oggi custodiscono testimonianze del suo infaticabile lavoro. Senza spostarsi da Trento - nel 1884 era stato nominato amministratore all'Ordinariato vescovile e nel 1887 al capitolo della Cattedrale ­ poté revisionare miceti da ogni latitudine, con l'obiettivo di dare ordine alla catalogazione esistente: ottocento specie furono dichiarate non valide.
    A dispetto dei riconoscimenti ­ nel 1927 la laurea honoris causa in scienze naturali a Padova, il titolo di socio fondatore conferito dall'Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, dalla Società micologica britannica e da varie accademie europee - restò l'umile prete di sempre. Le ristrettezze economiche lo costrinsero a vendere al museo di Stoccolma un erbario con 30mila specie. Alcuni editori stranieri avevano messo gli occhi sulla documentazione prodotta in una vita di studio, qualcosa come 1250 tavole a colori, disegnate a mano. Le avrebbero ottenute, se il Museo tridentino di storia naturale e alcuni studiosi italiani non fossero intervenuti per promuovere la monumentale Iconographia Mycologica .
    Furono raccolte sottoscrizioni in tutto il mondo e, insieme al denaro, arrivavano attestati di stima nei confronti dell'anziano abate. Prima di morire, nel '27, riuscì a vedere pubblicati i primi 12 dei 26 volumi di cui si compone l'opera, conclusa nel '33. Rarissima, sul mercato librario è quotata sui diecimila euro. Ora, grazie alla 'Società Micologica Bresadola' di Trento, gli appassionati possono consultarla in versione digitale.

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    NORMA COSSETTO, LA RAGAZZA STUPRATA E INFOIBATA CHE LA SINISTRA VUOL DIMENTICARE di Giovanni Terrano
    La triste vicenda di Norma Cossetto, uccisa barbaricamente ottant'anni fa tra la notte del 4 ed il 5 ottobre 1943, dai partigiani comunisti, non rientra sicuramente nel "politicamente corretto". Questa storia è stata commemorata unicamente in Parlamento, in un convegno organizzato il 3 ottobre scorso da Alessandro Amorese, Nicole Matteoni, Maurizio Gasparri e Rossano Sasso e ricordata, poi, il 5 ottobre dal vicepresidente della Camera e deputato di Fratelli d'Italia, Fabio Rampelli. La storia delle foibe, si sa, va nascosta perché scomoda per la sinistra italiana in quanto pone in risalto le barbarie e le atrocità poste in essere dai partigiani.
    Norma Cossetto, figlia di un dirigente locale istriano del Partito Nazionale Fascista, era una studentessa universitaria di Lettere dell'Università di Padova di 23 anni che stava preparando una tesi di laurea in geografia proprio sul suo territorio, l'Istria Rossa (in quanto ricco di bauxite). Dopo l'armistizio di Cassibile dell'8 settembre 1943, i partigiani depredarono la casa della famiglia di Norma e quest'ultima si rifiutò di entrare a far parte del movimento partigiano, cosa che le comportò l'arresto presso l'ex caserma della Guardia di Finanza di Parenzo. Successivamente, la sorella, Licia Cossetto, ha raccontato che prima che Norma fosse infoibata ed uccisa, la stessa fu sottoposta anche a sevizi e stupri ad opera dei partigiani. Il suo corpo fu trovato e recuperato, privo di vestiti, dopo il 10 dicembre 1943, a seguito dell'occupazione dell'Istria da parte dell'esercito tedesco.
    La storia di Norma Cossetto è una delle tante storie di infoibati coinvolti in una razzia storica, di coloro, cioè, che hanno affrontato un'impervia prova senza barattare la propria dignità. Norma è un'eroina, suo malgrado, che ha dimostrato un'accettazione fiera e composta delle barbare violenze dei partigiani, privata, tra l'altro, dei suoi sogni di studentessa universitaria e scaraventata in una realtà di incubi e di morte. Se la realtà partigiana fosse stata realmente giusta, non avrebbe costretto donne come Norma Cossetto a diventare "eroine".
    Non va dimenticato che il massacro delle foibe, avvenuto tra il 1943 ed il 1945, è un evento storico molto importante, spesso volutamente dimenticato dalla sinistra, che ha dato spazio ad una politica riduzionista se non addirittura negazionista. È noto che sulla strage delle foibe vi sia una forte divisione sul modo di leggere i fatti storici. E, talvolta, alcuni autori hanno tentato di dare palesemente una chiave di lettura faziosa della storia. Vicende tristi come quella di Norma Cossetto non vengono ricordate perché scomode per una certa area politica, e solo il centrodestra ha ritenuto opportuno commemorare gli ottant'anni di tale triste evento, come già detto.
    Ed è ancora più curioso evidenziare come, qualche giorno prima, sia stato data molta risonanza alle Quattro Giornate di Napoli e all'Anpi, e il Comune di Napoli ha addirittura intitolato ad Antonio Amoretti, ritenuto l'ultimo partigiano delle Quattro Giornate e scomparso qualche mese fa, i giardini di Piazza Quattro Giornate del quartiere Vomero di Napoli. Ma ci sarebbe tanto da dire, a cominciare dal fatto che le Quattro Giornate di Napoli - e, se vogliamo, l'intera Resistenza -, rappresentano un clamoroso falso storico. Ma questo è un altro discorso. Limitiamoci, ora, a ricordare gli ottant'anni dal tragico evento di Norma Cossetto causato dai partigiani, evidenziando, purtroppo, che la storia, spesso, viene letta come la si vuol leggere.

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    IL NOBILE CRISTOFORO COLOMBO, ULTIMO DEI CAVALIERI MEDIEVALI di Michelangelo Longo
    La vulgata vorrebbe Cristoforo Colombo marinaio genovese, di umili origini che grazie a una felice intuizione scopre "per caso" un nuovo continente. I dati storici ribaltano questa narrazione. I documenti ci regalando uno spaccato del tardo medioevo assai diverso: il self made man non è semplicemente possibile, ma è possibile l'epopea di un nobile cavaliere spinto dallo spirito di avventura e dal desiderio, per noi post moderni incomprensibile, di portare la fede ovunque.
    Ma partiamo dalla famiglia. Il cognome per esteso è Colombo di Cuccaro, feudo del marchesato del Monferrato. La famiglia serviva i Marchesi e li seguì fino alla fine della signoria, quando Gian Giacomo Paleologo si dichiarò vassallo dei Savoia per ritornare nel Monferrato dopo l'esilio a Venezia con a seguito i Colombo di Cuccaro. La nobile famiglia dei Colombo si trovò così a servire non più un marchesato nel pieno del suo potere ma un vassallo senza futuro e rendite. A quel punto i Colombo di Cuccaro dovettero trovare altre strade per vivere e una di queste portava al mare...
    Colombo fu corsaro, mozzo? È plausibile che come cadetto di una nobile famiglia fosse comandante di qualche vascello, magari anche con la licenza di corsa (corsaro appunto). Il figlio Ferdinando riporta episodi che sembrano figli di battaglie atlantiche tra corsari di diverse nazioni, certo è che il futuro Ammiraglio esplora in lungo e in largo l'Atlantico e il Mediterraneo fino ad incontrare il sorgente impero Ottomano a Chio, poche miglia dall'Asia Minore ormai presa dagli infedeli. Forse proprio lì maturò il desidero di trovare una nuova via per l'Asia.
    Proprio la ricerca di una nuova via per l'Asia ha solleticato la fantasia di innumerevoli detrattori del Medioevo e della Chiesa Cattolica. La leggenda nera vuole la Chiesa schierata su posizioni "terra-piattiste", quando in realtà la consapevolezza della forma sferica della terra era nota ed accettata. Inoltre molti episodi conosciuti alle corti della penisola iberica dimostravano che al di là del mare esistevano terre abitate: le indie? L'Asia? Erano popoli da convertire, con cui commerciare? Il punto era comprendere quanto distasse la terra al di là dell'Oceano. Colombo sosteneva che l'intera circonferenza della terra fosse di 20.000 km (sbagliando), portoghesi, spagnoli non ci credevano. Molti fattori ritardarono l'avvallo all'impresa di Colombo: dubbi sulla rotta proposta, i portoghesi che probabilmente stavano cercando di raggiungere l'altra sponda già da tempo per altre vie, gli Spagnoli che erano ancora intenti a cacciare i mori dalle loro terre, non ultime le consistenti richieste di Cristoforo (la decima parte delle scoperte, l'Ammiragliato, la nomina a vice Re del nuovo mondo). L'idea che un popolano potesse attendere così a lungo, perorare la sua causa con continue trattative con le corti spagnola e lusitana, che potesse intrattenersi con i cartografi e studiosi del suo tempo a discutere di una terra non ancora "scoperta" rimane improbabile. Il nobile Colombo attese con frustrazione uno spiraglio che arrivò dopo un decennio di attesa e, quando era ormai intenzionato a rivolgersi altrove, Isabella e Ferdinando di Castiglia decisero: a don Cristoforo Colombo avrebbero concesso titoli e privilegi nel caso di successo, assegnarono le tre caravelle più famose di tutti i tempi. L'avventura era partita.
    Quattro viaggi resero Colombo immortale. Dal primo epico e trionfante all'ultimo quasi "normale". Il mondo era entrato in una nuova epoca e i caratteri distintivi dell'Ammiraglio, la testardaggine, la petulanza, l'incapacità al governo, lo resero inviso alle corti del tempo. Morirà lasciando ai posteri un continente e un segno indelebile nella storia.
    Su di lui si è scritto molto, ma le parole di Leone XIII forse chiariscono il motivo per cui è ancora segno di contraddizione. Nell'enciclica Quarto abeunte saeculo, scritta in occasione del quarto centenario della scoperta del nuovo mondo, scrive "...Colombo è uomo nostro", a sottolineare che Cristoforo non partì per la sete di gloria e di conquista ma per servire Dio, per trovare una via alternativa al Santo Sepolcro, per conquistare nuove anime a Dio. Il nobile Colombo fu l'ultimo dei cavalieri medievali votati al servizio della Cristianità e per questo oggi raccoglie ancora tanto rancore e odio, in un mondo che desidera stare lontano dal Creatore del mondo.

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    QUATTRO BUONE RAGIONI A FAVORE DELLA MONARCHIA di Corrado Gnerre

    In occasione del 70° anniversario della Repubblica Italiana offro qualche riflessione in merito non alla Repubblica ma alla Monarchia, più specificamente alla Monarchia Cristiana. Prima però mi preme fare due premesse.
    La prima è più specifica. Confesso (ma penso sia cosa abbastanza prevedibile) di non nutrire alcuna simpatia per Casa Savoia per una serie di motivazioni, prima fra tutte il fatto che essa ha svolto un ruolo decisivo in quel processo, cosiddetto "Risorgimento", che altro non è stato che una sorta di "piemontizzazione" dell'Italia.
    La seconda premessa è più generale. La Dottrina Cattolica tradizionale (quindi non contaminata da derive modernistiche) accetta diverse forme di governo, sempre che non cadano in derive totalitarie. Ricordo che anche la democrazia, non intesa in senso classico, bensì come puro "democraticismo" (pretesa di poter tutto decidere con il criterio del numero anche cosa è oggettivamente bene e cosa è oggettivamente male) cade inevitabilmente nel totalitarismo, come è ben affermato da Giovanni Paolo II nell'enciclica Centesimus Annus al punto 46: "Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia."
    Fatte queste due premesse, vengo al dunque. Le buone ragioni della Monarchia sono quattro. La prima è "sociale", la seconda "antropologica", la terza "religiosa" e la quarta "filosofica". Ho utilizzato le virgolette perché il significato di queste aggettivazioni è in senso ampio.

    1) RAGIONE SOCIALE
    Una delle più precise definizioni di Monarchia è "governo di una famiglia su tante famiglie". Infatti, la Monarchia altro non è che la "centralità politica" della Famiglia. Qui ovviamente il riferimento è alla concezione tradizionale e vera della società. Secondo questa concezione la società non può che avere una dimensione comunitaria. Essa non è un insieme di individui ma di famiglie: è una "famiglia di famiglie". La concezione individualistica della società è invece un prodotto tipicamente "moderno". Ed è proprio la forma repubblicana ad esprimere chiaramente l'impostazione individualistica, cioè il governo di uno su tanti, di un individuo su tanti individui.
    Relativamente a questo discorso va detto che la concezione vera della Monarchia -o meglio: la concezione della Monarchia vera- si espresse non a caso nel medioevo cristiano, che fu un periodo tutto all'insegna della dimensione comunitaria e "familiare". Le stesse corporazioni erano strutturate sul modello familiare.
    In merito alla famiglia bisogna fare un'altra considerazione. A differenza di altre forme di governo, nella Monarchia Cristiana il Re è tenuto, anche se indirettamente, a render conto di come gestisce la propria famiglia che è parte integrante della sua rappresentatività politica; il tutto nella convinzione che non si può pretendere di governare uno Stato se non si è capaci di saper governare la propria famiglia.
    2) RAGIONE ANTROPOLOGICA
    Passiamo adesso ad un'altra buona ragione della Monarchia, che possiamo definire "antropologica". Dico subito che qui il discorso si fa molto più "delicato", non solo nel senso che va ben capito, ma anche perché sembrerebbe offrire argomenti un po' troppo "sottili". Ma si tratta ugualmente di una questione importante.
    Governare è qualcosa di impegnativo: è un'arte che è difficile improvvisare. Ebbene, nella Monarchia vige il riconoscimento del principio secondo cui sin da piccoli bisogna prepararsi a governare. Può sembrare una sciocchezza, ma non lo è. Lasciamo stare la misteriosa incompetenza di molti politici dei nostri giorni, "misteriosa" perché assume proporzioni tali da sembrare voluta. Spesso mi viene la tentazione di pensare che coloro che ci comandano formalmente siano volutamente scelti per la loro pochezza da coloro che ci comandano sostanzialmente (che stanno dietro le quinte) affinché possano essere più facilmente gestibili. Ma, lasciando stare questo discorso che porterebbe molto lontano, resta il fatto che l'arte del governo è anche l'esito di un apprendimento, di una scuola, di un'educazione. San Luigi IX (che a detta del famoso medievista di formazione laica, Jacques le Goff, è stato il più il più grande Re di Francia) così scrive al figlio che dovrà ereditare il Regno: "Caro Figlio, la prima cosa che ti raccomando è che tu metta tutto il tuo cuore nell'amare Dio. Se Dio ti manda delle avversità, sopportale pazientemente. Confessati spesso e scegli confessori prudenti. Mantieni i buoni costumi del regno e combatti quelli cattivi. Prendi cura di avere in tua compagnia tutti uomini prudenti, sia religiosi, sia secolari. Non sopportare che si dica davanti a te nessun oltraggio verso Dio, né ai Santi. Rendi sovente grazie a Dio di tutti i doni che Egli ti ha fatto, affinché tu sia degno di averne ancora. Le tue genti vivano in pace e in rettitudine sotto te, anche i religiosi e tutte le persone della Santa Chiesa. Dona i benefici di Santa Chiesa. Pacificati piuttosto che porre guerre, sia coi tuoi, sia coi tuoi sudditi, come faceva San Martino. Sii diligente di avere buoni preposti e buoni podestà e buoni inquisitori. Sforzati di impedire il peccato e cattivi giuramenti; fa distruggere le eresie contro il tuo potere. Fa in modo che le spese del tuo palazzo siano ragionevoli. Infine, caro figlio, io ti do tutte le benedizioni che un buon padre pietoso può dare a suo figlio, e che sia benedetta la Santissima Trinità e tutti i Santi ti guardino e ti difendano da ogni male; e che Dio ti dia la Grazia di fare sempre la sua volontà, in modo che Egli sia sempre onorato da te".

    3) RAGIONE RELIGIOSA
    Se Dio esiste (ed esiste!) la realtà è gerarchica; e per logica tutto deve essere riconducibile alla sovranità di Colui che è il Re di tutto: il Re dei Re. Se Dio esiste (ed esiste!) la realtà non è né "repubblicana" né "democratica", ma inevitabilmente "monarchica".
    Qui c'è da aggiungere una cosa interessante. Prima abbiamo detto che simbolicamente la Monarchia rappresenta la centralità politica e sociale della Famiglia; ebbene il Cristianesimo parla di un Dio che è Unico ma anche Comunione, in quanto Trinitario. Dunque, è proprio nel Cristianesimo, più di ogni altra religione, che la Monarchia, come centralità politica della Famiglia, trova il suo fondamento teologico. Possiamo in un certo qual modo dire che il Cristianesimo è strutturalmente monarchico e che la Monarchia è strutturalmente cristiana.

    4) RAGIONE FILOSOFICA
    La Monarchia esprime anche un'altra conformazione, ed è quella alla realtà. Ecco la ragione "filosofica" che è legata al "realismo filosofico", unico criterio per una corretta speculazione razionale.
    La dimensione gerarchica è nell'ordine naturale delle cose; tant'è che anche negli ambienti che ne teorizzano l'illegittimità e l'innaturalità, questa, cacciata dalla porta, rientra in un certo qual modo dalla finestra. Provare per credere: finanche negli ambienti anarchici il leader finisce sempre con l'emergere.
    E' nella natura delle cose riconoscere che chi comanda può comandare per sempre, che sui talenti che il Signore dona non c'è data di scadenza. Se la politica diventa un bene di consumo, allora sì che esiste il rischio che vada a male; ma se la politica è promozione e difesa del bene comune (tradizionalmente e metafisicamente inteso) allora non c'è rischio né che vada a male né che possa passare di moda.

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    HITLER NE ERA CONVINTO: LA PRINCIPALE ATTIVITA' DEI PRETI CONSISTEVA NEL MINARE LA POLITICA NAZISTA di Francesco Agnoli
    Il pensiero di Hitler e stato consegnato solo in parte, cioè nella prima fase della sua attività politica, al Mein Kampf. In questo testo confuso e logorroico, i pensieri del futuro dittatore si accavallano l'uno sull'altro, risultando spesso indigeribili. Però, per quanto riguarda il tema che a noi interessa, sono già in parte delineati. Hitler, infatti, afferma più volte due concetti: che la Chiesa cattolica è «in conflitto con le scienze esatte e con l'indagine scientifica», e che il cristianesimo si è imposto grazie ad una «fanatica intolleranza». Intolleranza che è propria degli ebrei in generale: «Oggi il singolo deve constatare con dolore - scrive Hitler - che nel mondo antico, assai più libero del moderno, comparve col cristianesimo il primo terrore spirituale».
    Questi pensieri, espressi nel 1923, possono essere meglio compresi alla luce di quanto Hitler ebbe a dire una volta giunto al potere. Per questo risulta indispensabile la lettura delle Conversazioni a tavola di Hitler, da poco ristampato in Italia (dopo ben 50 anni!) dalla Libreria editrice Goriziana. Si tratta dei discorsi tenuti da Hitler con gli invitati che di volta in volta accedevano a lui: furono trascritti a partire dal 5 luglio 1941 per ordine di Martin Bormann, capo della cancelleria del partito e segretario del Führer.
    Ebbene, in queste conversazioni a ruota libera, Hitler rivela molto chiaramente il suo pensiero rispetto al cristianesimo, dimostrando che era una delle tematiche che più gli stava a cuore. Nelle quasi 700 pagine in cui discorre di guerra, russi, ebrei, diete, nazismo ecc., i riferimenti al cristianesimo e alla Chiesa cattolica, pur minoritaria all'interno del paese di cui era l'incontrastato leader, sono continui, insistenti e ripetitivi.
    Anzitutto Hitler ritiene che il cristianesimo sia una delle manifestazioni della perfidia ebraica: parla quindi esplicitamente di «cristianesimo ebraico». «Il cristianesimo - afferma la notte del 20 febbraio 1942 - costituisce il peggiore del regressi che l'umanità abbia mai potuto subire, ed è stato I'Ebreo, grazie a questa invenzione diabolica, a ricacciarla quindici secoli indietro». Cristo, in verità, per Hitler, non era un ebreo, ma un ariano che «attaccò il capitalismo ebraico» e per questo venne ucciso: «Non è escluso che sua madre fosse ebrea»: ma certo non lo fu il padre.
    La «falsificazione della dottrina di Gesù» fu quindi opera dell'ebreo san Paolo: a lui si deve la creazione della religione cristiana, cioè di una forma di bolscevismo ante litteram. Il cristianesimo infatti si è posto alla testa dei più miserabili, degli schiavi, dei malriusciti, con le sue teorie «egualitarie» nate per «conquistare un'enorme massa di gente priva di radici»; «ha mobilitato la feccia», per «organizzare cosi un pre-bolscevismo».
    Per Hitler all'equazione ebraismo-cristianesimo, si affianca quella cristianesimo-bolscevismo: l'ebreo Saul e l'ebreo Marx sono i creatori di due ideologie di morte equivalenti tra di loro!
    «Il colpo più duro che l'umanità abbia ricevuto - dichiara - è l'avvento del cristianesimo. Il bolscevismo è figlio illegittimo del cristianesimo. L'uno e l'altro sono una invenzione degli Ebrei. È dal cristianesimo che la menzogna cosciente in fatto di religione è stata introdotta nel mondo. Si tratta di una menzogna della stessa natura di quella che pratica il bolscevismo quando pretende di apportare la libertà agli uomini, mentre in realtà vuol far di loro solo degli schiavi». Ancora: «L'Ebreo che fraudolentemente introdusse il cristianesimo nel mondo antico, allo scopo di perderlo, ha oggi riaperto questa breccia prendendo, questa volta, il pretesto della questione sociale. È sempre lo stesso gioco dei bussolotti. Come Saul si è trasformato in s. Paolo, così Mardocheo è diventato Karl Marx».
    Come il bolscevismo è oggi causa di morte e di distruzione, così il cristianesimo, afferma Hitler ribadendo quanto già scritto nel Mein Kampf, è fondato sull'intolleranza: «Il cristianesimo è stata la prima religione a sterminare i suoi avversari in nome dell'amore. Il suo segno è l'intolleranza».
    La colpa storica della Chiesa cattolica è poi quella di aver fatto crollare l'impero romano, regno dell'arte, della tolleranza e della civiltà. E di averlo sostituito con l'arte barbara delle catacombe, col buio del medio Evo, l'epoca più insignificante della stona umana. Hitler afferma: «Sono sicuro che Nerone non ha mai incendiato Roma. Sono stati i cristiani-bolscevichi». Poi loda Giuliano l'Apostata, e depreca Costantino. Il concetto è sempre lo stesso: i cristiani, figli spirituali dell'ebreo Paolo, sono la causa della caduta dell'Impero e di ogni barbarie degli ultimi 20 secoli.
    Ai cristiani Hitler imputa di negare «tutte le gioie dei sensi»; di aver proposto una errata «volontà ecumenica», cioè universalistica e non razzista; di essere «contro la selezione naturale» e quindi di instillare una «ribellione contro la natura, una protesta contro la natura» di proporre un «paradiso insipido», tutto canti e alleluia; di essere una «storia puerile», una «invenzione di cervelli malati», una vera e propria «malattia».
    Soprattutto interessante è il fatto che Hitler condivida coi comunisti-bolscevichi (verso cui dichiara il suo odio, e con cui si alleerà per scatenare il secondo conflitto mondiale) due idee. La prima: che il cristianesimo sia contro la scienza e la ragione. La seconda: che sia condannato a sparire col tempo, automaticamente, soffocato dall'affermarsi del nazismo trionfante e liberatore.
    Anche Marx aveva creduto lo stesso; anche i bolscevichi spiegavano, in quegli stessi anni, che la Chiesa non avrebbe retto il confronto con la scienza, la modernità ed il progresso, e sarebbe sparita da sola, una volta instaurata la società giusta, perfetta, egualitaria, in una parola, comunista. Senza bisogno di persecuzioni (che invece, poi, ci furono eccome).
    Riguardo alla prima idea, Hitler, che riteneva «scientifico» il razzismo, afferma: «la religione è in perpetuo conflitto con lo spirito di ricerca. L'opposizione della Chiesa alla scienza fu talvolta così violenta da sprizzare scintille». Quanto alla seconda idea cui accennavo, la scomparsa automatica del cristianesimo, per manifesta «inferiorità», Hitler dichiara di aver creduto, un tempo, sin dai 14 anni, che la soluzione avrebbe dovuto essere violenta, la «dinamite»: sterminare i preti, le loro menzogne e la loro malvagità.
    Poi, col tempo, sostiene di essersi convinto che sia politicamente più produttivo lasciar morire il cristianesimo «a fuoco lento», come effettivamente cercherà di fare sopprimendo le scuole e i giornali confessionali e attuando una persecuzione spesso soprattutto di tipo culturale e ideologico: «A lungo andare, il nazionalsocialismo e la religione non potranno più coesistere... la soluzione ideate sarebbe di lasciar le religioni consumarsi da sé, senza perseguitarle».
    Per capire questa prospettiva hitleriana è bene ricordare che Hitler era un uomo molto pragmatico: sapeva che certe operazioni vanno fatte con prudenza e cautela, o addirittura di nascosto, come ad esempio nel caso del programma eutanasico T4. Così più volte rivelava ai suoi collaboratori che l'ora dei conti con la Chiesa e con il cardinal von Galen, il suo più agguerrito avversario, sarebbe arrivata solo alla fine della guerra, per non dividere troppo il paese in un momento difficile. In varie occasioni Hitler frenò addirittura le repressioni contro la Chiesa del suo fidato segretario Bormann, non perché non le condividesse, ma perché temeva «potessero ritorcersi sfavorevolmente sullo stato d'animo del paese in guerra». «Secondo Bormann - scrive il gerarca nazista Albert Speer - un modo per restituire vitalità ed interesse all'ideologia nazionalsocialista era quello di stimolare la lotta contro la Chiesa [...]. Hitler in materia temporeggiava, ma nessuno poteva dubitare che egli intendesse soltanto rinviare il problema ad un momento più favorevole, poiché alla tavola della Cancelleria usava nei confronti della Chiesa parole molto più pesanti e scoperte di quelle che usava all'Obersalzberg, dove la presenza delle signore lo frenava. «Quando avrò risolto tutti gli altri miei problemi - diceva a volte - farò i conti con la chiesa. Allora essa vedrà i sorci verdi» (A. Speer, Memorie del terzo Reich, Mondadori, 1997).

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7509

    L'ITALIA RICONOSCE L'HOLODOMOR COME GENOCIDIO di Stefano Magni
    A 90 anni di distanza, anche il Parlamento italiano ha votato per il riconoscimento dell'Holodomor quale genocidio degli ucraini, commesso da Stalin dal 1932 al 1933. Il Senato ha approvato la mozione con 130 voti a favore e 4 astenuti (e tutti gli altri assenti). I 4 astenuti sono senatori di Verdi-Sinistra Italiana e Movimento 5 Stelle.
    Sull'Holodomor (in ucraino: "morte per fame") è stato fatto negazionismo (vero) da parte del regime sovietico e ancora oggi il dibattito è difficile da affrontare. È innegabilmente un crimine di massa figlio dell'ideologia comunista. Nel 1928 Stalin impose le sue riforme economiche radicali, dopo aver introdotto il primo Piano Quinquennale. L'agricoltura, che era la principale risorsa per l'Ucraina, come per la Russia meridionale, venne considerata come un settore ausiliario dell'industria. Nutrire gli operai: questo doveva essere il compito dei contadini. Poi la grandezza dell'Urss sarebbe arrivata grazie al programma di industrializzazione. L'Ucraina, nei primi anni sovietici, dopo la guerra civile (che l'aveva devastata, con una prima carestia) aveva ottenuto una certa autonomia, per lo meno il permesso di usare la propria lingua e di studiare la propria cultura nazionale. Gli anni '20 furono un periodo di "ucrainizzazione". Stalin, con la sua furia centralizzatrice, volle distruggere l'identità ucraina che lui stesso, da ex ministro delle Nazionalità, aveva concesso. L'Ucraina era un nemico nazionale: con la sua identità rischiava di minare l'unità dell'Urss. Era anche un nemico di classe, dove la Nuova Politica Economica aveva fatto fiorire più che altrove una classe di intraprendenti contadini proprietari, i "kulaki" come venivano chiamati spregiativamente.
    SI AIZZARONO LE LOTTE DI CLASSE
    L'ira lucida di Stalin si abbatté sui kulaki. Considerati nemici di classe, vennero aizzate contro di loro le masse contadine. Con processi sommari e linciaggi veri e propri, furono poi tutti deportati in Siberia, in Asia centrale e al Circolo polare. La campagna di "de-kulakizzazione" fece sparire quasi 2 milioni di ucraini e fu devastante per l'economia. Arrivati al 1931, le autorità sovietiche accelerarono la collettivizzazione. La resa dei terreni crollò. Le autorità sovietiche, più che "esperti" di agricoltura mandarono brigate di agit prop. Le stazioni dei trattori e delle macchine agricole erano centri di propaganda, più che fornitori di servizi ai contadini. La collettivizzazione fu una grande ubriacatura ideologica e causò la fine di una società agricola, in quello che era sempre stato il "granaio d'Europa".
    Ma al Cremlino non ammisero mai alcun errore, il modello doveva funzionare. Quindi alla comparsa delle prime statistiche che dimostravano raccolti molto inferiori alle quote prefissate dal piano, Stalin reagì punendo in massa i contadini. Chiunque era sospetto di nascondere il grano. La polizia politica entrava casa per casa, con pertiche di ferro con cui ispezionava (e distruggeva) le misere capanne di legno dei contadini, sequestrando ogni singolo chicco di grano. Ai contadini stessi non veniva lasciato nulla. Nessuno poteva fuggire. Venne reintrodotto un sistema rigidissimo di passaporti interni. Nessuno poteva neppure raggiungere le città. In tempi di carestia naturale, le città fanno la fame, i contadini hanno sempre qualcosa da mangiare. In una carestia artificiale, come quella provocata da Stalin in Ucraina, le campagne morivano, le città ricevevano provviste dalle autorità centrali, a sufficienza da sfamare operai e funzionari. Chi provava a entrare nelle città, alla ricerca di un po' di cibo, veniva cacciato o arrestato, oppure bastonato e lasciato morire. I casi di cannibalismo si moltiplicarono. La fame provocò un impazzimento collettivo. Testimonianze di sopravvissuti ci ricordano di persone trasformate completamente, ridotte all'inedia o ad una condizione di automi famelici, disperati, pronti a tutto. Tutta l'Ucraina si riempì di fosse comuni.
    Non esiste una contabilità dell'Holodomor. Esistono solo stime demografiche che variano da 3 a 7 milioni di morti. La più probabile è di 4,5 milioni di vittime, in un unico anno. Una mattanza simile, per dimensioni (anche se in proporzione alla popolazione fu molto maggiore) si vedrà, mezzo secolo dopo, solo in Cambogia, altro regime comunista che collettivizzò di colpo le campagne.
    UN VERO E PROPRIO GENOCIDIO
    Nella lettera di contestazione inviata al governo italiano dall'Ambasciata russa, si leggono i classici tre argomenti contro la definizione di "genocidio": la stessa carestia riguardò non solo l'Ucraina, ma anche il Kazakistan e la Russia meridionale. Non fu deliberato, ma il frutto di "errori gestionali da parte delle amministrazioni regionali delle zone agricole dell'Urss". E infine avvenne in "condizioni climatiche sfavorevoli dei primi anni '30". La prima obiezione non nega il carattere genocida dello sterminio per fame in Ucraina. La popolazione ucraina fu deliberatamente colpita e, contemporaneamente alla fame, venne scatenata anche una purga di tutte le personalità della cultura nazionale locale, un processo di violenta "de-ucrainizzazione". Semmai sono il Kazakistan e i russi delle regioni del Kuban e Caucaso settentrionale che avrebbero tutto il diritto di reclamare la memoria del loro genocidio, ma nessuno può negare che gli ucraini lo abbiano subito. La dinamica della carestia dimostra che fu un atto deliberato. Non solo non vennero inviati soccorsi, ma vennero vietati tutti i possibili aiuti e chiuse tutte le vie di fuga. Quindi non furono "errori gestionali". Infine le condizioni climatiche "sfavorevoli" non impedirono raccolti altrove, in Urss e all'estero, colpirono selettivamente solo le zone agricole soggette a collettivizzazione forzata. Troppo per essere una coincidenza.
    UNA SISTEMATICA CAMPAGNA DI NEGAZIONISMO
    Dell'Holodomor non si parla molto, perché, appunto, il regime staliniano condusse una sistematica campagna di negazionismo in tempo reale. Non si limitò a chiudere l'accesso delle aree colpite dalla carestia, arrivò ad organizzare tour di giornalisti selezionati in zone in cui era stata creata una campagna sovietica completamente artificiale: finti villaggi, comparse, un benessere costruito per essere mostrato all'estero. Ci cascarono in tanti, un giornalista in particolare si fece promotore della disinformazione sovietica: il britannico (premio Pulitzer) Walter Duranty. Tuttora non è chiaro quanto non sapesse o quanto fingesse di non sapere. Ad un diplomatico britannico, successivamente alle sue corrispondenze, confessò di sapere che la popolazione ucraina aveva subito fino a 5 milioni di morti a causa della carestia. Chi sapeva era il console italiano a Kharkov (attuale Kharkiv), Sergio Guadenigo, che inviava a Mussolini fedeli e puntuali rapporti di quanto stava accadendo. Tuttavia, anche l'Italia fascista scelse di non protestare, di non reagire, in un periodo in cui i rapporti con l'Urss era distesi. L'unico giornalista indipendente che documentò fedelmente l'orrore dell'Holodomor fu un altro britannico, Gareth Jones. Tuttavia i suoi articoli non ebbero seguito e furono contestati dalla stessa comunità giornalistica del suo Paese. Jones morì appena due anni dopo, nel 1935, in Manciuria. Si portò nella tomba la verità sconvolgente che aveva visto in Ucraina. Il 1933 fu l'anno dell'ascesa di Hitler in Germania. Da allora, per la stampa internazionale, non ci fu argomento più importante. Quel poco di attenzione per quanto accadeva nell'Urss si spense subito.
    Il voto in Senato può essere considerato un atto tardivo, può essere visto come un atto interessato per motivare la politica estera italiana sulla guerra in Ucraina. Ma intanto afferma una verità troppo a lungo negata.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7473

    GLI INGLESI CHE PREFERIRONO LA MORTE PUR DI RIMANERE CATTOLICI di Roberto de Mattei
    Mi sono trovato in Inghilterra il 29 giugno e mi ha molto colpito l'attaccamento che ancora oggi i cattolici inglesi hanno verso il Papa e verso la Chiesa di Roma. Questo attaccamento ha le sue radici nel doloroso scisma che si consumò nel XVI secolo, strappando l'Inghilterra alla vera fede. L'autore di questo scisma fu il re Enrico VIII, che in preda a una diabolica passione per una damigella di Corte, Anna Bolena, divorziò dalla moglie Caterina d'Aragona e, contro il divieto papale, la sposò nel 1533. Papa Clemente VII non riconobbe il matrimonio e l'anno successivo Enrico VIII fece votare dal Parlamento l'Atto di Supremazia con cui il Regno si separava dalla religione cattolica romana e costituiva una chiesa nazionale, detta poi anglicana, di cui il Re era il capo supremo. Il popolo inglese era cattolico ma furono pochi gli ecclesiastici, i dignitari e gli aristocratici, che osarono mettersi contro il sovrano, sfidando la prigione e la morte che li aspettava.
    SCISMA E GRANDI SANTI
    I primi tra questi furono un eminente laico Tommaso Moro, Cancelliere del Regno, e un vescovo Giovanni Fisher, creato cardinale dal Papa prima del supplizio. Si aprì un periodo di contrastate lotte politiche e religiose, in cui il papa san Pio V scomunicò la regina Elisabetta I, figlia illegittima di Enrico VIII, e il re di Spagna Filippo II tentò di conquistare il Regno d'Inghilterra, ma la Provvidenza aveva disposto altrimenti. Per oltre due secoli la fedeltà a Roma fu testimoniata dall'epopea di una legione di santi, pronti ad affrontare la peggiore delle morti, in difesa della fede cattolica.
    Il condannato, condotto su un carretto al luogo dell'esecuzione, veniva squartato e orrendamente mutilato, ancora vivo e cosciente. Il carnefice dopo aver castrato il suppliziato, gli praticava un taglio nel ventre estraendone gli intestini, che venivano bruciati in un braciere davanti ai suoi occhi. Poi il carnefice gli tagliava la testa e procedeva allo squartamento del corpo. Con un'ascia lo divideva in quattro parti, prima tagliandolo verticalmente poi, orizzontalmente, quindi in altre due metà. I quarti del suo corpo venivano appesi in diversi angoli della città. Sant'Oliviero Plunkett fu l'ultimo martire cattolico inglese, squartato a Londra nel 1681, in seguito al Complotto papista (Popish Plot), una fittizia cospirazione gesuita per assassinare il re Carlo II di Inghilterra, ma in realtà inventata dal fanatico anglicano Titus Oates, per accreditarsi di fronte al sovrano.
    Degli innumerevoli martiri cattolici inglesi, Margarete Pole e quaranta compagni furono beatificati da Leone XIII nel 1886, e altri nove nel 1895. Thomas Hereford e altri centosei martiri vennero beatificati da Pio XI il 15 dicembre 1929. Il 25 ottobre 1970 vennero canonizzati da Paolo VI quaranta martiri, undici dei quali appartenevano al gruppo dei beati del 1886 e ventinove a quello del 1929. Il 22 novembre 1987, infine, Georg Haydock e ottantaquattro cattolici di Inghilterra, Scozia e Irlanda, sventrati a Tyburn, sono stati beatificati da Giovanni Paolo II.
    A Tyburn, proprio accanto al luogo in cui avvenivano le esecuzioni, che si affaccia su Hyde Park, è stato costruito un piccolo convento, dove si prega e si chiede l'intercessione di questi martiri. Vi aleggia lo stesso profumo soprannaturale che si respira in tante cappelle, chiese, santuari e monasteri cattolici del Regno Unito, da Londra fino alle brume della Scozia e alle coste della Cornovaglia
    SANTI PIETRO E PAOLO, FESTA NAZIONALE INGLESE
    La festa dei Santi Pietro e Paolo che, il 29 giugno in Italia è di precetto solo per la diocesi di Roma, in Inghilterra è festa obbligatoria sul suolo nazionale e quel giorno si recita una bella preghiera che esprime tutto l'amore di questo popolo per la Cattedra di Pietro.
    Questa è la preghiera, rivolta a San Pietro:
    "O Beato Principe degli Apostoli, Vicario di Cristo, Pastore di tutto il gregge, Roccia su cui è costruita la Chiesa! Noi ringraziamo il Principe dei Pastori, che nelle epoche della fede ha legato questa terra così dolcemente e fortemente a voi e a quella sede di Roma da cui venne la sua conversione. Noi lodiamo e benediciamo Nostro Signore per quegli intrepidi confessori che hanno dato la vita per il vostro onore e il vostro primato, nell'ora in cui lo scisma e l'eresia divisero la nostra terra. Noi desideriamo ravvivare lo zelo, la devozione e l'amore dei tempi passati. Per quanto è in nostro potere, noi consacriamo il nostro Paese, con fervore ed amore, a Voi. Vi offriamo il nostro omaggio, rinnoviamo la nostra fedeltà al Pontefice, vostro Successore, che ora occupa la Sede Apostolica. Con la vostra potente intercessione confermate e rafforzate la fede dei Pastori e del popolo che vi invoca. Salvateci dall'apostasia, dalla disunione, dall'indifferenza religiosa e dalle perdite a cui l'ignoranza e la tentazione espongono il nostro piccolo gregge. O umilissimo e sincerissimo penitente, otteneteci lacrime di vero pentimento per i nostri peccati ed un amore ardente al Nostro Divin Maestro. O Clavigero del Regno dei Cieli, apriteci le porte del Cielo affinché possiamo entrare nel gaudio del Re della gloria. Ricordatevi del Regno d'Inghilterra che è cresciuto in grazia ed unità sotto la benedetta influenza apostolica per circa mille anni. Pregate Gesù affinché tutti possano ottenere la luce e ritornare al vostro gregge, che è l'unico gregge di Cristo."
    Non è una preghiera inglese, è una preghiera universale, come ogni preghiera cattolica. Oggi il fumo di Satana che, secondo le parole di Paolo VI, è penetrato all'interno del Tempio di Dio, avvolge la stessa Cattedra di Pietro, ma proprio per questo bisogna aumentare il nostro amore per il Papa e per il Papato, per la Roma immortale, di martiri e di santi, che inviò apostoli e missionari in ogni angolo della terra per diffondere la verità del Vangelo. Oggi c'è bisogno di nuovi apostoli che dall'Inghilterra alla Russia convertano il mondo alla Santa Chiesa romana, l'unica che è veramente una, cattolica e apostolica, e che ha nel successore del Beato Pietro, Vicario di Cristo, il suo fondamento. La preghiera è necessaria.

  • VIDEO: Martina Navratilova - Jimmy Connors ➜ https://www.youtube.com/watch?v=jGRIf7e6fP0

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7462

    QUANDO LE WILLIAMS PERSERO DAL TENNISTA MASCHIO NUMERO 203 di Riccardo Bisti
    Fosse successo oggi, non li avrebbero collocati sul campo 17 di Melbourne Park. Ci sarebbe stata la diretta TV, migliaia di persone si sarebbero ammassate in tribuna e l'hashtag avrebbe fatto tendenza. Per ricordare l'improvvisata Battaglia dei Sessi di Melbourne, invece, bisogna affidarsi all'antico strumento dei testimoni oculari. Neanche le riviste specializzate dell'epoca - pensate un po' - diedero grande risalto alla lezione che Karsten Braasch rifilò a Serena e Venus Williams, allora giovani rampanti del tour. 23 anni dopo sono diventate star planetarie e ricordano malvolentieri quel pomeriggio del 27 gennaio 1998. Se possono, evitano del tutto. Venus aveva già raggiunto la finale allo Us Open (persa contro Martina Hingis), mentre papà Richard (inascoltato) diceva che la sorella minore sarebbe stata ancora più forte. Le due si affrontarono al secondo turno nel primo episodio di una saga infinita. Ma nessuno immaginava cosa sarebbe successo pochi giorni dopo.
    Durante una conferenza stampa, alcuni giornalisti confrontarono lo stile aggressivo delle sorelle con quello del tennis maschile. La 16enne Serena rispose a gamba tesa: "Durante il torneo mi sono allenata spesso con gli uomini e li ho visti lavorare. Onestamente credo di poter battere un uomo fuori dai primi 200 ATP". Un tour manager particolarmente arguto pensò che sarebbe stato divertente organizzare la sfida. Diede un'occhiata alla classifica mondiale, la confrontò con i giocatori ancora presenti a Melbourne e si accorse che al numero 203 (qualche settimana prima era stato esattamente n.200) si trovava Karsten Braasch, 31 anni, tedesco. Era stato eliminato al primo turno dopo aver superato le qualificazioni ed era il profilo giusto: ex n.38, in declino, personalità particolare, vizio del fumo, occhiali da vista e un servizio dal movimento stranissimo, imparato chissà dove. Per la sua personalità, in Germania dicevano che era il Mario Basler del tennis. "Mi accennarono la possibilità di questa sfida, pensando che fossi il candidato perfetto - racconta Braasch - non c'è voluto molto per convincermi, mi sembrava divertente".
    LA SFIDA E LA MANCATA RIVINCITA
    L'avvicinamento al match non fu semplice, poiché le Williams erano già popolarissime e la sfida fu rinviata un paio di volte a causa dei loro impegni. "In questi casi è importante rimanere rilassati e non prenderla troppo sul serio - dice Braasch, soprannominato "Katze", gatto - la mia preparazione è stata una partita di golf al mattino, poi ho bevuto qualcosa e fumato le mie immancabili sigarette. Mi sono presentato sufficientemente rilassato". Il match si è giocato sul Campo 17, davanti a uno sparuto gruppo di spettatori e un paio di giornalisti. Come era accaduto qualche anno prima a Jimmy Connors contro Martina Navratilova, il tedesco ha rinunciato alla seconda di servizio. Nonostante il vantaggio, per Serena è stato un incubo. In pochi minuti è piombata sullo 0-5: temeva il cappotto, ma ha raccolto il game della bandiera. Non è dato sapere se Braasch gliel'abbia concesso o meno. Sul finire della partita, è arrivata Venus. Aveva appena terminato la conferenza stampa dopo la sconfitta contro Lindsay Davenport. In un atto di solidarietà familiare, ha sfidato Braasch per vendicare la sorella. Risultato? 6-2 per il mancino di Marl, cresciuto nella Germania operosa della Ruhr.
    "Entrambe colpiscono la palla molto bene - dice Braasch - ma se hai frequentato il circuito ATP possiedi alcune armi che le metteranno in difficoltà. Le rotazioni, per esempio: noi siamo in grado di dare effetti che non sono abituate a fronteggiare. E poi la preparazione atletica: hanno tirato alcuni colpi che in campo femminile sarebbero stati vincenti, invece io li ho rimandati di là. Il clima era sereno, non l'abbiamo presa troppo sul serio, ci siamo divertiti". Non tutti ricordano che - dopo la batosta - Venus e Serena hanno rilanciato, abbassando le pretese. Volevano sfidare di nuovo un uomo, spostando però l'asticella al n.350 ATP. "Ho detto loro che bastava aspettare qualche settimana e mi avrebbero potuto sfidare di nuovo!". Già, perché a fine torneo Braasch perse i punti del terzo turno raccolto l'anno prima e a fine torneo precipitò al numero 339. La rivincita non si è mai tenuta: Braasch ha visto Venus qualche mese dopo, al Roland Garros: "La nostra rivincita non si è svolta!" disse la Williams con un sorriso, salvo poi scappare via. Meglio non alimentare l'idea di una rivincita.
    SERENA: "GLI UOMINI SONO MOLTO PIÙ FORTI"
    Oggi Braasch è un simpatico 53enne che si diletta nei tornei senior, rassegnato ad essere ricordato soprattutto per quella partita giocata bevendo birra e fumando ai cambi di campo. Come Antonin Panenka per il suo rigore a cucchiaio, o Olivier Panis per la sua vittoria a Monte Carlo, sa che glielo chiederanno fino alla fine dei suoi giorni. Al contrario, Serena ha fatto il possibile per cancellare il ricordo. Nel 2017, anno dell'ultima finale Slam in famiglia, i giornalisti le hanno chiesto un ricordo. "Mi ero già dimenticata di lui - ha risposto imbarazzata - non ricordo nemmeno in che anno sia successo". Qualche mese dopo, John McEnroe ha detto che una Serena al meglio avrebbe potuto collocarsi intorno al numero 700 ATP. Curiosamente, in quel momento si trovava in 701esima posizione Dmitry Tursunov. Qualcuno provò a solleticarlo, ma lui tenne alla larga le suggestioni: "Discutere su questo è come cercare di capire chi è più veloce, l'uomo o la donna. Il tennis richiede grande forza fisica, quindi per una donna è molto complicato battere un uomo".
    Questa storia quasi dimenticata, tuttavia, è servita a cancellare ogni discussione sulla possibilità di una reale sfida tra sessi. Il mitico Riggs-King ebbe troppe influenze sociali e culturali per essere ritenuto attendibile (e qualcuno giura che Riggs scommise una bella cifra contro se stesso), mentre gli altri match di questo tipo erano state semplici esibizioni. Le sorelle Williams hanno avuto bisogno di toccare con mano il divario per tornare a miti consigli. Nel 2010 Serena ha ammesso l'enorme differenza tra i due circuiti. "Credo che tennis maschile e femminile siano molto diversi. Gli uomini sono molto più forti. È come mischiare mele con pere. Non avrei nessuna possibilità contro un top-100". Qualche anno dopo, Andy Murray (uno dei pochissimi uomini che segue con interesse il tennis femminile) disse che gli sarebbe piaciuto affrontarla. "Davvero? Ne è sicuro? - disse Serena - sarebbe divertente, ma credo che non riuscirei a fare un punto". Realismo travestito da umiltà. Per rendersi conto della realtà, aveva dovuto prendere una stesa da un tabagista tedesco con barba e occhiali da vista. Non fosse successo per davvero, sembrerebbe un film.
    Nota di BastaBugie: alla voce "Battaglia dei sessi (tennis)" su Wikipedia si possono leggere le seguenti informazioni.
    Nel tennis il termine battaglia dei sessi (in inglese Battle of the sexes) è riferito a tre famosi incontri giocati tra un uomo e una donna. In particolare il secondo ebbe grande risalto mediatico per via della vittoria della giocatrice.
    1) BOBBY RIGGS - MARGARET COURT (13 MAGGIO 1973)
    Il campione degli anni trenta e quaranta Bobby Riggs nel 1973 affermò pubblicamente che nonostante la sua età (55 anni all'epoca) egli sarebbe stato in grado di battere anche le migliori giocatrici donne. Inizialmente sfidò Billie Jean King ma questa rifiutò l'incontro, subentrò quindi Margaret Court (all'epoca trentenne e numero 1 della classifica femminile). Il match apparve fin dall'inizio dall'esito incerto, tuttavia la maggior parte degli appassionati riteneva favorita la Court a causa dell'età di Riggs e del suo essere fuori forma da molti anni ormai.
    La partita si disputò a Ramona; Riggs si era preparato a dovere fisicamente ma soprattutto tatticamente, infatti utilizzando dei lob e dei drop shot riuscì a mandare subito in crisi la Court, infliggendole una dura sconfitta. Dopo questo incontro Riggs apparve sulla copertina di Sports Illustrated e del Time.
    2) BOBBY RIGGS - BILLIE JEAN KING (20 SETTEMBRE 1973)
    Delle tre partite questa è quella che viene maggiormente ricordata, al punto che molti la indicano come La battaglia dei sessi, ignorando le altre. Questa partita fu giocata al meglio dei 5 set.
    Dopo aver rifiutato il precedente incontro, Billie Jean King, all'epoca ventinovenne e numero 2 della classifica femminile, fu convinta a giocare da una ottima offerta economica. A differenza della Court, King si preparò a dovere all'incontro e giocando frequenti smorzate costrinse Riggs a giocare un Serve & Volley per lui innaturale e soprattutto troppo dispendioso dal punto di vista energetico. Questa strategia portò King alla vittoria di fronte a 30.000 spettatori ed ebbe grande risalto mediatico. La partita fu vista in televisione da oltre 90 milioni di persone.
    Il film

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7398

    PER MATTARELLA L'ITALIA E' FIGLIA DELL'ANTIFASCISMO E DELLA RESISTENZA di Roberto De Mattei
    Negli ultimi giorni, in Italia, si è discusso molto di antifascismo e di resistenza. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando a Cuneo, ha affermato che il 25 aprile è la festa della identità italiana, ritrovata e rifondata dopo il fascismo. L'Italia è figlia dell'antifascismo e della resistenza, ha aggiunto, e le parole del giurista Piero Calamandrei "Ora e sempre resistenza", costituiscono un programma ideale.
    Osserviamo che il ventesimo secolo è stato il secolo dei totalitarismi e delle dittature: comunismo, nazionalsocialismo, fascismo. Tra il 1939 e il 1945 si è combattuta una guerra mondiale in cui le democrazie occidentali, alleate al comunismo sovietico, hanno vinto il nazismo e il fascismo. Nella seconda metà del Novecento, scomparsi dalla scena nazismo e fascismo, sono rimaste, l'una di fronte all'altra, divise dalla Cortina di Ferro, le democrazie liberali e la Russia comunista, con i suoi paesi satelliti. Il crollo del muro di Berlino, nel 1989, e l'autodissoluzione dell'Unione Sovietica, nel 1991, hanno segnato la fine dell'anticomunismo, ma non quella del comunismo. Lo prova il fatto che oggi mentre tutti si dicono antifascisti, in assenza di fascismo, nessuno si dice anticomunista, in presenza di regimi politici che si richiamano esplicitamente al comunismo, come la Cina, di Xjnping, ma anche la Russia di Putin, che ancora inneggia a Stalin, come ad un eroe nazionale. La storiografia condanna in blocco come male assoluto il fascismo, ma per quanto riguarda il comunismo scompone il blocco tra l'ideale comunista e la sua realizzazione pratica e tra i diversi comunismi che si sono realizzati.
    IL FANTASMA DELL'ANTIFASCISMO
    Il filosofo Augusto Del Noce, scomparso nel 1989, ci offriva oltre cinquant'anni fa, una chiave di interpretazione di questa concezione della storia. Ciò che allora accadeva, e che ancora oggi accade, è che i comunisti utilizzavano il fantasma dell'antifascismo e della resistenza, per combattere non il fascismo, ma una concezione della società che con il fascismo non ha niente a che fare, ma al comunismo direttamente si oppone: quella visione tradizionale del mondo, fondata sul trinomio "Dio, patria e famiglia", che il comunismo vuole estirpare nel suo progetto di secolarizzazione della società Per compiere quest'operazione culturale, gli intellettuali progressisti elevano la resistenza da fatto storico quale essa fu a mito ideale, assumendola come spartiacque tra due ere della storia, l'oscura, legata ai valori tradizionali e la progressiva, fondata sull'abbandono di questi valori e sulla mitologia di un uomo nuovo, emancipato da ogni legge naturale e divina.
    La resistenza, affermava Augusto Del Noce fu un momento della seconda guerra mondiale, ed è in rapporto a essa che, sul piano internazionale, dev'essere intesa. Essa svolse un ruolo storico, ma in Italia si pose in continuità e non in discontinuità con il fascismo, di cui accolse proprio il concetto di "fascio", cioè di coalizione ideale tra forze divergenti per un progetto comune. Il "fascio" di Mussolini in seguito alla sconfitta nella seconda guerra mondiale si frantumò nelle varie forme che unificava e nacque un nuovo "fascio" antifascista, per cui i fascisti di tendenza liberale raggiunsero i liberali antifascisti, i fascisti cattolici si unirono ai cattolici antifascisti, i fascisti di sinistra io socialisti, agli azionisti ai comunisti; e così via. Al momento della caduta di un regime in cui monarchia e fascismo erano unificati, divampò una guerra civile, in cui, sotto l'aspetto ideologico, spesso le due parti, che erano formate da fascisti, antifascisti ed ex-fascisti, si confondevano; e come accade nelle guerre, ogni parte ebbe i suoi eroi e i suoi vili, i suoi ingenui e i suoi furbi, i suoi onesti e i suoi profittatori.
    TUTTI I BUONI DA UNA PARTE, TUTTI I CATTIVI DALL'ALTRA
    Per gli intellettuali progressisti, però, tutti i buoni stavano da una parte, tutti i cattivi dall'altra. Da qui la mitizzazione della resistenza, considerata come "unità ideale" delle forze del progresso contro il "male radicale", individuato non tanto nel fascismo, quanto in ogni visione della storia fondata sui valori tradizionali. La resistenza invece di essere un elemento da situare nella storia, divenne il metro stesso della valutazione della storia, l'antifascismo una categoria ideale contro un nemico che non è più il fascismo storico, ma è la visione del mondo di chi resiste alla dissoluzione dei valori e delle istituzioni tradizionali.
    Dunque le parole "ora e sempre resistenza" non hanno senso se sono applicate a un fascismo inesistente. E' vero che la vita è lotta e dobbiamo resistere contro i nemici che ci aggrediscono. Ma quali sono i veri nemici che ogni giorno ci troviamo a combattere? Innanzitutto il male morale, che ha le sue radici nel peccato originale e che si esprime nella concupiscenza che portiamo dentro di noi. A questo nemico interno si aggiungono il mondo e il demonio. Dobbiamo resistere al mondo, che san Giovanni dice immerso tutto nel male (1 Gv, 5, 19 e dobbiamo resistere al demonio, che è un essere personale e reale, che san Pietro paragona a un leone ruggente che cerca di divorarci (1, Pt, 5, 8). Ma dobbiamo resistere anche ai nemici della Chiesa e della nostra civiltà, che sono quotidianamente all'opera. Questi nemici sono tanti, e tra questi non c'è più il fascismo, ma c'è ancora il comunismo, che definisce fascisti i suoi avversari. Ed è innanzitutto contro il comunismo, in tutte le sue versioni, che proclamiamo "ora e sempre resistenza" il 25 aprile, festa di una ritrovata libertà che rischiamo nuovamente di perdere.
    Nota di BastaBugie: Stefano Magni nell'articolo seguente dal titolo "Il vero male del fascismo: il culto dello Stato" spiega che la dottrina fascista è una teoria statalista che anche oggi è incontrastata. Per cui l'antifascismo, da questo punto di vista, è identico al fascismo.
    Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 27 aprile 2023:
    "Fascismo" è la parola più abusata nel dibattito politico di questo mese, che si concluderà, passato il 25 aprile, solo con le celebrazioni del 1° maggio. Si tratta, tuttavia, di un insulto ormai scollegato dalla realtà storica. Si dà del "fascista" al prepotente che non ti lascia parlare, all'estremista che ricorre facilmente alle mani, al politico che vuole imporre legge-e-ordine.
    Al tempo stesso, il "fascismo" è inteso come periodo storico, una pagina negativa della storia di cui si chiede continuamente una ferma condanna. Gianfranco Fini, autore della svolta che mutò il Movimento Sociale Italiano in Alleanza Nazionale, il 25 aprile ha chiesto pubblicamente a Giorgia Meloni di abiurare il fascismo. La premier ha scritto una lettera aperta al Corriere della Sera, condannando tutti i totalitarismi, in generale, e i suoi critici l'hanno accusata di non aver avuto il coraggio di condannare il fascismo, in particolare. La Russa, dopo una serie di uscite che non lo hanno aiutato certamente a superare la sua etichetta di fascista nostalgico, ha rifiutato di rispondere alle insistenti domande di un cronista de La Stampa che gli chiedeva se si "sentisse antifascista".
    Ma non sappiamo realmente da cosa si debba prendere le distanze. A rendere complicata la memoria su cosa fu il fascismo, furono i fascisti stessi che aveva idee tutt'altro che chiare. Nel suo manifesto Origini e dottrina del fascismo, del 1932, Mussolini ammette: "Il fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in precedenza, a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione; non fu partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento".
    Il fascismo elaborò una sua dottrina solo stando al governo. Ma ciò non vuol dire che non vi fosse un pensiero. Vi è una chiara continuità fra le leggi e le politiche perseguite dal regime almeno dall'inizio della dittatura (1925) alla sua sconfitta militare finale nel 1945.
    La definizione di "totalitarismo" non è un'invenzione di Hannah Arendt o di qualche politologo del secondo dopoguerra, ma è un'aspirazione del regime fascista. Scriveva Mussolini: "Si può pensare che questo sia il secolo dell'autorità, un secolo di «destra», un secolo fascista; se il XIX fu il secolo dell'individuo (liberalismo significa individualismo), si può pensare che questo sia il secolo «collettivo» e quindi il secolo dello Stato". E più esplicitamente: "Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per il fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono «pensabili» in quanto siano nello Stato". Il filosofo Giovanni Gentile autore delle Idee fondamentali nella dottrina fascista, nega che la nazione nasca dalla tradizione o dal consenso, ma ritiene che sia lo Stato a plasmarla: "Questa personalità superiore è bensì nazione in quanto è Stato. Non è la nazione a generare lo Stato, secon

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7337

    NESSUNO ATTENDEVA LA FINE DEL MONDO PER L'ANNO MILLE di Marco Di Matteo
    Un mito storiografico ci presenta la società europea al termine del X secolo come paralizzata, per colpa di una superstizione cristiana, dal terrore della prossima fine del mondo, che si credeva coincidente con il compimento del millesimo anno dalla nascita di Cristo. Per prepararsi adeguatamente alla mezzanotte di S. Silvestro del 999, gli uomini del tempo avrebbero abbandonato ogni attività e si sarebbero dedicati solo alle opere di preghiera e di penitenza; essi inoltre sarebbero accorsi ad offrire ai monasteri i propri beni e tesori, per ottenere il perdono delle colpe. Vedendo poi spuntare l'alba del nuovo millennio, avrebbero tirato un sospiro di sollievo e si sarebbero impegnati con gioia e rinnovata alacrità in tutti i campi della vita.
    UN MITO STORIOGRAFICO
    In realtà questa ricostruzione è puramente immaginaria e si basa su leggende inventate circa cinquecento anni dopo tali presunti eventi, che compaiono per la prima volta negli Annales del monaco benedettino occultista Giovanni Tritemio (1462-1517).
    Nel Settecento anche alcuni ecclesiastici, soprattutto benedettini, animati dall'intento di purificare la devozione religiosa da ogni elemento superstizioso, hanno accreditato la leggenda dei terrori dell'anno Mille, che essi intendevano condannare alla stregua di tutte le altre manifestazioni di barbarie del passato. Poi, le immagini di queste presunte paure e superstizioni collettive furono riprese prima e durante la Rivoluzione Francese da philosophes e pamphletisti anticlericali, che accusavano la Chiesa non solo di aver diffuso credenze irrazionali tra il popolo, ma di averle sfruttate ingannevolmente per incitare nobili, borghesi e contadini a donare i loro beni ai conventi e alla Chiesa. Sulla base di tale arbitraria ricostruzione, in Francia, nel 1791, si giustificò la confisca dei beni del clero, che fu presentata come una doverosa restituzione al popolo di ricchezze sottratte con sotterfugi nei "secoli bui".
    In età romantica diversi storiografi, in primis Jules Michelet, bramosi di scene tragiche e apocalittiche, diedero pieno credito a tali leggende, raccontando in termini melodrammatici le angosce del popolo cristiano alla vigilia del Millennio. Nel 1876 Le Dictionnaire Universel Larousse conferì un'ulteriore consacrazione a questo mito storiografico, contribuendo a diffonderlo nei manuali scolastici. In Italia soprattutto Giosuè Carducci accreditò tali fantasie nei suoi Discorsi sullo svolgimento della letteratura nazionale.
    LA VERITÀ STORICA
    Se questa è la leggenda, che cosa in realtà ci raccontano le fonti coeve o di poco posteriori al Mille?
    Cominciamo col dire che anche questa, come tutte le menzogne, parte da un nucleo di verità: da un lato l'attesa escatologica, biblicamente fondata, della seconda venuta di Cristo, che ha sempre accompagnato la storia della cristianità, soprattutto medievale (alimentando talvolta tendenze millenaristiche poi condannate dalla Chiesa); dall'altro, l'evidente fioritura demografica, economica, artistica ed intellettuale che ha caratterizzato l'Europa dopo il Mille.
    Tutto questo però non avalla la tesi dei terrori dell'anno Mille, perché dalle fonti non risulta alcun indizio del fatto che l'umanità, al volgere del X secolo, fosse triste e inerte nell'attesa della fine. Al contrario, tutti i documenti ci presentano un'umanità che vive come sempre, lavorando e progettando per il futuro, come se avesse davanti a sé tutto l'avvenire. Le centocinquanta bolle papali pubblicate dal 970 al 1000 non fanno menzione della fine del mondo. I venti concili svoltisi dal 990 al 1000 non accennano a questa drammatica scadenza, al contrario legiferano per gli anni successivi al Mille, a dimostrazione che i vescovi non credevano all'imminente catastrofe (ad esempio nel 998 il concilio di Roma imponeva al re di Francia Roberto II una penitenza di sette anni, quindi fino al 1005). Il 31 dicembre 999 Silvestro II riconfermava Arnoldo arcivescovo di Reims. I Veneziani si impadronivano dell'Istria e della Dalmazia nel 998-999 e, nello stesso periodo, Stefano d'Ungheria otteneva dal Papa il titolo di re. Inoltre dal 950 al 1000 solo in Francia furono costruiti o restaurati circa centoventi monasteri. [...]
    Ci sono inoltre chiare attestazioni di come gli uomini di Chiesa si adoperassero per sconfessare le profezie apocalittiche circolanti in certi ambienti: quando il 22 dicembre 968 si verificò un'eclissi totale di sole che spaventò l'armata di Ottone I, il vescovo di Liegi rassicurò i soldati sostenendo il carattere naturale del fenomeno; Abbone di Fleury (945-1004) racconta di aver dovuto in due occasioni confutare pubblicamente false profezie sul prossimo avvento dell'Anticristo.
    Da quanto riportato risulta evidente che la leggenda dell'Anno Mille, come ha riconosciuto anche lo storico Georges Duby, rappresenta una delle tante manifestazioni di ingiustificato disprezzo nei confronti delle proprie radici medievali da parte della cultura occidentale.

  • VIDEO: George Lemaître e il Big Bang ➜ https://www.youtube.com/watch?v=q1MUSvVb41A&list=PLolpIV2TSebWIWP-3gYxkN2LbjB79Fu2F

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7299

    IL MEDIOEVO, UN'EPOCA DI STRAORDINARIA LUCE di Francesco Agnoli
    Da dove nasce l'espressione, oggi così spesso impiegata, del «buio Medioevo»? Semplice: dagli "illuministi". È noto che mentre Socrate afferma di «sapere di non sapere», Agostino d'Ippona e Nicola Cusano definiscono l'uomo un «dotto ignorante» e Isaac Newton si paragona a un bambino, pieno di curiosità e d'ignoranza insieme, gli illuministi si considerano invece "adulti" pienamente razionali, avviati verso le «magnifiche sorti e progressive» tanto derise da Giacomo Leopardi. Il marchese di Condorcet, nel suo Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, descrive infatti la storia umana come un'arrestabile ascesa verso la felicità. Per costui, dopo i secoli medievali, oscuri e tetri, la storia ha ormai preso una piega differente. «Lo stato attuale dei lumi», scrive, «ci dice che essa [l'epoca ventura, ndr] sarà felice...» perché sta per giungere «il momento in cui il Sole non illuminerà più sulla terra che uomini liberi che non riconoscano altra guida che la ragione: in cui i tiranni e gli schiavi, i preti e i loro sciocchi o ipocriti strumenti non esisteranno più che nella storia o nei teatri». La pensa così anche il più agguerrito polemista del Settecento, quel Voltaire che bolla i secoli più segnati dal cristianesimo come «tenebrosi e intolleranti» e vede nel Rinascimento l'annuncio della luce piena, giunta, finalmente, con l'Illuminismo (e con lui stesso). A ben vedere tutto il Settecento è segnato da questa convinzione, che sarà ereditata dai secoli successivi: il passato da buttare, il presente e il futuro forieri di una vera e propria salvezza e redenzione terrena, di un regnum hominis capace di svelare l'onnipotenza della ragione umana. Poco importa che poi la luce della ragione trionfi solo nella fantasia e che lo stesso Condorcet finisca condannato a morte da quei giacobini che tagliano teste a ritmo continuo per eliminare "fanatici" e oscurantisti, compreso quell'Antoine-Laurent de Lavoisier, padre della chimica moderna, ucciso nel "radioso" 1794.
    MARX E MUSSOLINI
    Oggi sappiamo bene che la marcia trionfale dell'uomo illuminista si schianta sulla ghigliottina e sui 23 anni di guerra scatenati dai giacobini... eppure quel sogno continuerà a vivere anche dopo. «Civette del Medioevo» è l'insulto con cui il leader socialista Benito Mussolini apostrofa i sacerdoti cattolici, mentre ripete con Marx che «la religione è l'oppio dei popoli» e annuncia un radioso futuro: «Dietro di noi, quindi, un passato di tenebre; davanti, un avvenire di luce». [...] Non possiamo qui soffermarci sulla luce irradiata dal terrore dei giacobini e dei loro epigoni (in primis i comunisti), ma solo chiederci cosa ci sia di vero nella descrizione del Medioevo cui si è accennato, ricordando, per brevità, che accanto al Medioevo vero e proprio esiste un fanta-Medioevo, zeppo di torturatori, terrapiattisti e cinture di castità, esistito soltanto nella penna dei romanzieri e dei falsari dell'Ottocento, desiderosi di venire incontro al gusto diffuso per il macabro e il gotico. La realtà storica però fu diversa. In estrema sintesi, ricordiamo anzitutto che il Medioevo è diviso in due: l'alto Medioevo, dal 476 al 1000, e il basso Medioevo, dal 1000 al 1492. Ebbene, la prima parte è sicuramente la più cupa: l'Impero romano è crollato, le invasioni barbariche e islamiche rendono la vita dell'Europa piuttosto grama. Eppure questo buio è come quello del grembo materno: annuncia una nascita, un venire alla luce.
    LA REALTÀ STORICA
    Infatti, con l'affermarsi di una pace duratura, esplode una civiltà nuova, davvero luminosa, segnata tra l'altro dalla civilizzazione dei germani e degli altri barbari. Sì, la cristianità basso medievale è un periodo storico, che, pur evitando eccessive idealizzazioni, ha pochi paragoni nella storia: nascono i Comuni medievali, la massima espressione di libertà e di "democrazia" realizzata sino ad allora, e con essi le banche, i Monti dei pegni e i primi ospedali degni di questo nome. È in quest'epoca che la ragione umana, intesa come dono di Dio, genera le università e stimola una corsa alla produzione libraria assolutamente unica, portando all'invenzione della carta di Fabriano e a quella della stampa (imprimendo così un'accelerazione inaudita nella diffusione della conoscenza); è in questi secoli che Mondino de' Liuzzi apre alla nascita dell'anatomia moderna, e che Nicola di Oresme, Nicola Cusano e molti altri "scienziati in tonaca" minano l'astrologia superstiziosa degli antichi, segnando il passaggio dall'astrolatria all'astronomia e alle intuizioni del devoto canonico Niccolò Copernico. Ma tornando all'immagine della luce e del buio, il basso Medioevo è inondato di luce: è il periodo in cui nascono le vetrate delle chiese e delle case; in cui vengono inventati gli occhiali (probabilmente da un frate di un convento veneziano), e in cui, nell'università francescana di Oxford, prende forma un'importantissima disciplina scientifica, l'ottica o perspectiva. In generale, la luce esercita un fascino incredibile: il frate Ruggero Bacone conosce la scomposizione della luce in vari colori per mezzo di un bicchiere pieno d'acqua e comprende le leggi della riflessione e della rifrazione (sarà un altro religioso, padre Francesco Maria Grimaldi, nel 1665, a scoprire la diffrazione).
    LA BONTÀ DELLA CREAZIONE
    Tutto ciò in continuità con il suo maestro, il vescovo Roberto Grossatesta, autore di un trattatello, il De luce, che viene oggi considerato un capolavoro scientifico. In esso Grossatesta, prendendo spunto dal Fiat lux della Genesi e dai suoi studi su luce, iride e arcobaleno, propone una cosmologia per certi aspetti anticipatoria dell'ipotesi del Bing Bang (anch'essa figlia, secoli più tardi, dell'ingegno di un sacerdote, George Lemaȋtre): l'universo sarebbe nato da un punto di luce, in un istante atemporale che avrebbe dato cominciamento a materia, spazio e tempo, producendo così una "mundi machina", cioè la macchina ordinata del mondo materiale. Al di là delle considerazioni scientifiche [...] quello che emerge da questa visione tipicamente medievale è la bontà della creazione e della natura, che Dio avrebbe creato tramite la luce, cioè il corpo più sottile e spirituale che esista. [...] Il mondo, per questi oscurantisti medievali, è dunque fatto di luce-energia, di una luce che è a suo modo immagine stessa di Dio, perché capace di mostrare la verità, donare bellezza, scaldare e vivificare ogni altra realtà. Il Medioevo che ama i colori, affresca interamente i suoi ospedali, che produce lo «stile della luce» (le cattedrali gotiche), vede la vita dell'uomo come un progressivo aprirsi alla luce: dal buio del grembo materno, alla luce della nascita, sino alla luce piena del Paradiso («che solo Amore e Luce ha per confine»). L'idea che Dio sia la Luce vera, piena, «che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» è, allora, ciò che non può essere perdonato al medioevo dagli illuministi e da quanti ritengono che l'uomo possa essere luce e salvezza a se stesso!