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Di Mariupol è rimasta solo un’idea, i ricordi di chi ci abitava. Mariupol era un porto, una città cosmopolita affacciata sul mare di Azov. Oggi è ridotta in macerie. Quello che sopravvive sono le sue storie, le memorie degli sfollati accolti nell’hotel Dior, un albergo abbandonato a Zaporija trasformato da alcuni volontari in un rifugio per i profughi della città più colpita dalla guerra.
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Igor Trotsak ha ancora in mente il rumore incessante delle bombe che esplodono sulla sua testa, le pareti che tremano, la sensazione che tutto gli cadrà addosso da un momento all’altro. Ha 27 anni, è un ingegnere elettronico e insieme alla moglie Tania, al loro cane Daisy e ai genitori della moglie ha vissuto sottoterra per due mesi nei sotterranei dell’acciaieria Azofstal di Mariupol.
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Le nuvole si riflettono sullo specchio d’acqua che ha invaso le strade e gli orti di Demydiv, un villaggio a nord di Kiev, dove a marzo c’è stata una grossa inondazione. L’alluvione però non è stata causata dalla natura, ma dall’esercito ucraino che ha fatto saltare una diga per fermare l’avanzata dei russi.
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Com’è la guerra vissuta da reporter? E com’è la guerra vissuta da casa? In questa bonus track di Da Kiev, registrata live al Salone del libro di Torino 2022, la giornalista Annalisa Camilli racconta la sua esperienza di reporter a Kiev e come si possa restituire la brutalità di un conflitto senza spettacolarizzare il dolore, e quindi rischiando l'anestesia dello sgomento. Sul palco con lei la scrittrice e giornalista Annalena Benini, autrice del podcast Il Figlio, realizzato da Storielibere.fm per il Foglio, che invece ci descrive la percezione della guerra nella quotidianità di chi può vivere “un’angoscia di lusso”, dal proprio divano e dalla propria cucina, attraverso notiziari, podcast, rassegne stampa e profonde riflessioni che riguardano tutti i membri della famiglia.
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Eugene non riesce più a dormire da quando ha dovuto esumare il corpo di una bambina di sei anni in un villaggio vicino a Buča, una cittadina trenta chilometri a nord-ovest di Kiev. Era morta di stenti nella cantina della sua casa, dopo che la madre era stata uccisa dall’esplosione di una bomba a marzo. La bimba era stata ritrovata senza vita dai vicini che l’avevano seppellita nel cortile di casa, fino a quando Eugene Vusik e una squadra di volontari ucraini non l’hanno esumata per portarla all’obitorio di Buča.
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A due mesi dall’inizio della guerra qualcosa è cambiato: il flusso in uscita è diminuito e nel piazzale davanti alla stazione dei treni è tornata la normalità. In questa seconda fase della guerra le stazioni dei treni sono diventate pericolose, l’aviazione russa ha cominciato a bombardare la rete ferroviaria. Nella prima fase della guerra la strategia dei russi prevedeva che i civili fossero terrorizzati con bombardamenti su edifici pubblici come scuole e ospedali, in modo da favorire la loro fuga nei paesi vicini. Ora che la maggior parte delle persone sono partite dai territori in cui si combatte, le ferrovie sono diventate un bersaglio dei bombardamenti russi perché da queste infrastrutture arrivano anche i rifornimenti e le armi per l’esercito in prima linea.
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A due mesi dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il dibattito pubblico ha perso ogni limite e anche il senso della realtà. Ci si divide come allo stadio, si mettono in discussione perfino i fatti, la cronaca degli avvenimenti. Non è che non sia auspicabile un dibattito pubblico argomentato sull’opportunità di inviare armi a Kiev, o sul livello di coinvolgimento dell’Italia e dell’Europa nel conflitto, ma per l’appunto quello è il campo delle opinioni che dovrebbero essere fondate sulla conoscenza dei fatti. Una conoscenza obiettiva e completa, aiutata da analisi fredde e informate del contesto.
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È la più grossa crisi dei rifugiati dalla seconda guerra mondiale e nei prossimi anni questa potrebbe essere uno dei focolai di nuovi populismi. Queste persone che scappano dalla guerra seguono i loro legami familiari o elettivi, provano ad andare nei posti in cui hanno qualche parente o conoscente. Ma portano con sé solo qualche vestito, i documenti e le foto, lo stretto necessario. Gli animali domestici, molti cani e gatti. Lasciano indietro quasi tutto.
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Gli abitanti di Kiev che sono rimasti continuano a prepararsi a una battaglia che, se avvenisse, sarebbe probabilmente una guerriglia strada per strada, un bagno di sangue. Intanto c’è uno strano sentimento di scampato pericolo: tutti si aspettavano un rapido assedio, invece da qualche giorno la tensione sulla città sembra essersi allentata. Il coprifuoco che prima durava dalle otto di sera alle sette di mattina è stato ridotto, ora comincia alle nove di sera. Così dopo più di un mese dall’inizio della guerra, Kiev sopravvive in una quotidianità surreale: c’è un unico bar ancora aperto che serve alcol, anche se la legge marziale lo vieterebbe. Un ricordo sbiadito della vita di prima, della vita prima della guerra.
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A Kiev c’è un ponte che separa la vita dalla morte, dietro le spalle il fuoco dei cecchini, davanti la speranza della salvezza. È il ponte di Irpin, che è stato fatto saltare dagli ucraini per rallentare l’avanzata russa a nord-ovest della capitale. È sotto quel ponte che arrivano gli sfollati in fuga dalle zone che sono già nelle mani dei russi: Irpin, Buča, Hostomel. È su quel ponte che passa la linea del fronte: i russi e gli ucraini combattono da giorni con cecchini e artiglieria per controllare quel passaggio che porta dritto a Kiev.
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Le cantine, i garage, le stazioni della metropolitana sono diventate una città parallela: in superficie la capitale ucraina è semideserta, i negozi chiusi, tutte le attività sospese, il coprifuoco dalle cinque del pomeriggio alle sette di mattina. La vita si è nascosta sotto terra. Mentre più della metà della popolazione se n’è andata, l’altra metà si è trasferita nel sottosuolo.
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Sono già cinque i giornalisti morti in uno dei conflitti più pericolosi della storia recente. Pericoloso perché si combatte con l’artiglieria, pericoloso perché nelle zone contese i cecchini sparano all’impazzata sui civili e anche sui giornalisti. Per seguire la guerra in Ucraina si sono accreditati nel media center di Leopoli più di duemila giornalisti e fotografi e questo è un bene, perché nelle guerre la prima vittima è la verità. Da una parte e dall’altra gli eserciti si affrontano a colpi di propaganda e anche in questa guerra abbiamo visto un livello alto di notizie false e di manipolazioni. Per questo è importante che i giornalisti abbiano accesso alle zone di conflitto e siano protetti, perché anche nel caos di una guerra è necessario che ci siano testimoni capaci di osservare, registrare, denunciare.
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Dopo tanti annunci, la guerra è arrivata nel cuore della capitale con i suoi segni: le esplosioni, le sirene, i palazzi che tremano, i vetri che si rompono, i morti. Nell’aria c’è un odore acre di esplosivo, misto a una polvere che sembra carbone. In quasi tre settimane dall’inizio della guerra più della metà dei 3,4 milioni di abitanti della capitale ucraina sono scappati. Quelli che sono rimasti si sono trasferiti nel sottosuolo e dormono nei rifugi antiaerei. Il sindaco della capitale Vitali Klitschko il 15 marzo ha annunciato un coprifuoco di 36 ore che comincia stanotte e finirà alle 7 del 17. Ma è la notte che fa paura, quando scendono le tenebre e le sirene ricominciano a suonare e tutti si chiedono verso dove saranno lanciati i razzi e chi sarà questa volta a essere colpito, come in una lotteria macabra.
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Dall’alba del 24 febbraio l’Ucraina è sotto attacco. A Kiev si combatte da più di due settimane. La città è attaccata da Nord-ovest e pure da Nord-est. Il rischio è che presto sia isolata e sotto assedio. Le sirene di notte suonano di continuo, metà della popolazione è scappata e l'altra metà vive nei sotterranei per difendersi dai bombardamenti. Nel podcast Da Kiev, Annalisa Camilli inviata in Ucraina racconta la città sotto assedio.
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