Episoder


  • I muti parlano il linguaggio dell'amore

    Quante volte ci ritroviamo senza parole. "Muti", cioè "impuri" secondo l'originale, come i rapporti prematrimoniali, dialogo di corpi incapaci di dar voce allo spirito, perché ormai soffocato nell'egoismo di chi nulla di sé ha messo in gioco, ammutolito nella menzogna di gesti che esprimono ciò che non è, un dono per sempre sfigurato dalla concupiscenza.

    "Muti" come tanti rapporti tra marito e moglie, separati dal solco dei giudizi che solo il perdono potrebbe colmare; ma ne sono incapaci, e allora eccoli lì a parlarsi senza capirsi, litigate senza fine, e separazioni e divorzi, e violenze e disperazione.

    "Muti" come i rapporti tra genitori e figli, nascosti nella falsa amicizia - le mamme amiche, i papà amici - per non affrontare con i figli il rischio del confronto, del rifiuto e della crescita attraverso l'obbedienza alle parole dell'autorità.

    "Muti" perché incapaci di attenzione e pazienza come tanti rapporti tra colleghi, vicini di casa, parenti, compagni di scuola, in un parossismo di giustizialismi e legalismi che strozzano le parole della misericordia. "Muti" dinanzi ai bisogni dei poveri, con il cuore chiuso nella cassaforte dell'avarizia.

    Ma perché siamo diventati "muti"? L'altro, con le sue incognite, il carico di precarietà e sfuggevolezza, spinge all'amore gratuito, a spiccare il volo in un cielo di cui non si conoscono le proporzioni, a dimenticare se stessi e i propri schemi. A sacrificarsi, perché l'amore è sempre segnato da una ferita, come quella sul costato di Adamo, dischiusa per dare la vita a Eva sua sposa. E' la volontà di Dio che ci ha creati diversi, "maschio e femmina", per divenire l'uno per l'altro un "palazzo" dove accogliersi e donarsi. Ma il "palazzo" è stato conquistato dal demonio, l' "uomo forte" e "bene armato" di menzogne: prima ci esalta illudendoci di poter diventare come Dio, e poi ci disprezza sbattendoci in faccia che non lo siamo diventati, spingendoci nel mutismo che ci isola dal mondo per paura di fallire ancora una volta. Con la paura della morte Satana "fa la guardia" alla nostra vita diventata ormai "il suo palazzo"; "i suoi beni sono al sicuro" perché, mentre cerchiamo di sfuggire alla morte, ci "leghiamo" a lui sempre di più.

    Guardiamoci intorno: di fronte alla sconfitta di una cura o a un embrione probabilmente malato, ci ritroviamo "muti", senza parole di fronte al dolore e alla sofferenza dell'innocente. Così in ogni relazione che ci presenta sacrificio, rinunce, dolore e morte. E allora uccidiamo credendo di fare il bene ed esorcizzare la morte. E' il marchio di fabbrica dell'avversario, scambiare il bene in male e viceversa, identificare Gesù con il principe dei demoni e questi con Dio. Così, nel "palazzo" occupato dal demonio, è legittimo e auspicato il male: aborto, eutanasia, divorzio, e i tanti altri omicidi nascosti nelle passioni con cui togliamo agli altri la vita perché la nostra è agli sgoccioli.

    Infatti, "chi non è con Cristo è contro di Lui", contro la sua immagine impressa in ogni uomo. "Chi non raccoglie" il suo amore disseminato nella storia lo "disperde", come si disperde il seme nei rapporti muti che macchiano la bellezza feconda della sessualità. Chi non è con Cristo è contro l'uomo, perché chi non raccoglie la sua immagine in ogni persona ne disperde la vita, frustrando il suo destino. Per questo siamo "muti", dispersi e soli nel "palazzo" della nostra vita, diventato ormai una tomba.

    La Quaresima ci aiuta a riconoscerlo, per imparare a desiderare e attendere la notte in cui Cristo, "uno, l'unico, più forte" del demonio, di nuovo distruggerà la morte che ci spaventa e dalla tomba in cui siamo precipitati risorgerà facendo di noi il suo "bottino". La Pasqua è l'opera di Dio che desta "meraviglia" in chi ha conosciuto solo la morte, perché in essa "giunge a noi il suo Regno", mentre il suo "dito" che ci ha creato ci "tocca per sanarci" e ricrearci.

    Sulla Croce dove l'invidia e le calunnie di chi lo identificava con "Beelzebul" lo hanno inchiodato, Cristo ha "strappato l'armatura in cui confidava" il demonio, mostrandoci che non è vero che Dio non ci ama, anzi. Tanto ci ama che non solo perdona ogni peccato, ma ci attira nella stessa intimità che unisce il Padre e il Figlio: "Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi". Con la sua morte Cristo ha riconquistato il "palazzo" da dove ha "scacciato i demoni"; con la sua resurrezione ne ha fatto il cenacolo dove Lui appare ogni giorno per "vincere" la paura e guarire i rapporti "muti" e sterili donandoci la capacità di amare in Lui oltre il peccato.

    Solo qui, raggiunti dalla Pasqua, i fidanzati sanno aspettare e sacrificarsi, gli sposi escono da se stessi per donarsi gratuitamente, i genitori trasmettono la fede educando con discernimento, e i figli obbediscono liberi dall'orgoglio; solo nel "Regno" ognuno è "per" il bene autentico dell'altro, lottando perché Cristo viva in lui, sapendone "raccogliere", anche tra i peccati, l'immagine originale. Dalla Pasqua nasce così la missione della Chiesa, il "bottino" di Gesù: gli schiavi liberati sono "distribuiti" nel mondo a farsi "Beelzebul", ovvero peccato, per chi giace ancora nelle tenebre. Non c'é da stupirsi e temere se chi ci è accanto traviserà i nostri gesti e le nostre parole, anzi. Quando accadrà sarà il segno che Cristo è vivo in noi, che sta lottando con satana per riconquistare con l'annuncio del Vangelo proprio chi ci perseguita.

  • Manglende episoder?

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  • La vita compiuta

    Nulla di noi è marginale. Tutto ci è donato per essere "compiuto", “riempito trabocchevolmente” secondo il greco originale. Ogni istante è come uno yod (iota in ebraico), la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico, ma decisiva per definire il significato di molte parole simili, fondamentale per conferire il senso compiuto alle frasi, legando il passato al futuro. La nostra vita è una raccolta di yod disseminati sul cammino di salvezza pensato e donato da Dio, una storia (il passato) che si fa presente come un grembo fecondo e gravido nell'attesa del compimento.

    Invece, per l'inganno dal demonio, gli yod ci appaiono come piccoli, fastidiosi e insignificanti ostacoli da evitare. E così, fiaccati dalla superbia con cui tralasciamo i particolari nei quali allenarci ad amare, nascosti nell'ipocrisia dei grandi ma effimeri slanci, ci spaventiamo e fuggiamo ogni volta che sbattiamo contro i muri issati da chi ci è accanto. Chi trascura il "precetto minimo" scivolando sulle innumerevoli occasioni di donarsi, si ritroverà con un "amore minimo", impreparato per fare fronte ai "grandi" bisogni del prossimo.

    Colui che, nella pretesa satanica di farsi dio e decidere cosa sia importante, "insegna agli altri" a essere sciatti e superficiali, sarà "considerato minimo nel Regno dei Cieli". In esso, infatti, è "grande" chi il mondo considera piccolo, ovvero il povero, il debole e il peccatore, il ladro e la prostituta. Questi, avendo conosciuto e accolto il "grande" amore che li ha perdonati, sono capaci di "insegnare agli altri" a non trascurare nessuna "minima" occasione per convertirsi. La superficialità si risolve sempre in un deterioramento della Verità, come quando un quadro è attaccato dal tempo: i colori si sbiadiscono, scompaiono le sfumature, anche i contrasti perdono vigore, e alla fine il dipinto è ormai diverso dall'originale.

    E tu, quale yod stai trascurando? Su quale dettaglio stai sorvolando? La vita è come un orologio, non puoi dimenticare di aver cura di ogni suo pezzo; basta che una minuscola coroncina si rompa, si usuri o si perda e l'orologio non funziona più. Hai per caso dimenticato di oliare qualche meccanismo e l'orologio sta dando i numeri, correndo il rischio di arrivare in ritardo all'appuntamento decisivo? Da quanto tempo non chiedi a tua figlia come va, se si sente emarginata per il suo corpo, se ha paura di mangiare? Stai tralasciando i particolari nel rapporto con la moglie senza accorgerti della complessità che questo suppone? Attento, ti stai preparando la crisi con le tue mani. Il demonio gioca sempre negli spazi stretti e apparentemente irrilevanti della quotidianità per farci perdere, giorno dopo giorno, il "grande" amore nel quale e per il quale siamo stati creati.

    Per questo abbiamo bisogno di un abile "restauratore", che riporti alla luce ogni particolare nascosto dall'incuria, così che il "quadro" della nostra vita torni allo splendore originale. Abbiamo bisogno di Gesù, che, "dando compimento" a tutti i precetti, "restauri" l'immagine originale dell'uomo creato da Dio. Innalzato sulla Croce ci attira tutti nel suo compiere lo Shemà, pienezza della Legge, "restaurando" così in noi la capacità di amare in ogni circostanza. Sulla Croce ha ricevuto l'aceto dei nostri peccati come l'ultimo yod necessario perché tutto sia compiuto; quindi ha reclinato il capo e, spirando, ci ha inondato del suo Spirito.

    Una volta liberati dai peccati ci ha riempiti trabocchevolmente della sua vita. Da quel momento, nella nostra storia non vi è più nulla da mettere tra parentesi, rifiutare e buttar via, perché in tutto, anche in una malattia incurabile, anche in un lavoro routinario, vibra l'amore "riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo". In questa Quaresima siamo chiamati a convertirci, a cambiare il modo di pensare e guardare la nostra vita, imparando a curare i dettagli riscattati dalla routine banale del peccato, senza smettere di fissarne l'insieme.

    Concretamente, ciò significa "compiere" la volontà di Dio che si rivela in ciascuno dei suoi "comandamenti". Questi, infatti, declinano il suo amore in ogni dettaglio dell'esistenza, abbracciando in uno sguardo di misericordia ogni millimetro della nostra vita, lavare i piatti e presiedere un consiglio di amministrazione non fa differenza, perché sia vissuta con serietà e responsabilità.

    Per questo, "finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla legge neppure un iota o un segno senza che tutto sia compiuto": alla fine del mondo, della vita di ogni uomo, non resterà neanche un frammento, neppure il più piccolo, senza che l'amore di Dio lo abbia raggiunto per salvarlo e dargli il compimento pensato dalla sua volontà.


  • Il debito è condonato

    Pensaci bene: ti senti in debito con qualcuno? Anche questo è vivere intensamente la Quaresima. Con tuo marito o tua moglie, con tuo figlio, con tua suocera, con il collega, ti sei sempre comportato con amore, pazienza misericordia? Hai un peso sulla coscienza che cerchi di dimenticare, un peccato nascosto che tenti di seppellire? Un giudizio, un rancore, un tradimento. Non aver paura di lasciare che venga alla luce, anzi tiralo fuori tu, magari sono vent'anni che ti comprime il cuore e ti impedisce la libertà e la pace. Fallo oggi, confessalo, perché il nostro debito è condonato. Forse, come il servo malvagio siamo così presi da noi stessi che riteniamo di aver ottenuto solo una dilazione e tutti i nostri sforzi sono nervosamente diretti a raccattare in qualsiasi modo quel che dobbiamo rifondere. Abbiamo implorato clemenza e un po' di pazienza per restituire, e sorprendentemente il Signore ci ha condonato il debito, nulla più da restituire. Cancellato. E' questa l'esperienza che cambia radicalmente la vita. E' il cristianesimo. Un condannato a morte al quale gli si sono spalancate le porte della cella ed è ormai libero. Chi non ha questa esperienza vive il proprio cristianesimo senza gioia, e quindi una vita senza frutto, sciapa e immersa nella mormorazione, tutta regole, e sforzi per compierle. Leggi, e sacrifici per rispettarle. La vita come una corsa ad ostacoli, senza amore, esigendo da se stessi e dagli altri, tutti strapazzati perché non scappino dai nostri rigidi schemi, ogni "prossimo" imprigionato perché paghi ciò che crediamo ci debbano dare, così che anche noi possiamo pagare il dovuto a Dio. Sì, viviamo nello stravolgimento della relazione con Lui, non abbiamo conosciuto la gratuità del suo amore e crediamo che, per stare in pace, dobbiamo dargli quello che non abbiamo esigendolo dagli altri. Guarda le relazioni nella tua famiglia, e capirai. Accettiamolo, siamo nemici della Croce di Cristo perché scandalizzati del suo amore così umanamente "ingiusto" da giustificare ciò che noi non giustificheremmo. Ma il documento della nostra condanna è stato distrutto proprio sulla Croce del Signore. Il Suo amore ci ha graziati, senza merito. Oggi, e ogni giorno. Allora convertiamoci e lasciamoci amare sino ad accogliere il perdono per lo stesso peccato settanta volte sette, cioè infinite volte; e così saremo trasformati in misericordia che accoglie e perdona sempre, rompendo volta per volta la spirale di odio che avvelena il mondo, a casa come ovunque, per schiudere il Cielo su questa generazione.


  • Amare e accogliere il Mistero

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    Quel sabato nella sinagoga di Nazaret, era esplosa una bomba: Gesù, il figlio di Giuseppe il carpentiere, l'aveva lanciata nel mezzo dell'assemblea di cui aveva fatto parte tante volte; quell’uomo che tutti conoscevano aveva appena annunciato che la profezia ascoltata si era compiuta proprio in Lui, proprio in quell'oggi. Che mistero l'operare di Dio, lasciare trent'anni suo Figlio inviato per salvare l'umanità nel semplice e umile nascondimento di Nazaret, a vivere una vita normalissima, mescolata a quella dei suoi compatrioti. Un solo segno all'alba della dell'incarnazione, un annuncio segreto e serbato nel cuore della Vergine Maria. E sospetti, giudizi e dolore per quella giovane Madre. Poi più nulla, giorni uguali a quelli di ogni altro abitante di Nazaret, sino a quel sabato. Dio, infatti, ha voluto avvolgere di mistero l'identità del Figlio per svelare il mistero del cuore dell'uomo. La carne e il sangue, da soli, non possono vedere Dio. Per vederlo occorre un cuore puro. I "figli dello stesso padre" (patria deriva da padre) non lo hanno potuto comprendere, perché per il loro occhio impuro conoscere significava afferrare e possedere attraverso carne e pensiero. Accoglierlo avrebbe significato riconoscersi peccatori, bisognosi di purificazione e perdono. La vedova di Zarepta e Naaman il Siro, invece, pur essendo pagani ed estranei al Popolo di Israele, hanno visto Dio, perché l'indigenza e il bisogno ne avevano purificato il cuore. Può vedere Dio solo l'occhio purificato dal crogiuolo della sofferenza.

    La vera Patria di Gesù, infatti, non è la Nazaret geografica, e i "suoi" non sono quelli che vi sono nati: la Patria di Gesù è la Croce e i suoi compatrioti sono i peccatori. Per loro si è fatto peccato, con loro ha condiviso il destino di morte per trasformarlo in destino di perdono e di vita. E' questo il mistero celato in Gesù di Nazaret, il Messia sofferente. Anche noi all'apparire del mistero che avvolge la nostra vita e le persone che ci sono vicine, temiamo e ci difendiamo chiudendoci a riccio, rifiutando ciò che sfugge ai nostri criteri collaudati. Amare il mistero celato negli eventi e nell'altro è la condizione perché essi entrino a far parte di noi stessi, ci stupiscano e coinvolgano nel prodigio di cui sono profezia. L'amore per il mistero è la condizione per la castità, dei sentimenti come della carne, porta dischiusa alla purezza del cuore capace di vedere trasfigurata la realtà. Si può vivere anni accanto a una persona, alla moglie, al marito, ai figli, e non aver amato neanche per un giorno il mistero che li avvolge. Ci illudiamo di conoscere, mentre ci sforziamo di possedere nella speranza di non perdere quanto vorremmo che ci saziasse. E così ci ritroviamo a spingere l'altro sul "ciglio del monte per buttarlo nel precipizio", nell'estremo tentativo di far tacere quel mistero che bussa, tenace, alla porta del nostro cuore. L'esito di ogni possesso infatti, è l'omicidio dell'altro: moglie, marito, chiunque interpelli il nostro cuore, ci svela indigenti e inadeguati, peccatori. Il mistero racchiuso nel prossimo è una chiamata all'amore, e ne siamo sprovvisti. Abbiamo bisogno di un cuore contrito e umiliato, un cuore puro capace di vedere Dio nell'amore incarnato in suo Figlio. Paradossalmente, un cuore puro è un cuore che riconosce d'essere malato. E lì, nella realtà, riconoscere in Gesù il fratello, il compatriota che ha condiviso la nostra patria di morte. Per il nostro cuore "vedovo e lebbroso" è preparato quest'oggi nel quale Gesù ci annuncia di nuovo la Buona Notizia che il Profeta viene a compiere nella sua Patria. Vedere il Messia e l'amore di Dio nella storia e nelle persone significa dunque incamminarsi con Lui sul sentiero della Croce, sulla quale consegnargli i nostri peccati, scoprendo in essa la Patria d'amore dove, amati, impariamo ad amare.


  • "Amare è anche calcolare, eccome"

    Avranno «calcolato» ponderatamente i rischi prima di bussare alla porta della Chiesa i pagani che abitavano l’Impero Romano. Convertirsi significava infatti andare incontro ad una morte probabile. Eppure continuavano a ripetere ai cristiani che desideravano vivere come loro. Accadde anche a quel samurai che, vedendo San Francesco Saverio rispondere con pazienza e amore a dei bambini che lo insultavano e deridevano, ne rimase così affascinato da chiedergli di diventare cristiano come lui; quello straniero, infatti, doveva avere un tesoro molto più grande dell’onore che sino ad allora era stato la ragione della sua vita. «Quello che il cristianesimo offriva ultimamente ai convertiti non era nulla di meno della loro umanità» (G. Bardy), che Dio rivelava autentica e compiuta in Cristo. Incontrandola nei cristiani diveniva naturale «odiare» tutto quello che, nella loro vita, li stava ghermendo nella menzogna. Anche a noi è giunto lo stesso annuncio. Abbiamo visto e sperimentato il suo amore che ha salvato e rinnovato la nostra vita. Ma oggi, «andando a Gesù», che cosa speriamo? Siamo come la «molta gente» che lo seguiva o desideriamo davvero essere suoi «discepoli»?

    Seguire il Signore significa «costruire» con Lui una «torre» come quelle che si ergevano nei campi per raccogliere e difendere il raccolto. Occorre «calcolare la spesa», che comprende ogni istante della nostra vita, e discernere i «mezzi» con cui «portare la missione a compimento», ovvero «la propria croce». Significa «portare» con Lui ciò che ci umilia e che il mondo non può accettare, per annunciare a tutti che c’é una «torre» dove Cristo ci accoglie e ci difende; essa è proprio la croce di ciascuno, dove si può vivere sereni anche nella sofferenza, perché Lui ha seminato la vita nella morte. Scendere dalla Croce è consegnare se stessi e Cristo alla «derisione» del mondo, nello scandalo che impedisce a chi ci è accanto la salvezza. Seguendo il Signore siamo chiamati anche ad «affrontare» con Lui la «guerra» per strappare al «re» nemico i prigionieri della sua menzogna. Ma, è ovvio, non possiamo combattere senza «odiarlo». Non lottiamo però con le creature, ma contro il demonio e i suoi lacci: gli affetti per «padre, madre, fratelli e sorelle» vissuti nella carne e schiacciati nei compromessi, l’idolatria del denaro, feticcio che rappresenta potere e successo. Soprattutto la nostra «propria vita», con i suoi criteri, le ragioni, i progetti. «Chi non odia» tutto questo ogni giorno, finirà con l’odiare Dio per «accordarsi» con il nemico, anche se «lontano»; le sue tentazioni, infatti, sono subdole e difficili da smascherare... Il Signore ci ha «amati sino alla fine», «odiando» perfino il suo essere Dio pur di raggiungerci laddove giacevamo lontani dal Padre. Per questo «non può essere discepolo» di Gesù chi «non rinuncia a tutti i suoi averi» per far posto al suo amore incorruttibile, libero e autentico, che attira ogni uomo nel desiderio di esserne colmato.



  • "La primogenitura e l'ipocrisia"

    Con il battesimo la Chiesa ci ha recapitato l’«invito» del Signore alla «grande cena» preparata da sempre per noi. Ha rinnovato la «chiamata» a seguirlo svelandoci le ricchezze di quel «menù» nutrendoci alla mensa della Parola e dei sacramenti. Ma, allontanandoci stoltamente dalla «tenda» della comunità come Esaù, in caccia di affetti e denari, abbiamo dimenticato i tanti segni dell’amore di Dio disseminati nella nostra vita, perdendone il senso. «Ecco, sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?» (Gen 25,32): «esausti» e in preda alla fame, ci siamo così gettati avidamente sulle «lenticchie» del momento, rifiutando la «grande cena». Giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo, parola dopo parola, senza rendercene conto, la concupiscenza, il «moto dell'appetito sensibile che si oppone ai dettami della ragione umana e ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2515), ci ha strappato la gioia della primogenitura. Ormai schiavi della carne, dettiamo irragionevolmente i tempi della conversione, e organizziamo l’agenda delle priorità stabilendo disordinatamente cosa sia «bene» e «male» per noi, scambiando però l’«unica cosa buona e necessaria» per un impedimento alla felicità. Viviamo affannati per «comprare», ci consoliamo nel «vedere» e «provare» quello che crediamo di possedere, mentre ne diveniamo schiavi perché “la lenticchia è il cibo degli egiziani” (S. Agostino). Ma giunge «l’ora della cena», e allora si svelano i segreti del nostro cuore. Quando la moglie o il marito si avvicinano «invitandoci» ad amarli, ci «scusiamo» opponendo le ragioni della concupiscenza che, paradossalmente, proprio per «esserci sposati», ci impediscono di «gustare» la Grazia del matrimonio, come di qualunque altra relazione. Siamo ancora «uomini vecchi» corrotti nella ricerca del piacere. Per questo, non riconoscendo nel «servo» il volto di Cristo, «non possiamo» intuire la «beatitudine» promessa nella «chiamata» a donarsi, anticipo e profezia del banchetto celeste del quale «nessuno» schiavo «gusterà» le delizie. Ma, nonostante tutto, nella casa del Signore «c'è ancora posto», e nella sua infinita misericordia, ci «forza ad entrare». La versione greca della Bibbia traduce con questo verbo («anànkē - forzare») le tribolazioni e le sofferenze dovute a malattie, fallimenti e persecuzioni. Con esse, dunque, il Signore ci ammaestra cercandoci «per le piazze e per le vie della città», piantando la Croce «lungo le siepi» che ci imprigionano. Con essa distrugge orgoglio e stoltezza, per farci scoprire di essere «poveri, storpi, ciechi e zoppi», pagani nel cuore nonostante il battesimo. Come loro potremo allora desiderare la «grande cena» più delle lenticchie che non ci hanno sfamato. Solo chi non ha più nulla, chi «non vede» il senso della sua vita, chi vive «rattrappito» nella solitudine, chi «zoppica» incapace di tutto, si lascia «spingere» ad entrare al banchetto della misericordia. Costui è «Beato», come Giacobbe immagine dei pagani, un grumo di debolezza che ascolta e accoglie umilmente in ogni evento la «chiamata» gratuita del Signore a «prendere cibo nel Regno di Dio».

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  • "Vedere Gesù è, oggi, la vita eterna alla quale siamo chiamati"

    Come un fiume carsico, scorre in ogni evento e relazione della nostra vita, il desiderio di "vedere" Gesù come lo hanno contemplato i discepoli la sera di Pasqua, riconoscendolo dai segni del suo amore per loro. È nel perdono dei peccati, infatti, che possiamo "vedere" il Signore, e in Lui il volto misericordioso del Padre, origine e destino della vita di ogni uomo. Non è possibile che la mia vita finisca come sta finendo il mio matrimonio. Sono sparite le parole, non ci sono sguardi e carezze a unirci in dono, e da anni siamo due e non più una sola carne... E proprio qui appare dinanzi a noi Cristo risorto. Ci mostra le sue piaghe, e ci chiede solo di "guardarlo e credere" in Lui. Significa, semplicemente, accogliere il suo perdono capace di cancellare il peccato e donarci la sua vita che ha vinto la morte. Nella sua risurrezione può risorgere il nostro matrimonio; in Lui rivive la nostra carne, si può donare e tornare ad essere una e non più due. Esiste dunque un'altra vita, è quella di Cristo nella nostra, è il nostro matrimonio salvato. E' da qui che possiamo cominciare a "credere" e sperare il Cielo e la risurrezione nell’ultimo giorno, per noi e per i nostri cari. Li "commemoriamo" oggi guardando Cristo vivo nella nostra vita, celebrando in essa la Pasqua del Signore che attira ogni vita nel presente eterno del suo amore, dove nulla di noi andrà perduto. Si può desiderare, infatti, solo ciò che si è conosciuto.



  • IL POSTO DELL'AMICO

    Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, infatti, rifiutiamo qualcosa della volontà del Padre, spinti a tentare di «occupare il suo posto» per saziare in libertà le concupiscenze. Sperperiamo la sua eredità per «esaltarci» ai «primi posti» del prestigio e dell’onore, dove ci illudiamo si realizzi la nostra esistenza. Umiliamo e strumentalizziamo gli altri, mentiamo esibendo curriculum artefatti, sino a che il pallone gonfiato dagli inganni non ci scoppia tra le mani. Precipitiamo allora all’«ultimo posto», accanto ai porci come il figlio prodigo, dove ci scopriamo «nudi» come i progenitori e, avvolti nella stessa «vergogna», ci nascondiamo dagli altri, affamati e soli. È quando il Signore, certo «più ragguardevole di noi», appare attraverso i fatti che ci umiliano, e il Padre ci dice di «lasciare a Lui il primo posto» nella vita di tutti. La superba scalata alla menzogna del primo posto ci precipita sempre nella verità dell’ultimo.

    Ma proprio in quel porcile immondo, seduti al «nostro posto», ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l'amore di Dio. Egli, infatti, vede in noi il suo Figlio disceso nel sepolcro, sino al «posto» dell’«ultimo» dei peccatori. E qui, con Gesù, il Padre abbraccia anche noi, ci risolleva e ci sussurra le parole più dolci: «amico mio vieni più avanti», ecco per te l’«onore» che ho dato a mio Figlio risuscitandolo dalla morte. Il Signore ci chiama dunque a riconoscerci peccatori, ad accettare «umilmente» la nostra debolezza e a «metterci all’inferno e non disperare» (Silvano del Monte Athos) in attesa che ci «innalzi» nel suo perdono. A vivere ogni relazione nella verità che ci fa liberi davvero, senza stupirci di non essere considerati, «diminuendo» agli occhi degli altri perché il Signore «cresca» e colmi la loro vita. La Chiesa infatti è ogni giorno messa all'ultimo posto «davanti a tutti» per annunciarvi l’«onore» di Cristo risorto preparato per ogni figlio scappato di casa.



  • Apostoli per Grazia

    Non siamo apostoli per la nostra volontà, per un desiderio, per quanto nobile sia. E' Gesù che costituì, che fece i Dodici. E' opera sua, come la nostra stessa vita è una sua opera che scaturisce dalla sua intimità con il Padre. Mette i brividi pensare al grande mistero della profonda intimità con Gesù alla quale e per la quale siamo stati chiamati. Essa giunge al punto di fare di noi degli alter Christus, degli altri Cristo, condividendo con Lui vita e missione. Gesù è sceso in missione sulla terra uscendo dall'intimità con il Padre per cercare e salvare la pecora perduta. Si è consumato nell'amore che lo ha gettato all'ultimo posto, il posto più lontano dal Padre, scavalcando in una corsa a ritroso, il peccatore più grande della storia. L'ultimo posto di Gesù perché nessuno resti escluso dalla salvezza. Nell'ultimo posto di Gesù vi è il nostro ultimo posto, quello dell'apostolo, quello che ci è riservato ogni giorno. E' esattamente dove i fatti della nostra vita ci conducono che siamo inviati in missione. E' nella difficoltà sul lavoro, in famiglia, dove e con chi sia, che siamo mandati ad essere Cristo stesso, a portare la salvezza, a caricarsi dei peccati del mondo, o meglio a lasciare che Cristo li carichi sulle sue spalle che ha preso in prestito da noi. E' questa la chiamata che ci ha raggiunti, l'amore che consuma il male consumando la nostra vita, perché il mondo riceva la vita, quella vera che ci è data e che sovrabbonda in noi.


  • Quando sei insignificante per il mondo lo stai salvando

    La pienezza della vita è nascosta nell'insignificanza, quella da cui tutti scappiamo con terrore. Ma è proprio in ciò che scivola via invisibile che appare il Regno di Dio, come in un «seme gettato» in un campo o nel «lievito nascosto» nell’impasto è presente qualcosa di vivo e fecondo. Come è accaduto nel sepolcro dove è disceso il Signore: al di fuori era solo morte e dolore, ma al di qua della pietra risplendevano vita e gioia. Era un granello quando viene sepolto in terra, ma è un albero quando si eleva al cielo (S. Ambrogio). Gli strumenti umani, tarati sul successo, il prestigio e la visibilità, non possono rilevare le coordinate del Regno di Dio; esse infatti coincidono con il punto esatto della nostra vita dove, umiliati, fraintesi, traditi, diveniamo invisibili alla vista del radar mondano. Solo la fede sa discernere nella Croce il trono regale di Dio, sul limite oltre il quale ci attendono la disperazione, l'esaurimento, la resa riconoscere Gesù che si dona a noi. L'umana insignificanza definisce l'autenticità del nostro essere: come «il granellino di senapa» e il «lievito» nel buio di terra e farina diventano fecondi, così anche noi siamo spogliati di tutto per rivestirci di Cristo e vivere nell’amore per il quale siamo stati creati. «Gettati» nel «giardino» di Dio e «cresciuti» nella fede della Chiesa, siamo chiamati a distendere le nostre braccia sui «rami» della Croce per accogliere «gli uccelli del cielo», immagine biblica dei popoli pagani. La fede triturata dalle avversità, diffonde il suo vigore (S. Ambrogio). «Nascosti» nell’impasto quotidiano di famiglia, scuola, ufficio, mercato, siamo inviati a «fermentare» di luce i fallimenti che prima o poi aggrediscono ogni uomo. Attraverso la nostra insignificanza redenta, nel martirio silenzioso e nascosto che ogni giorno ci attende, il Signore rinnova il suo amore per questa generazione, mostrando in noi il paradosso del Regno di Dio che la può salvare.



  • "L'amore di Dio è infinitamente più forte dell'ipocrisia del demonio"

    Gesù «insegna di sabato» per accompagnarci a scoprire in esso il suo amore infinito. Per Israele «Shabbat» è un frammento di Cielo deposto sulla terra. Celebrarlo fedelmente astenendosi dai 39 lavori proibiti significa impedire al tempo di chiudersi su se stesso in un angosciante «eterno ritorno». «Shabbat» infatti segna il cammino della vita consegnato da Dio sul Sinai: è una sosta nella fatica, la gioia nel dolore, la memoria sempre viva del destino a cui ogni uomo è chiamato. «Shabbat» custodisce e fa gustare la fragranza della Terra Promessa, accoglie ogni uomo nella gratuità dell’amore di Dio per aprirlo alla lode. «Shabbat» è la misericordia di Dio che cerca il peccatore. E proprio in giorno di «Shabbat» una donna «curva» e «legata da satana» «era là», in quella sinagoga. Senza dire una parola, senza far nulla ascoltava Gesù. Non era «venuta a farsi curare», non lo aveva chiesto, ma, essendo «figlia di Abramo», ne custodiva con fede la promessa nell’attesa del suo compimento. Anche noi siamo «legati» da satana, «curvi» sotto il peso dei peccati che ci impediscono di «drizzarci» per amare chi ci è accanto. Non possiamo liberarcene «in nessun modo», tanto meno attraverso il moralismo «ipocrita» del «capo della sinagoga» che si «sdegna» dell’amore gratuito di Dio. Come lui spesso anche noi, genitori, preti, educatori, scambiamo per «lavoro», impegno, sforzo, strategie, l’opera della Grazia che proprio il sabato profetizza, e finiamo con il chiuderne le porte a tutti. Orgogliosamente incapaci di accettare di essere deboli e peccatori, crediamo di curarci e curare attraverso i nostri sforzi, nel «dolore» e nel «sudore» dei «sei giorni» di lavoro. Ci illudiamo così di stare in piedi, mentre restiamo per «diciotto anni» – la nostra vita lontana dal «giardino» – «curvi» sulla terra a cercare tra «spine e cardi», la felicità che solo il «sabato» della Misericordia può donarci. Ma l’unico «modo» per «guarire all'istante» è «essere là» come quella donna, nel seno della Chiesa nostra madre che ci accoglie così come siamo nel compimento dello «Shabbat». Anche oggi nell’Assemblea Santa, nella comunità cristiana, il Signore ci «vede», ci «chiama»; ci annuncia la «libertà», ci «impone le mani» perdonandoci i peccati, per donarci il suo Spirito. Ascoltiamo allora il suo «insegnamento» che ha il potere di «scioglierci» dalla «mangiatoia» dove lo spirito malvagio ci «tiene infermi» a saziare le nostre concupiscenze; lasciamoci condurre ad «abbeverarci» alla fonte della Grazia che sono i sacramenti, per celebrare «esultanti» nella liturgia le «meraviglie» del suo amore, «glorificando» Dio con i fratelli.



  • Il peccato è vivere senza "esultare di gioia nello Spirito Santo". La missione di satana, infatti, è opporsi (è l'etimologia del nome) alla gioia, tagliando i pozzi dove possiamo attingere la ragione per esultare. Ogni giorno si avvicina prima strisciando come un "serpente" per iniettarci il veleno della menzogna su Dio, che è come dire sulle nostre origini; e poi subdolamente come uno "scorpione" che ha il pungiglione nella coda, perché, dopo averci ingannato sulla Patria da cui veniamo, ci vuole incatenare alla paura della fine, del ritorno ad essa, ingiusta e inospitale ai nostri occhi. Così ci tiene in schiavitù per tutta la vita, inducendoci a disprezzarla. Seducendoci attraverso la sua immagine dipinta con la menzogna sul frutto dell'albero ("Eva vide che il frutto era bello, buono da mangiare e desiderabile per acquistare saggezza), satana ha usurpato il posto di Dio nel nostro sguardo e nel nostro cuore. Ci ha presentato una caricatura di Dio e del Cielo, riducendo l'uno a un hamburger e l'altro a un fast-food dove allungare la mano e per pochi spiccioli acquistare la "sapienza" mondana e la "prudenza" secondo la carne che ci farebbero diventare come Dio. E così ci ha obbligati a specchiarci in un dio falso che ci restituisce un'immagine falsa di noi stessi, un idolo senza vita a cui ci convinciamo di assomigliare. Così satana disprezza la nostra vita, sottraendole il valore e la bellezza che le deriva dall'essere un riflesso della bellezza di Dio; ci fa credere di somigliare a lui, menzognero principe della morte, e sai che allegria scoprirsi ogni giorno con il profilo di Caronte che traghetta le ore all'inferno... Chi cade in questa trappola di satana ha gettato se stesso e la sua vita nel fallimento, ovvero nel peccato, che sappiamo essere proprio il fallimento dell'obiettivo della nostra vita, nelle piccole come nelle grandi cose. Siamo stati creati per esultare nello Spirito Santo, nella Vita di Dio che è stata infusa nella nostra carne plasmata con la polvere del suolo. Se satana riesce a farci buttar fuori l'Ospite dolce dell'anima, ha vinto, consegnandoci alla frustrazione della sconfitta, porta spalancata sul suicidio. Per questo, ogni istante vissuto senza esultare, senza cioè respirare a pieni polmoni l'ossigeno di Dio, è un istante buttato nella pattumiera; ogni pensiero, parola e gesto che non è stato fecondato dal soffio della vita divina e in esso non si muove è roba corrotta, avvelenata dal serpente e morsa dallo scorpione. Quante vite buttate così. Quanti giovani spalmano le loro ore tra noia e insoddisfazione, cercando nell'alcool, nella droga e nel sesso l'alito di vita che faccia impennare l'esistenza. Forse anche tu, da tempo hai disprezzato te stesso e rinchiuso la tua vita nell'anestesia della disperazione, e ora ti accontenti di non soffrire troppo, e passi le ore cercando di schivare la responsabilità e i rischi che suppongono l'amore, che è il Nome di Dio fatto carne nel Figlio e gioia nello Spirito Santo. Esulta, infatti, solo chi, amato da Dio, ama in Lui. Vive in pienezza raggiungendo il "target" di ogni esistenza consegnata da Dio solo chi, unito a Cristo, ama sino a morire per l'altro, cammino certo alla gioia di chi sperimenta il passaggio alla risurrezione. Sì fratelli, perché la gioia autentica per la quale siamo stati creati, e ricreati dopo averla disprezzata con il peccato, è quella dei discepoli che hanno visto "i loro nomi scritti in Cielo". Quando? Quando Cristo risorto è apparso loro mostrando le sue piaghe gloriose, e il vangelo annota che i discepoli gioirono immensamente. Quando cioè hanno visto nella carne di Gesù la prova del perdono che smentiva la menzogna del demonio. Quando, finalmente umiliati nella verità, "piccoli", "infanti" secondo l'originale, ovvero senza parole di fronte alla Croce, Gesù ha rivelato il vero volto del Padre nel suo che li accoglieva e amava così come erano. L'esultanza di Gesù planava nei loro cuori dal Cielo dove aveva scritto con il suo sangue i nomi di ciascuno. In quell'incontro sulla soglia che dischiudeva la loro piccolezza che li aveva indotti a tradire per paura sulla grandezza infinita dell'amore di Dio, gli apostoli avevano sperimentato la gioia autentica, quella che San Paolo comandava con uno strano imperativo aoristo (continuato) ai fratelli della comunità di Filippi.



    Si può comandare un sentimento? No di certo, ma la "gioia" a cui l'Apostolo invitava ad obbedire non è un sentimento, ma la forma autentica e fondamentale in cui un cristiano perdonato da Dio rivela al mondo il suo cuore rinnovato nell'amore. E' la felicità incontenibile di chi, come la Vergine Maria, sperimenta il potere del Nome di Cristo che scaraventa satana giù dal Cielo come folgore, perché risplenda in esso il suo "nome" insieme a quello dei suoi fratelli. Il nome nella Scrittura rappresenta la persona e tutto ciò che la costituisce, la sua storia, i suoi affetti, anche gli aspetti più piccoli. Gesù ha scritto con il suo sangue ogni istante della nostra esistenza sul Libro della vita: nel suo amore ogni peccato è trasformato in luce di misericordia, ogni momento buttato è riscattato, come ogni angoscia, tradimento, menzogna, cupidigia, concupiscenza; tutto di noi, ma proprio tutto, lavato nel sangue del Signore, splende già ora nel Cielo. Tutto di noi è registrato nel cuore di Dio, come nell'inventario delle sue cose più preziose, anche quello che stiamo vivendo ora e ci fa soffrire. Ed è così "perché il Padre ha deciso così", perché a Lui "è piaciuto" salvare ogni uomo attraverso i più piccoli, quelli che, dopo un lungo cammino di conversione, hanno scoperto come Giobbe di non aver capito e visto nulla. Gli "infanti" che, come lui, si mettono la mano sulla bocca e non parlano più, la smettono cioè con le parole banali del mondo, per lasciare spazio al silenzio della contemplazione del Figlio, del volto autentico di Dio che, insieme a tutti gli altri uomini, non avevano potuto vedere a causa dell'inganno satanico. Fratelli, Dio ha scelto noi, il peggio, perché non esista nessuno peggiore da scartare. E così, "piccoli" e senza parole sapienti e prudenti secondo gli uomini, con la sola parola della Croce siamo inviati nel mondo dove tutti vivono il dolore dell'esilio dalla propria patria. Il Nome di Cristo che ha vinto la morte nei nostri nomi scolpiti in Cielo ha il potere di precipitare satana dal cielo per dischiudere gli occhi di tuo marito, tua moglie, i tuoi figli, i colleghi, sul volto di Dio. Liberi da ogni ansia di successo perché consapevoli che la gioia autentica non nasce neanche dai miracoli dell'amore di Dio, "camminando su serpenti e scorpioni senza che questi ci possano danneggiare" portiamo l'aria del Paradiso che il demonio ha nascosto alla terra. Vittoriosi cioè sulla morte e il male che dominano il mondo, "contempliamo" il compimento del giorno del Messia "che Profeti e Re hanno desiderato ardentemente vedere", mentre attraverso la nostra "beatitudine" lo annunciamo a ogni uomo per riportarlo a casa con noi. L'esultanza, infatti, è la nostra missione! L'esultanza in mezzo alla valle di lacrime che è l'esistenza sulla terra segnata dal peccato e dal male. L'esultanza della "perfetta letizia" che aveva scoperto San Francesco: non la gioia per i miracoli, le prediche, le conversioni. La gioia perfetta che si sperimenta proprio nel dolore e nella persecuzione, nel rifiuto e nella calunnia, la gioia piena che scaturisce solo sulla Croce, dove il nostro nome fatto di terra è scritto in Cielo nel Nome che è disceso dal Cielo. Chi ha conosciuto il perdono dei peccati e l'amore che lo ha trasferito alla destra del Padre, esulta di gioia pura proprio nella sofferenza, e depone così nella sofferenza di ogni uomo la testimonianza della vittoria di Cristo, il martirio di un amore che supera le angosce della morte. E così, come Francesco, proprio mentre torniamo a casa dalla missione, il rifiuto e la persecuzione, la malattia e le sofferenze, ci faranno testimoni pieni di gioia del Cielo, perché anche i nomi di chi ci è accanto, compresi i nemici, siano scritti lassù, accanto ai nostri.


  • Custoditi dagli Angeli perché siamo il tesoro più prezioso di Dio

    La Festa degli Angeli Custodi che celebriamo oggi, come sale versato su una ferita, fa risuonare in noi questa domanda: chi ti ha “disprezzato”? Chi ha “pensato contro” di te? Chi cioè, ti ha guardato, giudicato, pesato, per stabilire che non vali, che sei fuori mercato, senza prezzo? Perché, nel fondo, pensi così di te stesso, o no? Che magari sei fuori catalogo, il tuo modo di parlare è datato, non lo capisce più nessuno; il tuo fisico è impossibile da vestire, viste le taglie degli abiti che ormai si vendono nei negozi. Per i tuoi figli sei solo di inciampo, per i tuoi genitori di sicuro sei il figlio venuto male. Per gli amici il tonto di turno, mai all’altezza delle aspettative del marito, neanche una volta al tempo con i desideri e i bisogni della moglie. Anche se sempre in tiro per non deludere il fidanzato o la fidanzata, alla fine ti ritrovi con quel complesso di inferiorità che ti pesa come un macigno e ti scaraventa nell’ansia di perdere l’altro. Per favore prenditi un momento, siediti, se puoi vai in una chiesa, mettiti in ginocchio davanti al Santissimo, e lascia che questa domanda scenda nel profondo del tuo cuore: chi mi ha disprezzato al punto di farmi credere che valgo pochissimo o nulla? Sono persuaso che il Signore, proprio per mezzo dei suoi Angeli inviati per proteggerti, vuole condurti oggi nel fondo di te stesso, dove satana - l’accusatore, il pubblico ministero del processo contro Dio e le sue creature molto buone – ha seminato la menzogna con cui ti ha fatto credere di non valere. Ma come ha fatto a ingannarti? Mentendoti su Dio, quando, in una difficoltà, nella sofferenza e nella debolezza, ti ha insinuato che non ti amava, perché permetteva quella situazione, e ti aveva creato così fragile e impotente. Ma se accettiamo che Dio non ci ama perdiamo immediatamente il valore della nostra vita, che ci viene appunto dal suo amore. Ogni uomo, infatti, vale in relazione a un tu che lo costituisce come io. Non possiamo darci da soli l’identità, men che meno il valore. Come diceva l’iniziatore del Cammino Neocatecumenale Kiko Arguello alla manifestazione in favore della famiglia dello scorso 20 giugno, per essere persona abbiamo bisogno di un “Regista” che ci dia un’identità che è il ruolo - missione da interpretare sulla scena del mondo; altrimenti restiamo come uno dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello, magari il figlio che verso la fine afferma al capocomico: “le par possibile che si viva davanti a uno specchio che, per di più, non contento d'agghiacciarci con l'immagine della nostra stessa espressione, ce la ridà come una smorfia irriconoscibile di noi stessi?”. Così Pirandello presentava la sua opera: «Ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi appunto perché manca l’autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati». Questa opera teatrale - che vi invito a leggere e a guardare (vi lascio gli strumenti…) - rappresenta molto bene il dramma della nostra vita; come per i sei personaggi infatti, anche la nostra storia autentica ci sembra scritta ma mai rappresentata, perché, come afferma uno dei sei, il padre, “l’autore che ci creò, vivi, non volle, poi, o non poté materialmente metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto […] perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo può ridersi anche della morte. Non muore più!». E’ proprio quello che il demonio è riuscito a farci credere: non valiamo nulla perché Dio ci ha abbandonato dopo averci creati; orfani dell’amore che ci darebbe la vita, siamo condannati a morte come dei personaggi incompiuti e obbligati a cercare in se stessi un ruolo “grande” per sfuggire all’oblio. Il fallimento di ogni tentativo di darci un’identità ha aperto le porte del nostro cuore al disprezzo del demonio, che trova accoglienza nel risentimento e nella frustrazione, al punto di indurci al suicidio, come avviene nell’opera di Pirandello. Perché il disprezzo è un veleno che uccide goccia a goccia, impedendo che la nostra vita si compia nell’amore.

    Ma oggi, al fondo del disprezzo che tiene schiavo il nostro cuore, giungono gli Angeli inviati da Dio per “custodirci” dal demonio con l’annuncio del suo amore infinito. Il Vangelo, infatti, è la “spada dello Spirito Santo” con cui possiamo combattere contro il nemico, perché in esso risplende la Verità: il Padre non ha abbandonato la sua creatura, anzi, la ha amata sempre, anche quando, sedotta dal serpente, ha abbandonato il suo Creatore. Fratelli, se ci sentiamo ancora strangolati dal disprezzo, significa che abbiamo smesso da molto tempo di ascoltare gli angeli che ci predicano la Buona Notizia. Non solo quelli in carne ed ossa che Dio manda ogni giorno alla nostra vita: pastori, catechisti, genitori, fratelli. Dobbiamo confessare che forse non pensiamo mai agli Angeli Custodi, i "ministri della divina premura per ogni uomo. Dall’inizio fino all’ora della morte, la vita umana è circondata dalla loro incessante protezione" (Benedetto XVI). Hai pregato oggi il tuo angelo custode? Hai pregato quello di tuo marito o di tua moglie, dei tuoi figli? E’ da quando eravamo bambini che non lo facciamo, vero? Allora pregavamo come ci aveva insegnato la mamma: "angelo di Dio che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla Pietà Celeste. Amen". Che profondità questa preghiera! Ci rivolgiamo a colui che ci può “custodire”, capite? Significa che siamo preziosi, perché si “custodisce” solo ciò che vale, l’immagine e la somiglianza con Dio che ci dà un’identità unica e meravigliosa. Siamo tanto preziosi che Dio manda per ciascuno di noi una speciale e invincibile “guardia del corpo” che, oltre a proteggere i nostri passi dai pericoli per l'incolumità fisica, ci è accanto per “illuminarci” con il Vangelo che ha il potere di polverizzare la menzogna del demonio e così, alla sua luce, possiamo discernere passo dopo passo la volontà di Dio, che è l’incarnazione del suo amore infinito per noi; per “reggere” il nostro corpo e il nostro spirito affinché non si pieghino sotto le insidie del maligno; per “governare” il nostro cuore affinché ci consegni senza riserve al nostro Sposo. Sì fratelli, perché gli Angeli Custodi sono per noi come le damigelle d’onore che accompagnavano e scortavano la Sposa nel corteo nuziale. Ai tempi di Gesù, l’ultima parte delle nozze, si chiamava “nishu'in”, che deriva dal verbo “nasha'”, che significa “elevare” o “alzarsi”. La sposa, infatti, anticamente era condotta alla cerimonia su un seggio sollevato da aste di legno. Come ogni promesso Sposo in Israele, Gesù è uscito dalla casa del Padre e, dopo aver pagato per noi il prezzo della sua vita, è venuto a “rapirci” di notte per “farci sua Sposa per sempre nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, e fidanzarci nella fedeltà” (Cfr. Os 2, 21-22). Come suggerisce il verbo ebraico usato unicamente per una ragazza vergine, Dio distrugge nel suo amore ogni peccato che ci ha fatto vergognare e disprezzare. Nella Chiesa, infatti, ci ha promessi a un unico Sposo come vergine casta e senza ruga né macchia, avendo lavato ogni nostra sozzura nel sangue dell’Agnello. Siamo preziosi perché non è possibile fissare il prezzo della vita di Cristo che ci ha riscattati dal peccato. Rinati nel grembo della Chiesa, la nostra vita è un cammino che Cristo ci chiama a fare accanto a Lui verso il compimento delle nozze nel Cielo. Lui con i suoi amici, gli apostoli, ci ha “rapiti” dalle mani del demonio, e ora possiamo camminare in una vita nuova, scortati dalle damigelle d’onore che sono gli Angeli che il Padre invia perché non cadiamo allontanandoci dallo Sposo. Essi ci “illuminano” proprio come facevano le amiche della Sposa con le torce senza le quali, a quel tempo, di notte non si poteva andare da nessuna parte. Fratelli, siamo noi i “piccoli che credono in Cristo”, la Sposa meravigliosa che cammina “appoggiata (questo significa “fede”) al suo Diletto”, nessuno può “disprezzarci” perché i nostri angeli che ci scortano “vedono sempre la faccia del Padre che è nei Cieli”; ci vedono cioè già in paradiso, come riflessi attraverso di loro perché, salendo e scendendo sulla scala che unisce la terra al Cielo, ci illuminano con il riverbero del volto di Dio che non smettono di contemplare, ma riflettono la nostra immagine in Cielo, nel cuore del Padre, come aveva scoperto Dante. Per questo possono accompagnarci lungo il cammino verso la stanza nuziale dove ci uniremo allo Sposo per l’eternità. Ci “custodiscono” e “reggono” perché restiamo con Lui sulla “Lettiga del Re Salomone” (cfr Ct. 3,5) ovvero il letto d’amore dove Gesù ci crocifigge con Lui per condurci al Cielo. Su di essa Gesù “trasfigura il nostro piccolo, misero, tapino corpo dell’umiliazione per farne un corpo di gloria” (cfr. Fil. 3,20)! Al colmo del disprezzo del mondo, quando cioè sembra che tutto stia fallendo miseramente, la Croce distrugge ogni presunta “grandezza” e ci fa “piccoli” per accogliere il valore, la bellezza, la pienezza, la Gloria con cui Dio ha colmato il suo Figlio. Sulla Lettiga, infatti, “un baldacchino si è fatto il re Salomone, con il legno del Libano”, il cui “centro è un ricamo d’amore delle fanciulle di Gerusalemme”: proprio al centro della Croce Gesù ha “acceso” (secondo l’ebraico originale tradotto con “ricamo”) il suo amore, unendoci alla sua bellezza nella trama della storia. E’ allora necessario “custodire” questo “ricamo” dal demonio che appare sempre sotto la Croce per indurci a scendere: per questo “sessanta prodi le stanno intorno, tra i più valorosi di Israele. Tutti sanno maneggiare la spada, sono esperti nella guerra; ognuno porta la spada al fianco contro i pericoli della notte”. Questi prodi sono gli Angeli Custodi che con la “spada” della Parola di Dio ci proteggono nelle notte delle tentazioni. Possiamo stare tranquilli fratelli, perché gli angeli custodi "non possono essere sconfitti né sedotti e tanto meno sedurre, essi che ci custodiscono in tutte le nostre vie. Sono fedeli, sono prudenti, sono potenti. Perché trepidare? Soltanto seguiamoli, stiamo loro vicini e restiamo nella protezione del Dio del cielo" (San Bernardo).