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Nata, in un primo momento col titolo "Canzone dal carcere", costituisce il definitivo scioglimento narrativo, la conclusione dell’intera vicenda, riprendendo, musicalmente, i motivi di apertura, per ritornare, parafrasando un’espressione del brano precedente, dopo l’amore, alle carezze... dell’utopia che, sosteneva De André, assieme all’innocenza e alla solidarietà, è oggetto d’invidia da parte del potere nei confronti degli umili.
Con la presa di coscienza di una nuova visione per la realizzazione del sogno, l’ex colletto bianco acquista una nuova consapevolezza, che lo porta a considerare con maggiori possibilità di successo l’azione collettiva piuttosto che quella individuale. L’incipit, “é cominciata un’ora prima e un’ora dopo era già finita”, sembra quasi la risposta a “La ricreazione è finita!”, l’espressione usata da De Gaulle allo sfumare del movimento. In un solo mese, quella fiammata libertaria, com’è noto, si spense. Ma durante questa “ricreazione”, quest’ora di libertà, questo brevissimo lasso di tempo in cui poter respirare la stessa aria dei secondini, il protagonista dell’album scopre la parola “collettivo” e la sua importanza. Il Sessantotto, “se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato”, palesò, per certi versi, che lo Stato basato sui privilegi per far posto allo Stato di diritto non era ancora finito e lì, in quel luogo di costrizione, in cui a certi parametri sono tutti uguali, egli trova, quindi, il senso di appartenenza ad una comunità, in cui l’io diventa noi.
Questa ed un sacco di altre cose l’ex impiegato ha imparato “in mezzo agli altri, vestiti uguali”: ad esempio, che non esistono poteri buoni, citando Evtušenko e il suo Stenka Razin, capocosacco protagonista de La centrale di Bratsk e della rivolta cosacca del 1670, una sorta di Masaniello russo, propugnatore di principi egualitari e dell’abolizione della schiavitù e dei privilegi.
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Questa è, a grandi linee, la storia di Storia di un impiegato, con qualche piccolo dietro le quinte. Un album che, nonostante le critiche, ebbe il suo successo. La collaborazione tra i vari coautori, ancorché l’album fu seguito da una tournée, non proseguì ma, artisticamente l’album rappresentò una svolta, per De André. Proprio come il protagonista del disco, infatti, nel frattempo, il Faber nazionale abbandonerà la sua vena individualistica: “… non ne potevo più di fare il piccolo Leopardi chiuso in casa a farsi venire la gobba…”, dirà all’alba del tour che ne seguì due anni dopo.
Per cui, di lì in avanti cercherà sempre altri autori e collaboratori: De Gregori, PFM, Bubola, Pagani, con il quale approderà alla svolta etnica, Piero Milesi, Ivano Fossati, per citarne alcuni.
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Della sua romantica utopia resta, non ultimo, il seguente lucido pensiero: “Aspetterò domani, dopodomani e magari cent’anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopia”.
In conclusione, possa rimanere una duplice consapevolezza: quella che, a ripercorrerlo, basta comunque il libretto interno a cura di Dané, spesso citato in queste puntate, e quella del fatto, come scrisse lo stesso De André a Villon, uno dei suoi tanti punti di riferimento culturali ben precisi, in una lettera immaginaria, “… che quando si tratta di poeti è meglio lasciar parlare loro e non perdere troppo tempo nel tentativo di spiegarli”.
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In origine recava un altro titolo, Lettera alla donna, ed è una lettera che dal carcere dove è stato rinchiuso, l’ex-impiegato scrive all’indirizzo della sua donna. Insieme al brano successivo, costituisce lo scioglimento narrativo dell’intera vicenda, degradando inesorabilmente verso il finale ultimo e definitivo; ma questo momento ne interrompe e ne addolcisce per un attimo il corso.
Partorita per esaudire la sua intenzione di scrivere, del Sessantotto, con un intento più poetico, su di essa dirà:“è venuta spontanea, forse perché mi ero accorto che il disco era arido, senza umanità”, ed è anche un brano in cui emerge quel motivo per cui De André si doleva di aver scritto l’album, nel momento in cui sembra di insegnare ad un altro come comportarsi.
E dal carcere dove ora è rinchiuso, a seguito del fallito attentato, l’impiegato inizia a prefigurarsi anche come la stampa si scaglierà su di lei per sbattere, come si suol dire, il mostro in prima pagina. Cosa lei risponderà di lui, cosa dirà sul suo conto? Ricorderà di come non siano riusciti a cambiarsi reciprocamente ma di come saranno stati condizionati dall’ambiente in cui vivevano.
Inanellando i ricordi dei vissuti insieme dai due, ecco un affresco in cui vengono alla luce, seppur mediati dal tema amoroso, nel tessuto narrativo che così continua ad allargarsi e ad ampliarsi, altri generi di rivendicazioni verso altri generi di autoritarismo.
Tasselli fondamentali delle lotte, infatti, furono anche quello sentimentale, la rivoluzione sessuale e quella femminista contro la presunta superiorità dell’uomo, in quel periodo storico in cui ancora vigeva il delitto d’onore. E poi c’è il benessere borghese, col suo potere corruttivo, a pesare come un macigno, “come una pietra al collo”, sulla loro relazione in cui si insinua, cercando di voler cambiare i loro ideali iniziali… riuscendoci. Il riserbo e il tatto dei racconti deandreiani qui si fondono con gli abbellimenti melodici di Piovani a sottolineare la condizione di stanca e di consunzione della relazione e di promesse, che vanno a corrente alternata e spesso sono destinate a spegnersi… nelle pieghe di riferimenti e allusioni, anche intimi, della vita di coppia che si combinano con un motivo melodico lineare che non si espande, si inviluppa, non riesce ad esprimersi compiutamente e non mette le ali, proprio come l’amore dei due protagonisti.
È la sola canzone dell’album che riproporrà durante i concerti, a parte la prima tournée che seguirà l’album, in cui Storia di un impiegato sarà riproposto per occupare l’intero primo tempo dello spettacolo.
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Se, nell’album, la donna cui si rivolge è senza dubbio quella dell’impiegato, sono emerse perplessità su chi ne fosse l’ispiratrice nella realtà. Fuori dal gossip, a detta di Fabrizio, “l’ho scritta per la mia ragazza di allora, che poi è la stessa per la quale ho composto Giugno ‘73. Non è né la mia prima moglie né Dori, ma una donna di cui sono stato molto innamorato”.
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Nei versi conclusivi, alla stregua di quanto operato nel sogno dal giudice nei suoi confronti, nella realtà è il protagonista ad esortare lei ad una scelta. Se già in precedenza ha avuto modo di invitarla a riflettere sul senso di una relazione amorosa, se la stessa debba valere per quello che è o meramente per avercela garantita, nel finale c’è il tempo per un’esortazione e una richiesta al contempo ad una scelta coscienziosa, già difficile di per sé per l’incertezza che la caratterizza, mettendo la destinataria, indirettamente, soprattutto in guardia dai compromessi.
In una scelta d’amore, si sa, entrano in gioco i fattori più svariati: intesa, complicità, passione, poesia… e l’amore, come ricordano una canzone francese di quel periodo e, in seguito, Fromm nel suo Avere o essere?, è figlio, non a caso, della libertà, fine non ultimo del disordine di quei sogni, sostanziati anche d’amore.
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Il flusso narrativo dell’album, anche musicalmente, subisce una battuta d’arresto e dal sogno si passa alla realtà con questo che rappresenta lo spannung dell’intera narrazione, il momento di massima tensione, il momento cruciale che porterà De André anche ad una maggiore attenzione da parte Servizi segreti.
Dai documenti ufficiali del Sisde degli anni ‘70 si possono leggere i seguenti stralci: “… identificare il De André Fabrizio e fornire informazioni sul suo conto direttamente al Ministro (…) viaggia sempre accompagnato dalla moglie, in spostamenti continui e sospetti, tra Genova e Milano (…) trattasi di appezzamento di terreno in località Tempio Pausania, dove il De André intenderebbe istituire una comune per extraparlamentari di sinistra, grazie a contatti anarchici e filocinesi”.
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E fa sorridere anche al pensiero che lo stesso De André aveva già scritto, anni prima, La guerra di Piero, un fondamentale manifesto pacifista. Piovani non sarà l’unico a pensarlo. Fernanda Pivano lo definirà “il dolce menestrello che per primo ci ha fatto le sue proposte di pacifismo, di non violenza, di anticonformismo, che sono tutte annidate nei nostri cuori…”.
Scrive Dané: “L’impiegato sa cosa fare, sa dove andare, sa chi deve colpire e perché. Va dritto al Parlamento a gettare una bomba vera per ammazzare gente vera, ma la sua abilità era soltanto un sogno: la bomba rotola giù verso un’edicola dei giornali e l’unica cosa che lo colpisce è, come una previsione, la faccia della sua stessa fidanzata che sta su tutte le pagine dei giornali”.
E così l’attentato fallisce, al ritmo di una marcia che sottolinea il suo incedere regolare e attento in direzione del “luogo idoneo adatto al suo tritolo, del posto degno del bombarolo”, suo vero obiettivo. Ma solo nell’utopia, ossia nel non luogo del sogno. Nel concretizzarla, la sua azione per un qualche imprevisto va a rotoli, l’epilogo è un fallimento, l’azione del “trentenne disperato” fallisce.
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Ma il suo anarchismo, derivante dalle letture di Bakunin, Stirner, Brassens, per citarne alcuni, è rinvenibile in questi suoi pensieri: “Direi d’essere un libertario, una persona estremamente tollerante. Spero perciò d’essere considerato degno di poter appartenere ad un consesso civile perché, a mio avviso, la tolleranza è il primo sintomo della civiltà, deriva dal libertarismo. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine negativo, addirittura orrendo… anarchico vuol dire senza governo, anarché… con questo alfa privativo ... vuol dire semplicemente che uno pensa di essere abbastanza civile per riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia (visto che l’ha in se stesso), le sue stesse capacità. Mi pare così vada intesa la vera democrazia. […] Ritengo che l’anarchismo sia un perfezionamento della democrazia”.
Viceversa, rivendicando le istanze riformistiche che scendevano in piazza e loro il democratico diritto di manifestare, grazie al quale si esprimevano i movimenti di quegli anni, sul fenomeno del terrorismo, che cominciava a prendere piede, De André dichiarò: “il terrorismo è stata la vera esasperazione: il Sessantotto che ho vissuto io era un’epoca ricca di fantasia e ha fatto del bene. Le Brigate rosse no, se avessero vinto, oggi staremmo peggio”.
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… o, si potrebbe dire, sogno numero tre, dove il conflitto continua e dalle barricate, passando per il processo, si trasferisce nell’animo, nell’intimo del protagonista e con cui inizia la seconda parte dell’album, il lato B del vinile.
In una dimensione più psicologica, nella sublimazione onirica, la richiesta di negoziazione, di addivenire a più miti consigli, conduce il sogno e l’udienza in cui la stessa è ambientato in un’altra direzione, trasformandoli in una conversazione, in un colloquio alla pari, dove l’asimmetria tra organo giudicante e imputato si azzera.
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In questi tre brani di stampo “onirico” (“reichiani”, come li definisce Dané), l’album vive un equilibrio narrativo, che è anche un equilibrio psicologico, raggiunto apparentemente dall’impiegato, allorquando finisce per ritrovarsi, sempre all’interno di quella dimensione, nei più rassicuranti panni del padre.
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Dopo essere stato chiamato a decidere di se stesso e in piena autonomia sull’esito del processo, il giudice, quasi come ad incalzarlo, gli chiede delle sue reali intenzioni per un progetto di vita e, in alternativa ai sogni che non fanno svegliare, gli offre il posto del padre.
Gli scenari che gli si prospettano, mentre riflette sull’accettazione, eventuale, pura e semplice della proposta, sono una galleria di immagini che, in filigrana, paiono rivelare altre richieste dei movimenti sessantottini. In una celebre intervista a Gianni Minà, De André, con particolare riguardo al poeta beat Gregory Corso, al quale, nell’occasione, regalò una copia dell’album, ebbe a sottolinearne l’importanza nei confronti di quella generazione, avendo rivestito, anche per lui stesso, uno sprone significativo nello scrivere laddove Dante Alighieri, invece, a suo parere, aveva chiuso una porta poiché sembrava che, dopo di lui, nessun altro potesse esprimersi, scrivere o esprimersi scrivendo. E questa è una di quelle cifre che caratterizzarono le proteste: cioè, la rivendicazione di una maggiore libertà espressiva.
C’era poi quella di un più concreto riconoscimento del diritto allo studio, laddove Berto, compagno di scuola, figlio di un’umile lavandaia, vistoselo negare, continua, nel suo anelito verso la conoscenza, a imparare a contare ma sulle antenne dei grilli. Successivamente, il protagonista, si vede prendere il posto del padre. Finisce per identificarsi col più potente dei simboli del potere che avrebbe voluto eliminare, quello genitoriale. Con tutto il carico che sempre più spesso appartiene a quel clichè … il naufragio di una relazione coniugale, ad esempio, in una immedesimazione quasi totale, negli anni in cui cominciavano i primi movimenti sul divorzio.
Le voci che si levavano sul tema in quegli anni e soffiate da quei venti di protesta affiorano anche nell’immagine dell’ultimo figlio, “il meno voluto”, col “suo primo hashish”, in cui ribollono le problematiche nascenti sia dall’interruzione di gravidanza, sia dalla tragicità dell’assunzione di droghe.
Così, egli comprende le perplessità e le difficoltà di quella determinata realtà, fatta davvero di sogni da cui sempre più spesso non ci si sveglia o da cui non ci si vuole svegliare. Il fiume di immagini e il risveglio hanno un sapore sempre più angoscioso e pericoloso, “prendono fuoco”,tanto da proiettarlo, fiondarlo repentinamente fuori dal sogno e a ricominciare da capo nel suo intento rivoluzionario.
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I tentennamenti ideologici, pur presenti qua e là nel disco e derivanti dalla collaborazione con i coautori, non distolgono De André dalla sua posizione che è sempre quella di non “avere nessuna verità assoluta in cui credere e di non avere nessuna certezza in tasca”.
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A seguito della sua azione terroristica, per l’impiegato non resta che la conta dei caduti e lo stupore della loro fragilità, nessun beneficio reale.
Il sogno continua e l’impiegato diventa, a causa della sua condotta antigiuridica, “per quello che ha fatto”, un imputato al cospetto di un giudice. Ed è il momento in cui vengono alla luce anche le vere dinamiche del potere, che avendolo osservato sistematicamente, quotidianamente, costantemente, dal momento della nascita a quello dell’attentato del ballo in maschera, gli propone pragmaticamente, di sostituirvisi, così da perpetuarne e garantirgliene, gattopardescamente, la continuazione.
Si congratula con lui per l’operato, avendo favorito il gioco del potere, sgombrandogli il campo dai “soci vitalizi”.
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Più che altrove in quest’album, in questo che è l’ultimo brano, in ordine di elaborazione, composto con Roberto Dané ed assente in una prima esecuzione in studio, sembrano riecheggiare i versi riportati in copertina in omaggio al poeta beat Gregory Corso “La Pietà perdona la bomba e si appoggia al suo bombardamento preferito”.
Ripercorrendo il colpo di scena, l’imputato, nel momento in cui è entrato in azione, col suo piano, ha incarnato egli stesso un potere - giudicante ed esecutivo al contempo - e, in quanto tale, ne ha assunto tutti i tratti, così da spianarsi la strada alla possibilità di esserne assorbito, per diventarne un nuovo ingranaggio. Il togato stesso glielo riconosce: l’atto terroristico di cui si è reso artefice il travet, confondendo l’urgenza di potere con la sete di vendetta, lo ha trasformato in un nuovo potere. L’imputazione diventa gratitudine, e per i modi e per le forme in cui ha agito, e così il potere glien’è grato. Come si legge nelle note di copertina, “… in ringraziamento per aver eliminato vecchi residui che davano fastidio al potere stesso”.
L’interrogatorio, musicalmente incastonato in un melologo in cui il basso, nello scandire il tempo, evoca il battito cardiaco dell’imputato, non è più tanto tale: piuttosto, da interrogatorio diviene un patteggiamento e l’udienza si chiude né con una sentenza, né con altri atti propri conclusivi del processo ma con una domanda, una richiesta di giustizia capovolta, dal giudice all’imputato, nell’attesa che la decisione, come in una sorta di autotutela, venga presa da quest’ultimo.
Nei primi anni settanta, sul panorama politico italiano si addensavano nubi cariche di tensione. Quel 1973, in particolare, quando uscì Storia di un impiegato, fu funestato da diversi episodi violenti, di manifestazioni di piazza, di furia e di repressione: l’uccisione di uno studente della Bocconi, nel corso di una manifestazione studentesca; una bomba a mano lanciata sulla folla nel corso di una cerimonia davanti alla Questura a Milano che provocò quattro vittime e quarantacinque feriti.
Così, anche se l’album uscì a cinque anni dai noti fatti del Sessantotto, la distanza dagli stessi non lo aveva ancora storicizzato abbastanza, e quell’entusiasmo, quella spontaneità delle istanze più ragionevoli rischiavano di passare alla Storia con ben altri significati di fondo.
Diversi episodi ne minavano le ragioni fondamentali e l’anima libertaria, facendo passare quella violenza del 1973 come strascichi di quanto avvenuto cinque anni prima.
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In una chiave più attuale, si potrebbe dire che l’impiegato, col suo atto, determinò una variante di quello che è il virus del potere, avvolgendo il tessuto economico-sociale e, quindi, democratico, con il suo di tessuto, quello adiposo, in cui accumula i suoi privilegi.
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L’impiegato si ritrova in un’altra dimensione: quella del sogno. Già, il sogno, e non è l’unico, né il primo né l’ultimo narrati dalla penna di De André. I sogni, i cuccioli del maggio li cantavano, ne cantavano il disordine, e allora vediamoli, nella loro sequenza, dei solchi sul vinile prima e delle tracce su cd successivamente, questi sogni che s’impossessano dell’impiegato.
“Solo nei sogni, gli uomini sono davvero liberi”, ricordava il prof. Keating ne "L’attimo fuggente". Ma mai De André avrebbe aderito alla lotta armata, seppure in sogno. Tanto premesso e chiarito, semmai ve ne fosse bisogno, in questo primo momento onirico l’impiegato fantastica di autoinvitarsi ad una festa in maschera dove, per la singolarità degli invitati, questi sono tutto ciò che egli avrebbe voluto intimamente e sempre combattere, tutte quelle maschere che avrebbe voluto far saltare, scagliandovi contro un artigianale ordigno esplosivo da lui stesso confezionato per l’occasione. In questo suo sogno, sono gli ideali, i simboli borghesi, i nemici da combattere.
Come Cyrano di Bergerac, animo libertario per antonomasia che, nella confusione mentale causatagli dal trauma occorsogli per essere stato colpito alla testa da una trave, si scaglia, a difesa della sua libertà, contro la falsità, l’ipocrisia, il perbenismo, veri obiettivi della sua spada, apostrofandoli con: “… Qual fosco drappello è lì? – Son più di mille… Ah, sì, vi riconosco, vecchi nemici miei, siete tutti colà! La Menzogna? Ecco, prendi!… Ecco, ecco la Viltà ed ecco i Compromessi e i Pregiudizi! Che io venga a patti? Mai! – Ed eccoti anche te, Stoltezza! – Io lo so che alfine sarò da voi disfatto; ma non conta: io mi batto, io mi batto, io mi batto”.
Così, l’impiegato, come un cadetto di Guascogna contemporaneo, nella nebbia del suo sogno, muove nel festoso bailamme del rito danzante contro i modelli della cultura borghese, denunciandone ogni aspetto, e contro il potere, contrario ad ogni forma di velleità o di slancio libertari degli “ingrati del benessere francese”. Ammantato di maschere e di parvenza, dietro cui il potere impone i suoi modelli e le sue verità, ritroviamo l’autoritarismo religioso (Cristo), quello scientifico (Nobel), quello culturale-accademico (Dante), quello politico (e, quindi, finanziario e dell’informazione, noto anche come “quarto potere”), quello militare (Nelson), quello economico e non ultimo, anzi, come in una sorta di piramide gerarchica dello stesso potere, che procede dall’autoritarismo più verticistico a quello più prossimo, ritroviamo quello familiare, dei genitori: il padre che pretende cure e attenzioni, e la madre, sorda alle istanze egalitaristiche del movimento femminista e paga del suo ruolo familiare. Infine, se non proprio l’autoritarismo, il condizionamento asfissiante dell’amico che gli ha insegnato il know-how, il come si fa la ribellione.
Nel sogno, la bomba fa, con una certa discrezione e neutralità, il suo ingresso in società, in un mondo da sconvolgerla, con l’intimo desiderio di approdare all’eliminazione del potere e dell’ordine costituito che, “dietro ogni maschera che salta”, rivelano, tra le loro logiche, anche un arrivismo sfrenato, un’insana sete di notorietà,… “al ballo mascherato della celebrità”.
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Nel giungere fino a questa quarta traccia, il disco mostra chiaramente diverse atmosfere, sottolineate dall’alternarsi delle tonalità maggiore e minore su cui si muovono le melodie dei brani. Quindi, anche dal punto di vista squisitamente musicale, l’album ha il suo concept.
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I movimenti del Sessantotto sono lo scenario, costituiscono l’antefatto della vicenda del travet: ma mentre tutto questo accadeva, come scorreva la mia vita ed io cosa facevo? sembra chiedersi l’impiegato, narratore e protagonista al contempo; e la risposta è un senso di inutilità, nel figurarsi in preda alla monotonia e alla piattezza di ripetitive mansioni: contare i denti ai francobolli. Il dissidio e i pensieri interiori finiscono così per ancorarsi alla realtà, dalla quale l’impiegato riceve quel nutrimento che va ad alimentare il disagio che lo pervade intimamente, tanto da fargli perdere le sicurezze e la serenità della sua routine quotidiana, derivanti dalla sua raggiunta posizione medio-borghese.
In questo primo momento reale, gli interrogativi si affacciano copiosi, si affastellano nella sua mente, tanto da accrescere il suo intimo conflitto esistenziale. Similmente a quelli di Introduzione, ritornano i tre scoppi e ritorna anche il raffronto io-loro, con una disamina più concreta e disillusa della realtà in cui egli vive. Citando Brecht, “Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo contengono”. Così, per una lenta e inesorabile metamorfosi, l’impiegato comincia a conquistare un altro orizzonte, un altro punto di vista e la prospettiva sulla sua vita routinaria inizia a cambiare.
Aderendo all’ottica antiautoritaria del movimento, con la quale comincia a trovare punti di contatto, prende coscienza dell’immobilismo in cui è piombato, a caro prezzo, in virtù di scelte imposte dalla cultura borghese, dalla politica, dalle caste e dal potere, in generale. È una scena reale, prima che tutto diventi sogno, che immortala una presa di coscienza individuale, laddove il movimento fu un fatto collettivo.
A differenza di quella normalità asfittica, scandita da frasi di circostanza, “… secondo il prontuario delle frasi convenzionali...” e da un buonsenso immotivato, a volte anche cinico, che lo stanno spingendo poco alla volta in una vita da incubo, inizia ad avvertire una vicinanza di vedute con quelle della corrente studentesca: d’altra parte, la differenza d’età non è poi così tanta, “… i suoi trentanni erano pochi più dei loro…”, ed è una delle caratteristiche degli scontri. Il conflitto, infatti, era anche generazionale: al suo interno, nell’eterogeneità di quegli scontri, vi erano anche quelli originati dal divario generazionale e la lotta alla gerontocrazia ne era una sottospecie.
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L’impiegato desidera liberare la fiducia in se stesso e nelle proprie tentazioni, desidera scordarsi la direzione verso casa e quel buonsenso immotivato che la pervade. In proposito, De André dirà: “Qualcuno, mi pare Maiakowsky, ha detto: “Dio ci salvi dal maledetto buonsenso”: se tutti fossero dotati di buonsenso non esisterebbero gli artisti e probabilmente neppure i bambini”. E “L’immaginazione al potere”, infatti, era proprio uno dei tanti slogan del periodo. La fiducia in se stesso e nelle proprie tentazioni comincia a farsi largo portandolo a credere, in questa congerie di pensieri, di poter riuscire nel suo intento con un gesto solitario, individualista. Sulla rivolta romantica e disperata dei movimenti, l’impiegato pensa di poter incardinare anche la sua di rivoluzione, sulla base di una nuova organizzazione, non già collettiva ma personale, individuale. Tra un routinario “adesso è tardi adesso torno a lavoro” e un più rassicurante “ma non importa adesso torno al lavoro” si insinua, si fa strada il desiderio di allontanare gli intrusi dalle sue emozioni. E il sogno e l’utopia, per chi non è più disposto a sopportare sono, nel reale conflitto delle sue riflessioni, solo all’inizio.
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La prima e la seconda traccia rappresentano un continuum. Legato ai noti fatti di cronaca del maggio del ‘68, l’esordio presenta un rintocco di campane, un motivo fischiato e un tema di strada per riportare l’ascoltatore a quei fatti di Parigi e della sua periferia, a quei giorni, a quelle settimane. In realtà, l’innesco c’era stato con gli avvenimenti di Nanterre (risalenti a marzo, preceduti a loro volta da quelli italiani) a cui seguirono, a maggio, quelli della Sorbona.
È una sintetica descrizione, come esige la forma canzone, di un momento storico (e di tanti momenti simili), un fotogramma che restituisce sensazioni, umori, tensioni, scene consuete di barricate, di rivolta e di repressione che si ripropongono ciclicamente per rimanere ciclicamente uguali. In questo preambolo, De André riesce a condensare quelli che furono i giorni che segnarono la più grande spaccatura in Europa dopo la seconda guerra mondiale, quelli in cui si consuma il mito del maggio francese del ‘68, il simbolo di una rivolta mondiale, per diventare un mito. Un mito ha bisogno di essere narrato e De André, si sa, è perfetto in questa veste. Anche se quando si parla di Sessantotto non ci si riferisce solo a quell’anno: gli eventi di quell’arco di tempo furono tanti e di portata internazionale, a testimonianza del clima (di tensione) che si respirava: la guerra in Vietnam, la primavera di Praga, la rivoluzione culturale in Cina, i giochi olimpici a Città del Messico, le lotte di liberazione in Africa e in America latina, gli assassinii illustri di Martin Luther King e Bob Kennedy… un momento complicatissimo che, in questa breve sequenza di ricordi, prende una forma introduttiva, con una dimensione pensierosa, smorzata da un’armonica a bocca che annuncia la libera traduzione di Chacun de voux est concerné di Dominique Grangeche, nella versione di De André, diventa... Canzone del maggio.
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Alle raccolte e meditabonde osservazioni – in cui l’io dell’impiegato contrasta con il loro dei cuccioli del maggio - di Introduzione, fanno da contraltare, nella Canzone del maggio le controsservazioni dei protagonisti, fatte di rivendicazioni, del movimento, che vide protagonisti tre soggetti o componenti principali: il mondo giovanile, quello degli studenti universitari (18-30 anni ca, la loro coscienza critica), il movimento operaio e quello interetnico, quanto basta a farne intuire anche a chi non l’ha vissuto direttamente da vicino, la sua vasta portata, di quel periodo e degli anni che seguiranno. In realtà, vi è da dire, le contestazioni non scoppiarono proprio nel maggio ma a marzo (a Nanterre, ad ovest di Parigi): e a dirla tutta, i prodromi risalgono addirittura al ‘64, a Berkeley (California), per poi approdare a Berlino, in Germania, e a Milano, a Bologna. De André, cinque anni dopo, “a bocce ferme”, per così dire, ne restituisce, a modo suo, in questa che si potrebbe definire un’opera monodramma, tutti gli umori, da quello italiano a quello di altri Paesi, invitando quanti si sono chiamati fuori, si sonodisinteressati, ad una più attenta presa di coscienza.
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Se quella di Marinella nacque da una storia vera, quella di Storia un impiegato non fu da meno. Del resto, erano vere anche quella di Piero (ispiratagli dai racconti dello zio materno che si era succhiato la guerra di Albania), quella di Via del campo, quella di Michè (ossia, di un tale Michele Aiello, emigrato dal Sud a Genova) e via dicendo.
Storia di un impiegato, di Fabrizio De André, Giuseppe Bentivoglio, Nicola Piovani e Roberto Dané, ovvero il concept-album, l’album a tema che accoglie il dipanarsi dell’intera vicenda del protagonista del titolo, è ispirato, anch’esso, a fatti di cronaca di quel particolare momento storico in cui fu scritto: nella fattispecie, a quelli del maggio francese del ‘68, di quella “primavera”, ai giovani “cuccioli” di quel mese, alle pantere, alle contestazioni, ai movimenti studenteschi di quella stagione, i cui echi si diffusero rapidamente, e non solo in Europa. Su questi avvenimenti De André innestò la visione allegorico-visionaria de La centrale idroelettrica di Bratsk di Evtušenko ed altri spunti letterari.
Spunti, quindi, di cronaca, così come lo era stato un articolo di giornale per Marinella, e letterari sui quali impiantare l’ispirazione e l’idea di fondo, l’antiautoritarismo, al fine di dar voce, come lo era stato allegoricamente La Buona Novella tre anni prima, a quelle che erano state le istanze migliori e più sensate del popolo del ‘68 contro reiterati abusi di potere che, studenti, compagni, coetanei e, in seguito, anche il mondo operaio, vivevano quotidianamente sulla loro pelle. De André fu molto autocritico nei confronti di questo suo album, lo sottostimava.
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De André sosteneva anche che una canzone da spiegare sia una canzone non ben riuscita. Figuriamoci un intero album, si potrebbe aggiungere! In queste puntate, si cercherà di arricchire i colori e le tonalità di tale oscuro e nebbioso contenuto con alcune testimonianze che nel corso degli anni si sono levate all’orizzonte di questo particolare contesto poetico di De André. Cesare Romana, nel suo Smisurate preghiere scrive: “Pasolini parlava di “poesia profetica”, e se un unico gene accomuna i poeti ai profeti, Storia di un impiegato non è solo un bilancio, è anche una premonizione. “La rivolta non è finita ma ci sarà nuovamente, in futuro, più forte”, scrisse Dané sulla copertina dell’album, chiosando La canzone del maggio”. Come altre volte è stato facile e cattivo profeta al contempo”.
E scrive ancora Romana: “La profezia di De André fu puntuale. Emessa all’alba degli anni settanta, previde il corso di tutto il decennio: le stragi, le nobiltà, le efferatezze, la santità laica dell’opporsi e gli automatismi restauratori che ne sarebbero scattati. Il balsamo dell’utopia e l’ulcera sanguinante degli anni di piombo: raccontando il Sessantotto, De André prefigura il Settantasette”.
E vien da dire, con un fischio alla Morricone, tutti i futuri “venti di cambiamento” che seguiranno contro gli abusi di potere. Un vento che, come nel distico diuna delle tre stesure di Canzone del maggio, non avranno fermato ma al quale avranno solo fatto perdere tempo.
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AUTORE di questo Podcast è Pietro Cesare che ne presta anche la voce: https://t.ly/4yjI Per visionare la bibliografia di riferimenti seguire questo link: https://faber.deand.re/podcast/storia-di-un-impiegato/