Episódios

  • Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
    Il 18 marzo 1978 due ragazzi di 18 anni, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, furono assassinati in via Mancinelli, a Milano. Era un sabato, poco prima delle venti. Vennero uccisi con otto colpi di pistola, tutti andati a segno. Iniziò quella sera una storia lunga, con indagini condotte da otto magistrati diversi, spesso impegnati anche in altre inchieste e quindi costretti a dedicarsi alla vicenda solo parzialmente. Indagini fatte inizialmente male, con perizie approssimative e a volte incomplete, testimonianze non raccolte, elementi tralasciati.
    È la storia di un immediato e maldestro tentativo di depistaggio. Di reperti incomprensibilmente distrutti, di un collegamento tra Milano, un’altra città lombarda, Cremona, e Roma, perché dagli ambienti dell’estrema destra romana, secondo le ipotesi investigative, sarebbero arrivati gli esecutori dell’omicidio.L’omicidio avvenne in giorni che furono tra i più angoscianti nella storia d’Italia dalla fine della II guerra mondiale. Il 16 marzo, due giorni prima dei fatti di Milano, a Roma era infatti stato sequestrato dalle Brigate Rosse il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.Ciò che accadde alle 20 del 18 marzo 1978 in via Mancinelli è anche la storia di una città, di una generazione, di un funerale a cui parteciparono molte decine di migliaia di persone con un coinvolgimento emotivo che tanti non avevano mai visto né provato. Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci erano due ragazzi di sinistra ma non militavano in nessun gruppo, non erano due leader, non erano conosciuti. Frequentavano il centro sociale Leoncavallo ma anche lì non erano due leader, due in vista.
    Erano, come dissero le decine di migliaia di ragazzi che parteciparono al funerale, «due come noi, esattamente come noi».Negli anni molti elementi sono emersi, anche grazie a collaboratori di giustizia appartenenti al terrorismo nero. Non c’è mai stata, però, una conclusione giudiziaria della vicenda. Ora, a distanza di tanto tempo, la procura di Milano ha ripreso il filo di quella vicenda aprendo un fascicolo conoscitivo, senza cioè indagati e ipotesi di reato. L’obiettivo è capire se esistono elementi per riaprire ufficialmente le indagini.
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    Emanuela Orlandi uscì di casa tra le 15.30 e le 16 del 22 giugno 1983. Abitava entro le mura vaticane, suo padre era commesso presso il Palazzo Apostolico. Quel giorno ebbe lezioni, come faceva tre volte alla settimana, all’ Istituto ​​Ludovico Da Victoria, associato al Pontificio istituto di musica sacra, in piazza Sant’Apollinare, nel centro di Roma.
    Uscì dall’istituto poco prima delle 19, assieme alle sue compagne e ai compagni di corso. Poi nessuno la vide più, almeno ufficialmente.
    La storia della scomparsa di Emanuela Orlandi è uno dei casi di cronaca più famosi d’Italia, forse il più intricato, tra i più raccontati.
    Ma è anche molto altro. È anche la storia di depistaggi, testimonianze spesso inattendibili, silenzi e reticenze da parte del Vaticano, piste seguite e rivelatesi poi dopo anni assolutamente inconsistenti. È anche la storia di come molti di coloro che sono comparsi in questa storia hanno approfittato della scomparsa di una ragazza di 15 anni, per fini politici, per sviare le indagini o semplicemente, come scrisse una delle magistrate che indagò, per conquistare un quarto d’ora di celebrità.
    A distanza ormai di 41 anni dal giorno in cui Emanuela Orlandi scomparve, si può tentare di ripercorrere la vicenda sottolineando gli aspetti più incongrui, le notizie che in realtà non erano notizie, le testimonianze più improbabili, le reticenze di chi probabilmente qualcosa sapeva ma non comunicò mai nulla alla procura incaricata delle indagini, quella romana. Ricostruendo anni di rivelazioni improbabili, ricerche infruttuose, segnalazioni false, tutto mischiato ormai in un grade contenitore nel quale è difficile anche solo orientarsi.
    Ben sapendo che troppe volte è stata usata la parola verità, ma quelle verità ancora è nascosta da qualche parte.
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    Uscì dall’istituto poco prima delle 19, assieme alle sue compagne e ai compagni di corso. Poi nessuno la vide più, almeno ufficialmente.
    La storia della scomparsa di Emanuela Orlandi è uno dei casi di cronaca più famosi d’Italia, forse il più intricato, tra i più raccontati.
    Ma è anche molto altro. È anche la storia di depistaggi, testimonianze spesso inattendibili, silenzi e reticenze da parte del Vaticano, piste seguite e rivelatesi poi dopo anni assolutamente inconsistenti. È anche la storia di come molti di coloro che sono comparsi in questa storia hanno approfittato della scomparsa di una ragazza di 15 anni, per fini politici, per sviare le indagini o semplicemente, come scrisse una delle magistrate che indagò, per conquistare un quarto d’ora di celebrità.
    A distanza ormai di 41 anni dal giorno in cui Emanuela Orlandi scomparve, si può tentare di ripercorrere la vicenda sottolineando gli aspetti più incongrui, le notizie che in realtà non erano notizie, le testimonianze più improbabili, le reticenze di chi probabilmente qualcosa sapeva ma non comunicò mai nulla alla procura incaricata delle indagini, quella romana. Ricostruendo anni di rivelazioni improbabili, ricerche infruttuose, segnalazioni false, tutto mischiato ormai in un grade contenitore nel quale è difficile anche solo orientarsi.
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    Tra l’ottobre del 1997 e l’aprile del 1998 Donato Bilancia uccise 17 persone. Assassinò nove uomini e otto donne, tra la Liguria e il Piemonte.
    Per molti mesi quei delitti non vennero messi in relazione, indagarono quattro procure diverse. Nonostante alcune indicazioni e una perizia balistica che collegava i primi tre delitti, le indagini proseguirono in direzioni diverse. Nessuno allora pensava che potesse esistere in Italia un assassino seriale con quelle caratteristiche.
    Uccise prima per vendetta, poi per sviare le indagini, infine per il puro piacere di farlo. Lo arrestarono grazie a un grave errore che commise ma che fu scoperto solo per un colpo di fortuna. Quando gli inquirenti lo interrogarono per la prima volta erano decisi a contestargli sette omicidi, lui ne confessò 17 rivelando anche che la morte di un uomo, catalogata come morte naturale era stata in realtà un ‘omicidio e che era stato lui a commetterlo.
    Bilancia fu sottoposto a numerose perizie psichiatriche e dichiarato capace di intendere e di volere al momento dei fatti.
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    Per molti mesi quei delitti non vennero messi in relazione, indagarono quattro procure diverse. Nonostante alcune indicazioni e una perizia balistica che collegava i primi tre delitti, le indagini proseguirono in direzioni diverse. Nessuno allora pensava che potesse esistere in Italia un assassino seriale con quelle caratteristiche.
    Uccise prima per vendetta, poi per sviare le indagini, infine per il puro piacere di farlo. Lo arrestarono grazie a un grave errore che commise ma che fu scoperto solo per un colpo di fortuna. Quando gli inquirenti lo interrogarono per la prima volta erano decisi a contestargli sette omicidi, lui ne confessò 17 rivelando anche che la morte di un uomo, catalogata come morte naturale era stata in realtà un ‘omicidio e che era stato lui a commetterlo.
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  • Quella del terremoto in Irpinia è una puntata speciale per le persone abbonate. Se vuoi ascoltarla puoi abbonarti qui.
    Il 23 novembre 1980 un forte terremoto colpì la Campania centrale e la Basilicata centro settentrionale. Erano le 19.52, durò 90 secondi. Il sisma ebbe conseguenze durissime soprattutto in Irpinia. Per molte ore non si riuscì a individuare l'esatto epicentro, i soccorsi tardarono, molti comuni restarono isolati per ore, alcuni per giorni. E quando gli aiuti iniziarono ad arrivare mancavano le attrezzature, addirittura i paletti per le tende, le scorte d'acqua.
    Le due puntate di Altre Indagini partono da quella sera ma raccontano soprattutto ciò che accadde dopo: la paralisi del sistema di protezione civile, denunciata in diretta televisiva anche dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, la mancanza di coordinamento. Ma anche l'enorme supporto dei volontari giunti da tutta Italia che in molti casi sopperirono alla mancanza delle istituzioni.
    E poi il dopo: gli sperperi e le ruberie durante la ricostruzione, la presenza della camorra e i patti con i politici, i capannoni industriali costruiti e poi abbandonati, le ville con piscina edificate dove in realtà i progetti prevedevano stalle per animali, le strade costate trenta volte di più di quanto si sarebbe dovuto spendere.
    Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi
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  • Ogni due mesi c’è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post.
    Il 28 settembre 2002 una ragazza di 14 anni, Desirèe Piovanelli, scomparve, a Leno, in provincia di Brescia. Il giorno dopo il fratello ricevette un sms: «Non preoccupatevi per me, sono con Tony, voglio stare con lui».
    Tony era un ragazzo di Cremona che Desirée Piovanelli aveva conosciuto durante un raduno di Testimoni di Geova, di cui le rispettive famiglie facevano parte. Quel ragazzo però con la scomparsa di Desirée non c’entrava assolutamente nulla. Il messaggio era stato inviato con una scheda telefonica prepagata, acquistata ad agosto in un campeggio di Jesolo. È grazie a quella scheda telefonica che i carabinieri risalirono al nome di un ragazzo di 16 anni, vicino di casa della famiglia Piovanelli, e poi ad altri due, un sedicenne e un quindicenne.
    Raccontarono cosa era successo: avevano attirato Desirèe Piovanelli in una cascina diroccata, chiamata Cascina Ermengarda, e lì l’avevano uccisa. Per loro quella ragazza era un’ossessione, di cui parlavano sempre e che avevano tentato invano di frequentare. Non erano però soli quel giorno. Con loro c’era un adulto, un uomo che li aveva aiutati e incitati. L'omicidio di Desirèe Piovanelli fu compiuto da quello che i media, e molti criminologi, chiamano “branco”, un gruppo di ragazzi che si esaltano a vicenda arrivando a compiere atti che, da soli, probabilmente non
    commetterebbero. Ed è la storia di un adulto che invece di fermare quei ragazzi assunse il ruolo di leader del gruppo.
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    Tony era un ragazzo di Cremona che Desirée Piovanelli aveva conosciuto durante un raduno di Testimoni di Geova, di cui le rispettive famiglie facevano parte. Quel ragazzo però con la scomparsa di Desirée non c’entrava assolutamente nulla. Il messaggio era stato inviato con una scheda telefonica prepagata, acquistata ad agosto in un campeggio di Jesolo. È grazie a quella scheda telefonica che i carabinieri risalirono al nome di un ragazzo di 16 anni, vicino di casa della famiglia Piovanelli, e poi ad altri due, un sedicenne e un quindicenne.
    Raccontarono cosa era successo: avevano attirato Desirèe Piovanelli in una cascina diroccata, chiamata Cascina Ermengarda, e lì l’avevano uccisa. Per loro quella ragazza era un’ossessione, di cui parlavano sempre e che avevano tentato invano di frequentare. Non erano però soli quel giorno. Con loro c’era un adulto, un uomo che li aveva aiutati e incitati. L'omicidio di Desirèe Piovanelli fu compiuto da quello che i media, e molti criminologi, chiamano “branco”, un gruppo di ragazzi che si esaltano a vicenda arrivando a compiere atti che, da soli, probabilmente non
    commetterebbero. Ed è la storia di un adulto che invece di fermare quei ragazzi assunse il ruolo di leader del gruppo.
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    La sera del 2 marzo 2006, alle 19.45, due uomini entrarono in una casa di Casalbaroncolo, una cascina ristrutturata e isolata alla periferia di Parma. Avevano il volto coperto ed erano armati di una pistola e di un coltello. Legarono tre persone, Paola Pellinghelli, il marito Paolo Onofri e il loro figlio di sette anni, Sebastiano. Se ne andarono portando con loro il figlio più piccolo della coppia, Tommaso, di 17 
    mesi. Non venne chiesto nessun riscatto, gli investigatori lo definirono da subito un sequestro anomalo. Le indagini si concentrarono molto presto su alcuni muratori che avevano effettuato i lavori di ristrutturazione della cascina. Furono però le perizie 
    scientifiche a dare agli investigatori un elemento decisivo: sul nastro adesivo utilizzato per legare i membri della famiglia era stata lasciata un’impronta 
    nitida. Corrispondeva a quella di un pregiudicato, Salvatore Raimondi. Intercettando il suo telefono venne scoperto un collegamento con un uomo, anch’esso pregiudicato, che aveva partecipato ai lavori nella casa degli Onofri: Mario Alessi. Raimondi, fermato e interrogato, ammise di aver partecipato al sequestro e disse che il bambino era stato ucciso dal suo complice immediatamente dopo il sequestro. Alessi addossò invece la responsabilità a Raimondi. Per il sequestro e l’omicidio furono condannati Raimondi, Alessi e Antonella Conserva, la moglie di Alessi. Non è mai stato del tutto chiarito quale fosse il reale obiettivo dei tre.
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    mesi. Non venne chiesto nessun riscatto, gli investigatori lo definirono da subito un sequestro anomalo. Le indagini si concentrarono molto presto su alcuni muratori che avevano effettuato i lavori di ristrutturazione della cascina. Furono però le perizie 
    scientifiche a dare agli investigatori un elemento decisivo: sul nastro adesivo utilizzato per legare i membri della famiglia era stata lasciata un’impronta 
    nitida. Corrispondeva a quella di un pregiudicato, Salvatore Raimondi. Intercettando il suo telefono venne scoperto un collegamento con un uomo, anch’esso pregiudicato, che aveva partecipato ai lavori nella casa degli Onofri: Mario Alessi. Raimondi, fermato e interrogato, ammise di aver partecipato al sequestro e disse che il bambino era stato ucciso dal suo complice immediatamente dopo il sequestro. Alessi addossò invece la responsabilità a Raimondi. Per il sequestro e l’omicidio furono condannati Raimondi, Alessi e Antonella Conserva, la moglie di Alessi. Non è mai stato del tutto chiarito quale fosse il reale obiettivo dei tre.
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    Il 23 dicembre 1984 alle 19.08 una bomba esplose sul treno Rapido 904, da Napoli a Milano mentre percorreva la Grande Galleria dell’Appennino, tra le stazioni di Vernio, in Toscana, e San Benedetto San Val di Sambro, in Emilia-Romagna. Morirono 15 persone. Un’altra persona morì mesi dopo per le lesioni riportate. I feriti furono più di 250. Quella notte i soccorsi furono molto difficili perché la bomba era stata fatta esplodere mentre il treno si trovava a metà della galleria e l’esplosione aveva fatto saltare le linee elettriche.
    Fu chiamata la strage di Natale.
    Le indagini vennero affidate alla procura di Firenze perché secondo le testimonianze la bomba era stata piazzata sul treno da un uomo salito alla stazione di Santa Maria Novella. Fu il procuratore Pier Luigi Vigna a occuparsi dell’inchiesta. Le indagini coinvolsero Cosa Nostra, la mafia siciliana, la camorra napoletana, un politico, futuro deputato della Repubblica, i servizi segreti, elementi legati alla destra eversiva.
    Fu una strage ideata, secondo quello che scoprì Vigna, dalla mafia con l’aiuto di vari altri gruppi criminali che si unirono per distogliere l’attenzione da indagini che in quel periodo si stavano svolgendo. A Palermo le testimonianze del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta avevano condotto la procura a chiedere centinaia di arresti. Anche a Napoli la camorra era stata colpita da indagini e arresti. E parte dei vertici dei servizi segreti erano stati coinvolti nella scoperta degli elenchi della loggia massonica Propaganda 2, la P2, guidata da Licio Gelli. L’obiettivo di chi compì quella strage era quello di riportare l’attenzione della magistratura al terrorismo distogliendo l’attenzione dalle organizzazioni criminali e dalle attività dei cosiddetti servizi segreti deviati.
    L’esplosivo usato per far esplodere la carrozza nove del Rapido 904, il Semtex H, fu lo stesso utilizzato otto anni dopo per uccidere, a Palermo, in via D’Amelio, Paolo Borsellino e la sua scorta.
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    Nella notte tra 13 e 14 gennaio 2012 Roberta Ragusa scomparve dalla sua casa di Gello, frazione di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa. Il marito, Antonio Logli, disse che la mattina del 14 si era svegliato alle 6.30 e si era accorto dell’assenza della moglie. Gli abiti erano in casa, e così portafogli, soldi, carte di credito, documenti. Secondo l’uomo, Roberta Ragusa si era allontanata con indosso un pigiama rosa e le pantofole. Quella notte, nella zona, il termometro aveva sfiorato gli zero gradi.
    Per settimane vennero effettuate ricerche in tutta la zona con le unità cinofile, ci furono molte segnalazioni ma mai nessun riscontro. Anche molti presunti veggenti contattarono i carabinieri affermando di sapere che cosa fosse accaduto alla donna.
    Due mesi dopo la scomparsa della moglie, Antonio Logli venne indagato. Gli inquirenti erano convinti che non si trattasse di allontanamento volontario ma che la donna fosse stata assassinata. Il marito era sospettato per una serie di comportamenti giudicati anomali e perché aveva ingenuamente mentito in merito alla relazione che aveva con una donna da otto anni. L’ipotesi degli investigatori era che ci fosse stata una lite dopo che Roberta Ragusa aveva scoperto della relazione del marito.
    Fu un caso molto seguito dai media: una troupe televisiva si introdusse nella scuola dove studiava la figlia dodicenne di Ragusa e Logli per poterla filmare.
    Otto mesi dopo il fatto un testimone disse di aver visto quella notte Antonio Logli vicino a casa sua sul ciglio della strada e poco dopo un uomo e una donna litigare: l’uomo aveva poi spinto a forza la donna nell’auto. Non seppe però dire se si trattasse con certezza di Ragusa e Logli.
    Logli, di cui fu chiesto il rinvio a giudizio, fu prosciolto ma, dopo un ricorso in cassazione presentato dalla procura della repubblica di Pisa, venne condannato a vent’anni di reclusione. La sentenza venne confermata nel processo d’appello e poi dalla Corte di cassazione.
    Fu un processo indiziario, basato di fatto solo su una testimonianza. E fu un processo anomalo, per omicidio, senza che mai fosse stato trovato il corpo della vittima.
    Antonio Logli si è sempre dichiarato innocente, i suoi due figli gli hanno sempre creduto e continuano a sostenerlo.
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    Nella notte tra 13 e 14 gennaio 2012 Roberta Ragusa scomparve dalla sua casa di Gello, frazione di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa. Il marito, Antonio Logli, disse che la mattina del 14 si era svegliato alle 6.30 e si era accorto dell’assenza della moglie. Gli abiti erano in casa, e così portafogli, soldi, carte di credito, documenti. Secondo l’uomo, Roberta Ragusa si era allontanata con indosso un pigiama rosa e le pantofole. Quella notte, nella zona, il termometro aveva sfiorato gli zero gradi.
    Per settimane vennero effettuate ricerche in tutta la zona con le unità cinofile, ci furono molte segnalazioni ma mai nessun riscontro. Anche molti presunti veggenti contattarono i carabinieri affermando di sapere che cosa fosse accaduto alla donna.
    Due mesi dopo la scomparsa della moglie, Antonio Logli venne indagato. Gli inquirenti erano convinti che non si trattasse di allontanamento volontario ma che la donna fosse stata assassinata. Il marito era sospettato per una serie di comportamenti giudicati anomali e perché aveva ingenuamente mentito in merito alla relazione che aveva con una donna da otto anni. L’ipotesi degli investigatori era che ci fosse stata una lite dopo che Roberta Ragusa aveva scoperto della relazione del marito.
    Fu un caso molto seguito dai media: una troupe televisiva si introdusse nella scuola dove studiava la figlia dodicenne di Ragusa e Logli per poterla filmare.
    Otto mesi dopo il fatto un testimone disse di aver visto quella notte Antonio Logli vicino a casa sua sul ciglio della strada e poco dopo un uomo e una donna litigare: l’uomo aveva poi spinto a forza la donna nell’auto. Non seppe però dire se si trattasse con certezza di Ragusa e Logli.
    Logli, di cui fu chiesto il rinvio a giudizio, fu prosciolto ma, dopo un ricorso in cassazione presentato dalla procura della repubblica di Pisa, venne condannato a vent’anni di reclusione. La sentenza venne confermata nel processo d’appello e poi dalla Corte di cassazione.
    Fu un processo indiziario, basato di fatto solo su una testimonianza. E fu un processo anomalo, per omicidio, senza che mai fosse stato trovato il corpo della vittima.
    Antonio Logli si è sempre dichiarato innocente, i suoi due figli gli hanno sempre creduto e continuano a sostenerlo.
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    Meredith Susanna Cara Kercher, studentessa inglese in Italia per il progetto Erasmus, fu assassinata a Perugia nella notte tra l'1 e il 2 novembre 2007. Venne uccisa con molte coltellate nella sua stanza, all’interno della casa che condivideva con altre tre ragazze, due italiane e un’americana.
    Quattro giorni dopo il questore di Perugia incontrò la stampa e disse: «Il caso è sostanzialmente chiuso». In realtà il caso si chiuse otto anni dopo in maniera molto diversa da come era stato illustrato ai giornalisti in quei giorni.
    Le due puntate di Indagini di questo mese si occupano del delitto di Perugia, la cui vicenda è quella che più di ogni altra negli ultimi anni in Italia è stata segnata dalla narrazione dei media. Giornali e televisioni italiani, ma anche inglesi e americani, hanno accompagnato, quasi guidato, il consolidarsi di convinzioni granitiche, prive di dubbi, inscalfibili. La Corte di Cassazione, che nel 2015 chiuse la vicenda processuale, parlò, nelle motivazioni della sentenza, di «un inusitato clamore mediatico» che ha fatto sì che «le indagini subissero un'improvvisa accelerazione che, nella ricerca spasmodica di uno o più colpevoli da assicurare all'opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale». La Corte di Cassazione parlò di «clamorose défaillance o ‘amnesie’ investigative e colpevoli omissioni di attività di indagine».
    È una storia complessa, i processi furono basati su analisi scientifiche interpretate in maniera opposta da periti e giudici diversi. L'opinione pubblica si divise in tifoserie, spesso conoscendo poco di come procedevano realmente le indagini e quali fossero gli elementi concreti dibattuti nel processo. I media trasformarono la vicenda processuale in una sfida tra un'imputata, Amanda Knox, e un pubblico ministero, Giuliano Mignini; di riflesso, in una sfida tra Stati Uniti e Italia.
    I contributi audio di queste puntate sono tratti da un servizio giornalistico del 2 novembre 2007 di Lorenzo Lotito per l'emittente Retesole e dalla trasmissione Storie Maledette, condotta da Franca Leosini e andata in onda su Raitre nel gennaio del 2016.
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    Quattro giorni dopo il questore di Perugia incontrò la stampa e disse: «Il caso è sostanzialmente chiuso». In realtà il caso si chiuse otto anni dopo in maniera molto diversa da come era stato illustrato ai giornalisti in quei giorni.
    Le due puntate di Indagini di questo mese si occupano del delitto di Perugia, la cui vicenda è quella che più di ogni altra negli ultimi anni in Italia è stata segnata dalla narrazione dei media. Giornali e televisioni italiani, ma anche inglesi e americani, hanno accompagnato, quasi guidato, il consolidarsi di convinzioni granitiche, prive di dubbi, inscalfibili. La Corte di Cassazione, che nel 2015 chiuse la vicenda processuale, parlò, nelle motivazioni della sentenza, di «un inusitato clamore mediatico» che ha fatto sì che «le indagini subissero un'improvvisa accelerazione che, nella ricerca spasmodica di uno o più colpevoli da assicurare all'opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale». La Corte di Cassazione parlò di «clamorose défaillance o ‘amnesie’ investigative e colpevoli omissioni di attività di indagine».
    È una storia complessa, i processi furono basati su analisi scientifiche interpretate in maniera opposta da periti e giudici diversi. L'opinione pubblica si divise in tifoserie, spesso conoscendo poco di come procedevano realmente le indagini e quali fossero gli elementi concreti dibattuti nel processo. I media trasformarono la vicenda processuale in una sfida tra un'imputata, Amanda Knox, e un pubblico ministero, Giuliano Mignini; di riflesso, in una sfida tra Stati Uniti e Italia.
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  • Quella della crisi di Sigonella è una puntata speciale per le persone abbonate. Se vuoi ascoltarla puoi abbonarti qui.

    Il 7 ottobre 1985, verso le 12:30, una nave da crociera italiana, la Achille Lauro, venne dirottata da quattro terroristi palestinesi armati mentre navigava al largo delle coste egiziane. A bordo in quel momento c’erano 344 membri dell’equipaggio e 210 passeggeri mentre 544 persone erano sbarcate al Cairo e sarebbero tornate a bordo in serata, a Port Said. I passeggeri erano di molte nazionalità.
    I terroristi dichiararono di essere membri del Fronte di Liberazione della Palestina, movimento palestinese dissidente in contrasto con la leadership di Yasser Arafat. Iniziarono così giorni di trattative, minacce da parte dei terroristi, pressioni statunitensi per un intervento armato.
    Durante il sequestro venne assassinato un passeggero americano di 69 anni, disabile a causa di un ictus di qualche anno prima. Si chiamava Leon Klinghoffer.
    La notizia che a bordo era stato commesso un omicidio venne data da un radioamatore libanese che intercettò una comunicazione tra i terroristi sulla nave e i mediatori palestinesi incaricati da Yasser Arafat, presidente dell’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), di trovare una soluzione diplomatica. Il comandante della nave, interpellato dalle autorità italiane, negò che a bordo fosse accaduto qualcosa di grave.
    I quattro terroristi liberarono la nave a Port Said, in Egitto, dopo che l’Italia accettò di fornire loro un salvacondotto.
    Iniziò a quel punto un’altra fase della vicenda. L’aereo egiziano con a bordo i quattro terroristi, partito in direzione di Tunisi, venne dirottato da caccia americani e fatto atterrare nella base dell’aeronautica militare italiana di Sigonella, in Sicilia. Gli Stati Uniti volevano prendere in custodia i dirottatori ma anche uno dei mediatori, Abu Abbas, considerato da loro l'ideatore del dirottamento e il capo del gruppo.
    Militari americani della Delta Force e italiani si fronteggiarono armati, la tensione tra Stati Uniti e Italia fu altissima. Per la prima volta, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Usa e Italia si trovarono su fronti opposti. A essere dirottata era stata una nave italiana e i reati erano stati commessi su suolo italiano: gli americani non avevano quindi nessuna giurisdizione.
    Alla fine i militari americani della Delta Force lasciarono la pista dell’aeroporto, i quattro terroristi vennero arrestati dalla polizia giudiziaria italiana mentre un aereo con a bordo Abu Abbas, ripartito da Sigonella, fu oggetto di un altro tentativo di intercettamento da parte di velivoli militari americani.
    Abu Abbas trovò infine rifugio in Jugoslavia.
    La crisi di Sigonella ebbe conseguenze politiche e diplomatiche importanti. Il governo italiano presieduto da Bettino Craxi fu accusato di doppiezza dalla stampa americana e da molti membri dell’amministrazione di Washington che imputarono agli italiani la responsabilità di aver fatto fuggire un terrorista, ispiratore dell’omicidio di un cittadino americano. In Italia le reazioni furono invece opposte. Bettino Craxi visse un periodo di grande popolarità, indicato dalla maggioranza della stampa e dell’opinione pubblica come colui che non si era piegato alla prepotenza degli Stati Uniti.

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    ***

    Il 15 giugno 1983, in via del Riccio 7, a Bologna, venne trovato il corpo di una donna. Era stata uccisa nel suo appartamento con molti colpi inferti da un piccolo coltello.
    La donna, stabilì l’autopsia, era stata uccisa tre giorni prima, quindi il 12 giugno: si chiamava Francesca Alinovi, aveva 35 anni ed era insegnante al Dams, Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo dell’università di Bologna. Era una delle giovani critiche d’arte italiane più stimate e all’avanguardia, scopritrice di nuovi talenti. Era stata lei a portare per la prima volta in Italia l’arte dei graffitari newyorkesi, a far conoscere in Italia Keith Haring, a promuovere i disegni di Paz, Andrea Pazienza. Le indagini si concentrarono nell’ambiente del Dams e in particolare su un ragazzo, Francesco Ciancabilla, di dieci anni più giovane di Alinovi. Gli amici sostennero che Ciancabilla e Alinovi stessero insieme anche se lui nel corso delle indagini lo negò. Vennero analizzati i diari scritti dalla vittima in cui lei parlava del suo rapporto con il ragazzo, del loro legame ma anche del fatto che lui si rifiutasse di avere rapporti sessuali.
    Complesse perizie, compresa una su un orologio che era al polso della vittima, indicarono l’ora della morte intorno alle 18-19 del 12 giugno 1983 quando Ciancabilla, per sua stessa ammissione, a casa della critica d’arte. Ciancabilla però si è sempre dichiarato innocente.
    Il processo a Francesco Ciancabilla fu un processo indiziario, senza prove ma con una serie di elementi che, secondo il pubblico ministero, portavano a una conclusione logica: che il ragazzo fosse colpevole.
    Detenuto in carcerazione preventiva da quasi due anni, Ciancabilla fu assolto in primo grado e poi condannato nel processo d’appello a 16 anni di carcere. Nel frattempo, però, aveva lasciato l’Italia. Restò latitante dieci anni prima di essere arrestato in Spagna. Per quattro volte una richiesta di revisione del processo venne respinta.
    Ha scontato la sua pena e oggi è un uomo senza nessuna pendenza con la giustizia.
    Ha continuato a dichiararsi innocente. Secondo molte delle persone che seguirono il caso e il processo, quel procedimento non rispettò il principio del ragionevole dubbio.

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    La donna, stabilì l’autopsia, era stata uccisa tre giorni prima, quindi il 12 giugno: si chiamava Francesca Alinovi, aveva 35 anni ed era insegnante al Dams, Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo dell’università di Bologna. Era una delle giovani critiche d’arte italiane più stimate e all’avanguardia, scopritrice di nuovi talenti. Era stata lei a portare per la prima volta in Italia l’arte dei graffitari newyorkesi, a far conoscere in Italia Keith Haring, a promuovere i disegni di Paz, Andrea Pazienza. Le indagini si concentrarono nell’ambiente del Dams e in particolare su un ragazzo, Francesco Ciancabilla, di dieci anni più giovane di Alinovi. Gli amici sostennero che Ciancabilla e Alinovi stessero insieme anche se lui nel corso delle indagini lo negò. Vennero analizzati i diari scritti dalla vittima in cui lei parlava del suo rapporto con il ragazzo, del loro legame ma anche del fatto che lui si rifiutasse di avere rapporti sessuali.
    Complesse perizie, compresa una su un orologio che era al polso della vittima, indicarono l’ora della morte intorno alle 18-19 del 12 giugno 1983 quando Ciancabilla, per sua stessa ammissione, a casa della critica d’arte. Ciancabilla però si è sempre dichiarato innocente.
    Il processo a Francesco Ciancabilla fu un processo indiziario, senza prove ma con una serie di elementi che, secondo il pubblico ministero, portavano a una conclusione logica: che il ragazzo fosse colpevole.
    Detenuto in carcerazione preventiva da quasi due anni, Ciancabilla fu assolto in primo grado e poi condannato nel processo d’appello a 16 anni di carcere. Nel frattempo, però, aveva lasciato l’Italia. Restò latitante dieci anni prima di essere arrestato in Spagna. Per quattro volte una richiesta di revisione del processo venne respinta.
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    Ha continuato a dichiararsi innocente. Secondo molte delle persone che seguirono il caso e il processo, quel procedimento non rispettò il principio del ragionevole dubbio.

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    Il 28 giugno 1988 il corpo di una donna rimase impigliato, al largo della costa marchigiana, nelle reti di un peschereccio. Si chiamava Annarita Curina, era una skipper: era stata uccisa e gettata in mare legata a un’ancora del peso di 17 chili. Era partita il 10 giugno da Pesaro a bordo della sua barca, un catamarano, l’Arx. Con lei a bordo c’erano due persone, Filippo De Cristofaro, 34 anni, e Adriana Diana Beyer, 17. Il progetto era quello di una traversata fino alle Baleari dove poi Annarita Curina si sarebbe fermata. Per non fare la traversata da sola aveva accettato a bordo le altre due persone che avrebbero dovuto aiutarla nei lavori sulla barca.
    Dopo il ritrovamento del corpo iniziarono le ricerche nel mare Adriatico che poi si allargarono a tutto il Mediterraneo. L’Arx, che nel frattempo aveva cambiato nome in Fly2, era stato avvistato largo della Puglia e poi in Sicilia. Venne poi ritrovato ormeggiato nel porto tunisino di Ghar el Melh. De Cristofaro e Beyer però non c’erano. Assieme a una terza persona, che si era unita a loro dopo l’omicidio di Annarita Curina e che viaggiava assieme a un cane lupo, erano fuggiti a cavallo verso l’Algeria. Vennero arrestati il 19 luglio ed estradati in Italia. Inizialmente diedero la stessa versione dei fatti, poi ognuno raccontò una storia diversa. De Cristofaro e Beyer vennero processati per omicidio: l’uomo ricevette la pena più pesante, l’ergastolo.

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    Dopo il ritrovamento del corpo iniziarono le ricerche nel mare Adriatico che poi si allargarono a tutto il Mediterraneo. L’Arx, che nel frattempo aveva cambiato nome in Fly2, era stato avvistato largo della Puglia e poi in Sicilia. Venne poi ritrovato ormeggiato nel porto tunisino di Ghar el Melh. De Cristofaro e Beyer però non c’erano. Assieme a una terza persona, che si era unita a loro dopo l’omicidio di Annarita Curina e che viaggiava assieme a un cane lupo, erano fuggiti a cavallo verso l’Algeria. Vennero arrestati il 19 luglio ed estradati in Italia. Inizialmente diedero la stessa versione dei fatti, poi ognuno raccontò una storia diversa. De Cristofaro e Beyer vennero processati per omicidio: l’uomo ricevette la pena più pesante, l’ergastolo.

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