Episodes
-
Si chiamava Vincenzo Raiola il poliziotto che morì in quel maggio del 1999. Il decesso avvenne a causa di una ferita alla testa, riportata durante un conflitto a fuoco con un gruppo di rapinatori in via Imbonati.
Alle 5 del mattino del 14 maggio una banda di criminali, armata di fucili d’assalto ed esplosivi militari, assaltò un furgone portavalori appena uscito dal deposito.
Proprio mentre i banditi stavano compiendo la rapina, giunse sul posto la polizia che venne subito accolta da raffiche di mitra. I proiettili impazziti colpirono anche i veicoli di alcuni civili di passaggio, ma grazie al lancio di fumogeni i criminali si misero in fuga.
Arrivati in via Imbonati, i rapinatori si trovarono bloccati da due volanti. I banditi ripresero così a sparare, ferendo alla testa Raiola, gregario della Volante Comasina, per cui quel colpo fu fatale, poi continuarono a scappare.
Le indagini sull’assalto scattarono immediatamente e portarono non solo all’arresto di tutta la banda, ma anche a quello di due carabinieri corrotti.
Il gruppo era composto da ex terroristi di sinistra, pregiudicati per reati di mafia e criminali comuni. Tre degli assassini ricevettero la condanna all’ergastolo, mentre il basista della rapina non fu mai trovato. -
Tra le pagine più cupe della recente storia di Milano si annovera anche il periodo di attività di quella che passò alla storia come la banda di via Padova: un gruppo di malviventi assai eterogeneo, composto da pluripregiudicati e incensurati, delinquenti e personalità insospettabili. Tra il 1998 e il 1999 la banda seminò il panico attorno alla via da cui prese il nome, colpendo tabaccherie, gioiellerie e negozi a suon di rapine culminate ciascuna con la morte di un commerciante.
Fu dopo il colpo del 9 gennaio 1999 che gli abitanti del quartiere scesero in strada per reclamare maggiore sicurezza e, da quel giorno, s’infittirono le indagini che portarono all’arresto dei più cruenti componenti del gruppo. In quel pomeriggio di inizio gennaio infatti in via Derna, una parallela di via Padova, fu ucciso Ottavio Capalbo, uno dei proprietari di un bar-tabaccheria. I banditi fecero irruzione nel locale, incuranti dei clienti seduti ai tavoli, e pistola in pugno fecero razzia del bottino. Il proprietario pensò erroneamente che l’arma utilizzata dai rapinatori fosse una scacciacani e, sfidando la sorte, si accanì contro i banditi. Lo investì una pioggia di colpi che colpirono anche lo zio, co-proprietario del negozio. Ad avere la peggio fu solamente il più giovane.
Questa fu una delle ultime feroci azioni perpetrate dalla banda. Uno degli ultimi delitti senza pietà che mobilitarono tutta Milano nella battaglia contro l’emergenza criminalità.
La storia che coinvolge la banda di via Padova ha infatti un lieto fine che porta alla sbarra la maggior parte dei banditi, condannati all’ergastolo. Per le loro tremende azioni fu così fatta giustizia. -
Episodes manquant?
-
Piazzale Dateo, è l’alba del 1999. Proprio nella notte di Capodanno, una dopo l’altra, cadono tre vittime, falciate da alcuni colpi sparati da due armi da fuoco impugnate però dallo stesso assassino. Il primo a morire è un brasiliano di ventinove anni, che viene colpito nella stessa strada in cui era solito prostituirsi. A pochi metri di distanza il killer punta poi la pistola verso un operaio e invalido civile che ha assistito alla scena. La pistola però s’inceppa e l’uomo tenta di scappare. L’assassino prende allora la sua seconda pistola e con estrema freddezza gli spara un colpo alla testa. L’ultima vittima è un immigrato cingalese, anche lui scomodo testimone a cui perciò tocca la stessa sorte. Muore sotto cinque pallottole. Il killer sale poi su un Porsche 900 scura e fugge via. Non verrà mai arrestato.
La caccia alla spider parte già quella notte, si controllano tutti i proprietari di simili vetture non proprio comunissime in città. Si analizzano anche i bossoli usati per uccidere e sono proprio questi che svelano un curioso dettaglio: hanno un difetto rarissimo che secondo gli esperti appartiene solo a un blocco da 50 mila pezzi di calibro 9 particolari, distribuiti alle forze dell’ordine. Che dunque il killer si nasconda tra qualche agente? La verità purtroppo non si saprà mai.
Tra le altre varie plausibili piste si paventa la possibilità di un’azione maturata nel mondo del racket della prostituzione o ancora si pensa a un’azione di follia per seminare terrore durante la festa di Capodanno. A distanza di così tanti anni, però, la triplice esecuzione avvenuta in piazzale Dateo resta ancora senza colpevoli. -
Che Cesarina Dedonato si fosse suicidata in quel modo barbaro apparve subito davvero inverosimile: il suo cadavere giaceva sul letto semicarbonizzato; sul suo volto i segni di alcuni sacchetti di plastica; intorno al suo corpo invece alcune bambole della donna e una ventina di boccette di profumo con le quali Cesarina si sarebbe voluta dare fuoco. Una procedura complicata e fin troppo laboriosa per essere stata messa in atto per suicidarsi.
La donna, da poco divorziata, viveva sola nel suo appartamento in via Santa Teresa e aveva da poco affittato un secondo locale al piano di sopra a un uomo, Antonio Mantovani, vero artefice del delitto. La signora non sapeva di aver dato ospitalità a quello che verrà definito come un killer seriale di donne: Mantovani, dal passato burrascoso, aveva infatti ottenuto la semilibertà dopo aver già violentato e, in un caso ucciso, alcune donne.
All’uomo inoltre, che negò sempre ogni responsabilità su questi omicidi, ne fu imputato anche un terzo, il cui cadavere però non verrà mai ritrovato.
All’origine di tutti i suoi delitti vi era sempre la richiesta di una prestazione sessuale ed era il rifiuto delle vittime a scatenare in Mantovani la furia omicida.
Condannato definitivamente all’ergastolo, l’uomo si tolse la vita nella sua cella nel 2003, impiccandosi. -
Il cadavere di Francesca Coelli venne ritrovato la sera del 21 marzo 1997. A dare l’allarme fu proprio il fratello che, preoccupato di non sentire la donna da qualche giorno, si premurò di andarla a trovare nel suo elegante appartamento in via Vanvitelli 4.
Francesca giaceva esanime in un lago di sangue: era in ginocchio con la testa distrutta da alcune martellate e poggiata su una sedia. Il suo corpo era nudo e solo un pareo di seta le cingeva i fianchi. In cucina i resti di una cena per due persone: probabilmente la vittima e l’assassino.
Per trovare il colpevole ci vollero altri due omicidi, questa volta due uomini i cui delitti seguirono la stessa dinamica: uccisi a colpi di martello, dopo aver cenato e avuto rapporti sessuali con l’assassino.
Il colpevole sarà identificato in Gaspare Zinnanti, anche responsabile di aver seminato il terrore nelle strade di Milano spingendo alcuni passanti sotto il treno alle fermate della metro.
Zinnanti venne arrestato e confessò di uccidere perché amava le sue vittime. Si presentò infatti come un purificatore, un missionario per volere divino.
Venne giudicato incapace di intendere e di volere e internato in una struttura psichiatrica. Nel 2001 infine s’impiccò nell’ospedale psichiatrico giudiziario. Perseguitato dalle allucinazioni e dalla sua alienazione mentale, decise così di suicidarsi e salvare anche la propria anima. -
Maurizio Pierri si poteva definire un uomo di successo: titolare di un’azienda che gestiva bilanci e buste paga d’importanti società, a capo di giri d’affari miliardari e di conseguenza anche detentore un ricchissimo conto in banca. L’11 febbraio 1997, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, si accingeva dopo il lavoro a tornare a casa dove lo aspettava la sua famiglia per i festeggiamenti. Un festa che però non si sarebbe mai tenuta.
Quella sera infatti un passante ritrovò il cadavere dell’uomo ucciso con tre colpi di pistola nella sua auto mentre stava chiamando la moglie per avvisarla del suo rientro a casa. Una mano ancora sul volante e il piede sul freno. I proiettili furono sparati dal lato passeggero e la dinamica sembrò subito avere l’aspetto di un’esecuzione in piena regola.
L’ipotesi di una rapina finita male venne dunque immediatamente abbandonata: dall’auto della vittima non mancava nulla, il computer del manager non era stato rubato, come neanche il suo portafogli.
La pista più credibile fu dunque quella legata al suo giro d’affari: il nome di Maurizio Pierri compariva infatti in un crack di 120 miliardi ai danni di tantissimi risparmiatori.
Il caso rimarrà comunque irrisolto e né il mandante dell’omicidio, né il nome del killer verranno mai alla luce. Ad infittire ancor di più l’aura di mistero sarà il luogo del delitto: via Gattamelata si trovava a meno di un kilometro dall’ufficio dell’imprenditore. Una strada stretta, buia, senza negozi e per nulla di passaggio. Si insinua quindi il sospetto che Pierri ci sia arrivato dopo aver preso appuntamento con il suo killer che scelse un luogo nascosto e lontano da occhi indiscreti per compiere il delitto. -
Il delitto di Claudio Del Forno è uno dei casi di cronaca nera destinati a rimanere irrisolti: nessun movente abbastanza convincente, nessun nome al killer che esplose il colpo fatale. Un dettaglio poi infittisce ancor di più il mistero: l’insolito calibro del proiettile che uccise il ragazzo, un proiettile che poteva essere sparato solo da un revolver prodotto tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. La pistola si chiama Bodeo ed è quella che utilizza nelle sue storie Dylan Dog.
Siamo nel 1996 ed è quasi la vigilia di Natale. In piazzale Accursio c’è un gran trambusto, ma il rumore sordo di uno sparo attira l’attenzione dei presenti. A terra, immobile, giace il corpo di Claudio il cui impermeabile è ormai intriso di sangue.
Del Forno era un aspirante avvocato, pochi amici, nessuna donna, amava anzi per lo più importunare le prostitute della zona. I Carabinieri concludono così che all’origine del delitto ci sia quindi un tentativo di rapina, al quale Claudio avrebbe reagito, o forse qualche cliente rimasto insoddisfatto del lavoro dell’aspirante avvocato.
Neppure quella tanto rara e curiosa arma del delitto è mai stata ritrovata, così l’ultima pagina di questo delitto resta ancora tutta da scrivere. -
Si chiamavano Johnny Roselli e Rocco Lo Faro, i due giovanissimi amici uccisi in quella che sembra avere tutta l’aria di un’esecuzione.
I due ragazzi avevano trascorso la serata in discoteca, quando verso le tre qualcuno li convinse ad uscire e a raggiungere a piedi la poco distante e minuscola via di Porta Tenaglia. Proprio lì, lontano da possibili testimoni, li attendevano però i killer che a sangue freddo esplosero i colpi che tolsero la vita ai due giovani.
Johnny e Rocco in realtà non erano però del tutto sconosciuti alla giustizia, in passato già segnalati alle autorità per possesso di droga. Lo Faro, poi, era anche figlio naturale di un boss della Ndrangheta, Pasquale Santo Morabito, detenuto dal '90, ma i Carabinieri non ebbero elementi sufficienti per collegare gli omicidi con questa parentela.
Dunque, i nomi degli assassini non vennero mai individuati, il movente di quella trappola mortale sembra però poter essere la punizione a un torto fatto nei confronti dei boss della droga o al tentativo di impadronirsi della piazza altrui.
Sicuramente, il duplice delitto fu un lavoro compiuto da professionisti, poiché la trappola fu organizzata magistralmente e nei minimi dettagli. -
Uscì il sabato per andare a fare la spesa, la ritrovarono morta tra i campi di San Giuliano Milanese la domenica. Le indagini sull’omicidio di Laura Botta, bella e umile casalinga e madre di famiglia, misero a nudo una trama di relazioni pericolose ma non hanno però ancora dato un nome all’assassino.
Il corpo della donna fu ritrovato senza vita, con il volto sfigurato dalla furia omicida del killer che la prese a bastonate sulla testa sette volte fino ad ucciderla. Il corpo, vestito, giaceva rannicchiato in una roggia in cui scorreva l’acqua e a riconoscerlo fu Lorenzo Cassago, marito della vittima.
Le indagini fecero emergere importanti intrighi amorosi: la donna intratteneva infatti un’altra relazione con il marito di una sua amica. Sia l’amante che la moglie però, al momento del delitto, avevano degli alibi di ferro confermati. Dunque la pista del delitto passionale fu abbandonata.
Il caso rimase così irrisolto, senza un colpevole e senza un movente. Di sicuro rimasero solo alcuni dettagli sulle ultime ore di vita di Laura. Quel sabato fatale la donna aveva infatti acquistato una tessera telefonica con cui aveva fatto una telefonata da una cabina pubblica. Che Laura, dunque, abbia preso appuntamento proprio con il suo assassino? -
La mattina del 27 marzo 1995, nell’androne di un elegante palazzo in via Palestro, moriva Maurizio Gucci, erede della celebre famiglia proprietaria del noto marchio di moda.
Un killer, vestito di tutto punto, lo attendeva vicino l’ingresso del palazzo dove aveva sede una delle società dell’uomo. L’imprenditore così morì sotto cinque colpi di pistola, di cui tre alla testa.
Il caso affollò per lungo tempo le pagine dei giornali, finché non si arrivò alla soluzione grazie a una fonte confidenziale della polizia. A far uccidere Maurizio Gucci era stata Patrizia Reggiani, proprio l’ex moglie dell’imprenditore, aiutata da Pina Auriemma, sedicente maga incaricata come intermediaria tra mandante e killer. La signora Gucci, ossessionata dal fallimento del matrimonio nonché mossa da questioni legate all’eredità, aveva quindi organizzato il delitto ingaggiando un sicario.
Nel carcere di San Vittore, insieme alla Reggiani, finirono quindi Pina Auriemma, Benedetto Ceraulo, individuato come esecutore materiale del delitto, e Orazio Cicala, autista della macchina che servì all’assassino per fuggire.
610 milioni di lire era stata invece la cifra pattuita dalla Reggiani ai malviventi per l'agguato mortale e per il quale la donna fu condannata a 26 anni di carcere. -
Strangolata. Fu così che morì Simonetta Aramu: il suo corpo senza vita venne ritrovato nel suo modesto appartamento in via Oxilia. La donna giaceva cadavere con le ginocchia sul pavimento e il busto sul letto disfatto. Le braccia a penzoloni e un collant annodato al collo, lo stesso che fu usato come arma del delitto.
Dei soldi che la donna teneva in casa nessuna traccia, probabilmente dunque tra i moventi del delitto vi erano questioni di denaro. La casa però era in ordine, segno che Simonetta conosceva il suo killer e lo aveva lei stessa invitato ad entrare nella stanza.
Tutti i sospetti ricaddero dunque sul suo unico figlio, Morgan. Diciassette anni, non studiava e non lavorava. I soldi erano il più grande tema di discussione con la madre, con cui il ragazzo non aveva un rapporto idilliaco, tanto da andare a vivere a casa dell’allora fidanzata.
Torchiato dalla polizia, Morgan confessò il delitto infine il matricidio per poi ritrattare dopo poco tempo. Al processo, celebrato al Tribunale dei minori, a sorpresa venne poi scagionato in via definitiva. Tutto merito di una prova sfuggita alle indagini: un capello di un estraneo ritrovato nel letto di Simonetta. Un estraneo, però, destinato a rimanere senza nome e ritenuto il vero killer di Simonetta Aramu. -
Erano le sette di mattina quando il professor Roberto Klinger, medico diabetologo con un passato al servizio dell’Inter di Herrera, veniva ucciso da tre colpi di pistola mentre saliva sulla sua Panda celeste in via Muratori per recarsi a lavoro.
Due proiettili alla testa e uno al torace, sparati da una scacciacani modificata per uccidere, ponevano fine alla vita dello stimato professore.
Chi sia quell’uomo che alcuni testimoni videro fuggire di corsa dopo aver esploso i colpi resta ancora un mistero. Tra le varie piste d’indagine si ipotizzarono scambi di persona e vendette mafiose, ma ce ne fu solo una abbastanza credibile: l’azione di un collega medico con disturbi psichici, contro il quale Klinger doveva testimoniare di lì a poco in una causa avanzata con un altro medico.
L’uomo venne così indagato ma poi rilasciato per insussistenza di indizi a suo carico. Da allora per anni l’inchiesta su questo delitto è rimasta sulle scrivanie della sezione omicidi, nella speranza che prima o poi di incastrino le tessere del puzzle. Questo momento non è però ancora arrivato. -
Antonio Busnelli, infermiere quarantottenne e padre di famiglia, lavorava nel reparto Rianimazione dell’ospedale Fatebenefratelli. Dai suoi colleghi però non era mai stato ben visto, tanto da essere stato soprannominato il “becchino”. La motivazione di tale appellativo era quella frequenza di decessi superiore alla media registrata durante i suoi turni. Un epiteto che risultò infine quanto più pertinente: Busnelli uccideva infatti i suoi pazienti per poi percepire le mance da un’impresa di pompe funebri con cui collaborava.
Un vero e proprio angelo della morte che, come secondo lavoro, collaborava anche alla preparazione delle salme per i funerali.
Busnelli fu così arrestato il primo dicembre 1992 e poi condannato a 16 anni e 8 mesi per aver iniettato a due pazienti una dose non prescritta di Isoptin, un farmaco vasodilatatore in grado di provocare ai più anziani crisi cardiache fatali.
Inquietante e grottesca fu la testimonianza del figlio di una delle vittime che ricordò come fosse stato proprio Busnelli a consigliare loro l’impresa di pompe funebri per cui lavorava, ma anche a guidare il carro funebre con la salma del padre il giorno del funerale. -
Era la mattina del 19 settembre 1988 e, come di consueto, Gianfranco Trezzi, piccolo imprenditore milanese, usciva di casa per andare a lavoro. Furono i suoi operai a dare l’allarme, quando videro che a mezzogiorno Trezzi non era ancora arrivato sul posto.
Venne subito ritrovata la sua auto: le chiavi erano ancora inserite nel cruscotto e i finestrini erano aperti, di Trezzi però nessuna traccia.
Le successive richieste di riscatto confermarono l’ipotesi del rapimento, mentre a rendere ancora più drammatica la situazione erano le cattive acque finanziarie in cui versava l’azienda dell’imprenditore.
A dare una svolta alle indagini fu il ritrovamento del cadavere di un membro della banda che aveva organizzato il sequestro, così fu facile risalire ai complici e a scoprire l’ultima scorcentante verità.
Il 10 dicembre nel giardino di una villa vicino Vigevano venne ritrovato il cadavere di Gianfranco Trezzi. Proprio lì l’uomo fu tenuto prigioniero, per poi essere ucciso subito dopo la richiesta di riscatto. Il corpo, decomposto in oltre settanta pezzi, fu ritrovato in un sacco della spazzatura, sepolto nel giardino della villa.
Nel 1990 iniziò il processo che portò alla condanna dei rapitori, il cui leader era un affiliato della Nuova Camorra Organizzata di Cutolo. -
In un modesto appartamento in corso di Porta Nuova 36 viveva Clotilde Fossati, persona generosa e benvoluta da tutti. In quel palazzo la donna era nata e vissuta e non voleva sapere di andarsene, neppure dopo che l’intero palazzo era stato acquistato da una società finanziaria che intendeva realizzarvi nuovi insediamenti abitativi. Così, nonostante i nuovi proprietari avessero dato il via ai lavori di ristrutturazione, Clotilde continuava ad abitare da sola nella sua proprietà e a dare lezioni di piano, nonostante la sua avanzata età.
Il 10 giugno 1988 a ritrovare il corpo senza vita dell’anziana maestra di pianoforte fu la nipote che, non sentendo la zia da qualche giorno, si premurò di farle visita. La scena che si trovò di fronte fu agghiacciante: il corpo di Clotilde giaceva a terra con il volto sfigurato da alcune coltellate. Con la stessa violenza il killer l’aveva colpita allo stomaco e al petto, mentre con una bottiglia rotta sulla testa doveva inizialmente averle fatto perdere i sensi.
Le armi del delitto erano rimaste vicino al corpo esanime, mentre ogni indizio fece supporre che Clotilde conoscesse il suo aguzzino. Su un tavolo vicino, infatti, vi era ancora un bicchiere di rosolio che doveva aver offerto al killer prima che la aggredisse.
La donna non fu né rapinata, né fatta oggetto di violenza. Chi poteva, dunque, aver desiderato la morte dell’anziana signora, al punto di ucciderla accanendosi sul suo cadavere?
Nonostante la certezza che l’assassino andasse cercato tra le conoscenze della vittima, le indagini non approdarono a nulla e rimasero solo dubbi e sospetti su chi poteva aver ucciso l’anziana maestra di pianoforte. -
Maria Luisa D’Amelio, per tutti detta Mary, era una ragazza tranquilla e responsabile. Diciassettenne al quarto anno di un liceo scientifico, era sempre rispettosa di regole e orari, per questo quando la sera dell’8 novembre 1987 i genitori non la videro rientrare si allarmarono subito.
A ritrovare il corpo senza vita della ragazza fu il padre che, ripercorrendo il tratto di strada percorso dalla ragazza che stava tornando da una festa con gli amici, si accorse di un cancello semiaperto di un cantiere in via Candiani ed ebbe un terribile presentimento.
Mary giaceva riversa a terra e nuda, con la testa rotta da alcuni sassi intrisi del suo sangue.
Lo stupro e delitto della ragazza sarebbe rimasto nel plico dei casi irrisolti se il suo assassino non si fosse costituito spontaneamente alla polizia.
Era Roberto Pirovano, quarantenne gravemente affetto da disturbi psichici. L’uomo conosceva Mary e disse di esserne sempre stato innamorato. Tanto che quando quella sera la vide rincasare sola lungo la strada non potè far a meno di abusare di lei. Insieme a Pirovano anche un complice che quella sera assistette alla scena e che confermò la dinamica dei fatti agli inquirenti. In un primo momento entrambi gli uomini non convinsero le autorità che li inquadrarono come due mitomani dalla personalità disturbata.
Solo nel corso del dibattimento, emersero alcuni altri dettagli sconcertanti che portarono alla luce le colpe dei due uomini. La pubblica accusa chiese quindi di internare Pirovano in un ospedale psichiatrico, giudicandolo socialmente pericoloso. La richiesta fu accolta dalla Corte e la sentenza fu confermata in appello. -
Milano doveva tornare sotto Cosa Nostra. Fu questo il movente dell’omicidio del vicecapo mafioso di Resuttana, Gaetano Carollo, ritenuto dagli investigatori uno degli esponenti di spicco dell’organizzazione mafiosa al Nord.
Carollo, nonostante il notevole rilievo all’interno della gerarchia di Cosa Nostra, scalpitava troppo. Come riferì in seguito un pentito: “nonostante la sua alta posizione di sottocapo, voleva comandare”. E per questo doveva essere eliminato.
Venne ucciso da alcuni sicari il primo giugno 1987, nei pressi della sua palazzina in via Cazzaniga a Liscate, dove l’uomo viveva sotto le mentite spoglie di un sedicente ingegnere.
I killer lo sorpresero mentre guidava la sua auto e, dopo averlo chiamato per nome, lo colpirono mortalmente con tre proiettili mentre cercava di fuggire.
Colpevoli e mandanti furono condannati in via definitiva solo nel 2005. Tra i secondi vi era Totò Riina in persona che aveva l’obiettivo di riportare Milano sotto Cosa Nostra.
Il delitto Carollo coincise infine con l’inizio di una vera e propria guerra di mafia al Nord: una mattanza che vide cadere, uno dopo l’altro, tutti coloro che cercarono spiegazioni sull’esecuzione del sottocapo di Resuttana. Tra loro anche uno dei figli di Carollo e il suocero. -
L’omicidio di Mohammed Al Jarrah di Abid, ricco imprenditore arabo e titolare di alcune società import-export, è destinato a rimanere un caso irrisolto e il senza nome del colpevole.
Al Jarrah viveva nella sua lussuosa palazzina in Strada Settima e il pomeriggio del 13 agosto 1985 tornava a casa insieme a sua figlia, dopo esser andato a trovare la sua compagna ricoverata in un istituto per tumori. Quella stessa sera qualcuno si introdusse nel loro appartamento, entrando probabilmente da una finestra la cui tapparella era rimasta socchiusa. Al Jarrah venne sorpreso in camera da letto e lì fu colto da tre colpi di pistola. La figlia fu uccisa poco dopo e con altrettanta freddezza raggiunta da quattro proiettili.
Nessuno degli oggetti preziosi che l’uomo teneva in casa fu rubato. Per contro, non venne trovato alcun documento collegato alla sua attività lavorativa. L’ipotesi prevalente rimase dunque quella di un delitto legato a qualche traffico illecito gestito da Al Jarrah, lo stesso che avrebbe motivato l’estrema ricchezza dell’uomo altrimenti apparentemente ingiustificata.
Il duplice omicidio della Settima Strada è comunque finito fra i casi irrisolti della cronaca nera italiana e, ad infittire ancor di più il mistero a riguardo, sarà la morte del figlio dell’uomo che avverrà appena due anni dopo. Che il movente del delitto di Al Jarrah risieda dunque in screzi sorti tra padre e figlio che spartivano tra loro lucrosi traffici illeciti? -
Sesso, alcool e droga: fu questo il cocktail fatale che tolse la vita a Francesco D’Alessio, rampollo di buona famiglia e frequentatore di quella che viene ricordata come la “Milano da bere”.
A porre fine alla sua vita fu Terry Broome, una giovane modella statunitense che gli sparò sotto l’effetto di sostanze alcoliche e stupefacenti la notte del 25 giugno 1984. Una volta arrestata, quando un giornalista le chiese se avesse ucciso per amore, rispose: “Sta scherzando?”. E il movente infatti non fu la gelosia, ma l’esasperazione.
Francesco D’Alessio, playboy quarantenne e figlio del vicepresidente di una delle più quotate scuderie italiane, era appassionato di belle donne e bella vita e sembrava non poter accettare i continui rifiuto della donna alle sue avances. Terry Broome però proprio non lo sopportava e si negava all’uomo, ricevendo per questo pesanti e continue ingiurie.
Fu così che quella fatidica notte Terry si presentò a casa di D’Alessio in Corso Magenta 84. L’uomo era in compagnia di un’altra modella, la stessa che assistette alla scena e grazie alla quale fu ricostruita la dinamica del delitto: la Broome e D’Alessio si recarono in bagno, lì bevvero e fecero uso di cocaina. Dopo poco si sentirono sparare alcuni colpi: la modella, che si trovava nella stanza adiacente, entrò nella stanza e vide l’uomo riverso a terra, esanime e in un lago di sangue.
La pistola usata dalla Broome era dell’allora fidanzato della donna, lo stesso che contribuì in un primo momento a far perdere le sue tracce cooperando alla sua fuga. In seguito la Broome sarà arrestata in Svizzera. La storia di questo delitto verrà raccontata da un celebre film dei fratelli Vanzina dal titolo “Sotto il vestito niente”. -
E’ l’aprile del 1982. Roberto Rosone, direttore generale e vicepresidente del Banco Ambrosiano ai tempi dello scandalo del caso Calvi, sta uscendo dalla sua abitazione in via Pola. Proprio al momento di uscire dallo stabile, la portiera lo mette in guardia da due tipi loschi che da diverse ore sembravano aspettare qualcuno all’uscita del palazzo.
Nonostante l’avvertimento Rosone però varca l’uscio ed è lì che uno dei due uomini, munito di pistola e passamontagna, fa fuoco sul manager. Il destino però è dalla parte di Rosone, perché la pistola si inceppa permettendo alla potenziale vittima di scappare. Per ironia della sorte, a perdere la vita quel giorno è proprio l’assassino che, mentre fugge sullo scooter guidato dal complice, viene colpito da un proiettile sparato da una guardia giurata del Banco Ambrosiano. Il killer muore sul colpo e si scopre allora che si tratta di Danilo Abbruciati, uno dei boss della Banda della Magliana.
ll tentato omicidio avvenne dopo che Rosone vietò ulteriori crediti senza garanzia concessi dal Banco Ambrosiano ad alcune società legate a Flavio Carboni, il faccendiere sardo anch’egli legato alla banda criminale.
Non sapremo però mai per certo per conto di chi Abbruciati volesse compiere quella che poteva essere un’intimidazione come un tentato omicidio. Sappiamo però che un mese e mezzo dopo a morire fu Roberto Calvi, ma anche in questo caso non verrà mai chiarito se tra l’attentato Rosoni e la morte del banchiere ci fosse un collegamento o meno. - Montre plus