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  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7827

    APOSTOLO DEL SACRO CUORE E PADRE SPIRITUALE DI SANTA MARGHERITA MARIA ALACOQUE di Roberto de Mattei

    La devozione al Sacro Cuore che caratterizza il mese di giugno è legata soprattutto alla figura di santa Margherita Maria Alacoque, (1647-1690), suora dell'ordine della Visitazione, fondato da san Francesco di Sales e santa Giovanna di Chantal. Fu a questa umile suora che la Provvidenza affidò un grande rimedio soprannaturale contro una nuova eresia che nasceva nel XVII secolo.
    Questa nuova eresia era il giansenismo, una corrente religiosa che sul piano dogmatico stravolgeva la dottrina cattolica della grazia, spingendola verso il calvinismo, e sul piano morale rinchiudeva la vita cristiana in un tetro e insopportabile rigorismo. I giansenisti ignoravano il ruolo della misericordia, appellandosi solo alla implacabile giustizia divina. Ma al di là degli errori teologici e morali, la peggiore insidia giansenista stava nel suo tentativo di voler riformare la Chiesa dall'interno e non più dall'esterno, come aveva cercato di fare il protestantesimo. Il giansenismo intendeva rimanere dentro la Chiesa, senza essere condannato, ma cercando anzi la condanna dei suoi avversari che, in quel momento, erano soprattutto i gesuiti, i più fedeli difensori dell'ortodossia romana.
    I disegni della Divina Provvidenza sconvolsero questo programma di distruzione della Chiesa. Margherita Maria Alacoque, lo strumento di questo straordinario intervento della grazia, nacque in Borgogna nel 1647, e dovette vincere la resistenza dei genitori per entrare, a ventiquattro anni, nelle visitandine del convento di Paray-le-Monial, dove fu incompresa dalle consorelle e malgiudicata dai superiori, finché, nel 1675 fu nominato Rettore del Collegio gesuita di Paray-le-Monial il padre Claudio de La Colombière, che aveva allora 34 anni, ma si era già distinto per la sua pietà e la sua dottrina. D'accordo con il suo Superiore, oltre al voto di obbedienza al Papa, il padre de La Colombière aveva pronunciato quello, eroico, di osservare sotto pena di peccato tutte le regole del suo Ordine
    UN INCARICO APPARENTEMENTE SECONDARIO
    I superiori gli affidarono un incarico apparentemente secondario, perché sapevano che nel Monastero della Visitazione, si trovava una religiosa favorita da rivelazioni del Cielo. Margherita Maria, da parte sua, aspettava che il Signore adempisse la promessa di inviarle un suo "servo fedele e amico perfetto ", per realizzare la missione alla quale la destinava: manifestare al mondo le ricchezze imperscrutabili del suo amore.
    Giunto nella sua nuova destinazione il padre de La Colombière, incontrò suor Margherita Maria e ne divenne direttore spirituale, orientandola nella sua vita spirituale e suggerendogli di mettere per iscritto tutto ciò che passava nella sua anima. Durante l'ottava del Corpus Domini 1675, Gesù, mostrando il suo Cuore a Margherita, le disse: "Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e in contraccambio non riceve che ingratitudini, disprezzo, irriverenze, sacrilegi e freddezza in questo Sacramento d'amore ".
    Quella del giansenismo era una concezione di Dio oppressiva ed angosciante. Il Sacro Cuore appare a santa Margherita Maria Alacoque affermando, invece, che bisogna abbandonarsi al suo Amore, e formulando la grande promessa dei primi Nove Venerdì del mese: "Io ti prometto nell'eccesso della misericordia del mio Cuore che il mio Amore onnipotente concederà a tutti quelli che si comunicheranno al primo venerdì del mese, per nove mesi consecutivi, la grazia della perseveranza finale; essi non morranno nella mia disgrazia, né senza ricevere i Sacramenti, servendo loro il mio cuore di asilo sicuro in quell'ora estrema ". Il Signore disse poi alla religiosa visitandina: "Rivolgiti al mio servo, il Padre de La Colombière, e digli da parte mia di fare il possibile per propagare questa devozione e di fare questo piacere al mio Cuore divino... Sappia che è onnipotente colui che diffida interamente di se stesso per confidare solo in me ".
    Margherita comunicò il suo messaggio al Padre e tutti e due, il 21 giugno, si consacrarono al Cuore di Gesù e moltiplicarono i loro sforzi per diffondere questa devozione. La loro fu un'inscindibile amicizia spirituale dai frutti straordinari.
    Dopo un anno e mezzo di permanenza a Paray-le-Monial, nel 1676 il padre de La Colombière fu destinato a Londra, come cappellano della giovane duchessa di York, Maria Beatrice d'Este, nota in Inghilterra come Mary of Modena, perché era figlia del duca di Modena Alfonso d'Este. Maria di Modena aveva sposato Giacomo Stuart, duca di York, che, alla morte del fratello Carlo II, nel 1685, avrebbe regnato con il nome di Giacomo II, fino alla Rivoluzione del 1688, che stroncò la possibilità di una restaurazione cattolica dell'Inghilterra. Giacomo si era segretamente convertito al cattolicesimo, mentre la moglie Maria subiva una dura opposizione a causa della sua fede cattolica.
    LA MISSIONE A LONDRA
    Nella Londra ferocemente protestante, esisteva però un'enclave cattolica, che aveva il suo centro nella chiesa di St. James nella Spanish Place dove, dal 1676 al 1679 il padre de La Colombière, predicò, dedicandosi all'istruzione nella vera fede di cattolici o ex-cattolici inglesi. In questa Chiesa sarebbe stato battezzato, due secoli dopo, l'11 ottobre 1865, Rafael Merry del Val, futuro cardinale di Santa Romana Chiesa.
    Improvvisamente, alla fine del 1678, il padre de La Colombière fu arrestato sotto l'accusa calunniosa di essere coinvolto in uno pseudo "complotto papale ". Fu imprigionato nel carcere di King's Bench, dove restò durante tre settimane, sottoposto a gravi privazioni, ma in virtù della sua posizione a corte e della sua cittadinanza francese, sfuggì alla condanna a morte e fu espulso dall'Inghilterra. Tornò a Paray-le-Monial dove morì, a soli 41 anni, il 15 febbraio 1682. Da quel giorno, nella sua preghiera personale, alle litanie dei santi santa Margherita Maria aggiungeva: "San Claudio, prega per noi! "
    Nel 1929, Claudio de La Colombière fu beatificato da papa Pio XI e nel 1992 canonizzato da Giovanni Paolo II. La casa editrice AdP ha ripubblicato nel 2023 il suo Diario spirituale, che merita di essere letto da chiunque voglia approfondire la devozione al Sacro Cuore, ma anche da chiunque voglia capire come vivere in spirito di completo abbandono alla Divina Provvidenza. Nel Diario, san Claudio traccia questo programma: "Vivere giorno per giorno. Sperare di morire nell'occupazione che svolgiamo ". Cercare, in una parola, la perfezione nel momento presente, non preoccupandoci del nostro domani e affidandoci ciecamente a Dio. "Mio Dio, - scrive - sono intimamente persuaso che non sarà mai troppa la fiducia che ho in Te e che, ciò che otterrò da Te, sarà sempre al di sopra di ciò che avrò sperato ".
    Lo spirito di abbandono alla Provvidenza e la devozione ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria, sono più che mai necessari per infondere vita e calore soprannaturale in un'epoca, come la nostra, in cui le anime sembrano così spesso raggelate e prive del fuoco dell'Amore divino.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7828

    BEATIFICATO DON STREICH, MARTIRE UCCISO DAI COMUNISTI di Wlodzimierz Redzioch
    Durante l'udienza concessa il 23 maggio al card. Marcello Semeraro, Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, Papa Francesco ha autorizzato il medesimo Dicastero a promulgare una serie di decreti, tra cui quello riguardante il martirio del Servo di Dio Stanislao Kostka Streich, sacerdote diocesano; nato il 27 agosto 1902 a Bydgoszcz (Polonia) e ucciso in odio alla fede il 27 febbraio 1938 a Luboń (Polonia). Un'altra vittima del comunismo in Polonia sarà proclamata beata, ma a differenza dei sacerdoti martiri nel periodo comunista, don Streich fu ucciso nella Polonia democratica, prima della Seconda guerra mondiale da un militante comunista. La sua storia assomiglia a tante storie dei sacerdoti dell'Emilia Romagna martirizzati dai comunisti negli anni Quaranta.
    Un anno prima dell'assassinio di don Streich Pio XI pubblicava l'Enciclica Divini Redemptoris sul «'comunismo bolscevico' ed ateo che mira a capovolgere l'ordinamento sociale e a scalzare gli stessi fondamenti della civiltà cristiana». Nella sua Enciclica il Papa, tra le altre cose, spiegava le cause della violenza esercitata dai comunisti. «Insistendo sull'aspetto dialettico del loro materialismo, i comunisti pretendono che il conflitto, che porta il mondo verso la sintesi finale, può essere accelerato dagli uomini. Quindi si sforzano di rendere più acuti gli antagonismi che sorgono fra le diverse classi della società; e la lotta di classe, con i suoi odi e le sue distruzioni, prende l'aspetto d'una crociata per il progresso dell'umanità. Invece, tutte le forze, quali che esse siano, che resistono a quelle violenze sistematiche, debbono essere annientate come nemiche del genere umano» - scriveva Pio XI. Il martiro di don Streich è la prova della correttezza dell'analisi del Papa che, purtroppo, è sempre attuale.
    DON STANISŁAW KOSTKA STREICH
    Ma chi era don Stanisław Kostka Streich? Nacque il 27 agosto 1902 a Bydgoszcz che nel periodo delle spartizioni della Polonia ad opera delle potenze confinanti (1795-1918) apparteneva alla Prussia. I suoi genitori erano: Franciszek Streich, impiegato di una Compagnia di Assicurazioni, e Władysława Birzyńska. Nel 1912, dopo aver compiuto i tre anni della scuola dell'obbligo, frequentò per otto anni il ginnasio di Scienze umane fino al 1920. Lo stesso anno, inoltrò una domanda di ammissione al Seminario di Poznań e fu ammesso. Poi studiò a Gniezno e fu ordinato sacerdote il 6 giugno 1925. Dopo l'ordinazione, negli anni 1925-1928 studiò filosofia classica all'Università di Poznań. Negli anni successivi lavorava come vicario presso varie parrocchie e insegnava religione al seminario.
    Nel 1933 assunse la funzione di parroco nella località Zabikowo nel territorio del comune di Lubon dove, purtroppo, mancava una vera chiesa: da chiesa fungeva la cappella presso il convento delle Ancelle dell'Immacolata. Don Streich organizzò un comitato per la costruzione della chiesa: nel 1935 fu presa la decisione di avvio della costruzione della chiesa a Luboń e fu istituita la nuova parrocchia di San Giovanni Bosco organizzata attorno alla chiesa in costruzione. Durante i 3 anni del suo lavoro pastorale, prima di essere assassinato, il sacerdote organizzò quasi dal nulla la vita parrocchiale e la vita della comunità. Il suo atteggiamento pieno di premura e disponibilità, la promozione della vita eucaristica nella parrocchia e le attività introdotte conferirono alla parrocchia di San Giovanni Bosco di Lubon una qualità particolare. Don Streich organizzò una serie di organizzazioni cattoliche che poi crebbero in modo meraviglioso. Ma le sue intense attività nel campo sociale, di particolare importanza per Lubon, città abitata prevalentemente da operai, furono malviste dai comunisti locali che volevano instaurare il comunismo.
    MINACCE DI MORTE
    Per tutto l'anno 1937 il sacerdote riceveva lettere anonime in cui, con linguaggio ingiurioso e offensivo, si prediceva la sua morte imminente. Ad aprile, qualcuno si introdusse di nascosto nella chiesa, manomise il tabernacolo, forzò le cassette delle offerte e sparpagliò gli abiti di rito. Ad agosto, fu aggredito il guardiano della chiesa. In ottobre, aggressori ignoti lanciarono pietre contro il prete. È proprio in quel mese che scrisse il suo testamento. L'11 febbraio 1938, scrisse la sua ultima lettera alla madre. La domenica del 20 febbraio, nella chiesa successe un fatto strano: fu probabilmente quel giorno che, durante una finta confessione il suo futuro assassino gli comunicò la sua intenzione di ammazzarlo. Dopo quel fatto il sacerdote sembrava cambiato.
    Il 27 febbraio 1938 alle ore 9.30, don Streich entrò nel confessionale come al solito per sentire le confessioni dei fedeli. Alle 10.00 cominciò a celebrare la Messa. Dopo che si fu allontanato dall'altare, si tolse la casula e si diresse verso il pulpito per leggere il Vangelo e pronunciare la predica. Con la mano sinistra stringeva contro il petto l'evangeliario, con la destra toccava le testine dei bambini. All'improvviso, dalla folla saltò fuori un uomo con la mano alzata e sparò due volte a don Streich mirando alla faccia. Il primo colpo fu mortale: il proiettile entrò sotto l'occhio destro, ruppe l'osso cranico e si fermò nel cervello. La seconda pallottola attraversò l'Evangeliario. Il prete cadde all'indietro sul fianco destro e l'attentatore gli sparò altri due colpi alla schiena. L'atto di decesso precisava il momento della morte: le ore 10.30.
    I tentativi volti ad avviare l'inchiesta diocesana della causa di beatificazione di don Streich iniziarono subito dopo la sua morte. Sfortunatamente, l'anno successivo scoppiò la Seconda guerra mondiale, successivamente, nel 1945, in Polonia fu istaurato il regime comunista che ovviamente non permetteva d'instaurare un processo di beatificazione di una vittima di un comunista. Solo con la caduta del comunismo nel 1989 si ripresentò la possibilità d'avviare la causa, essendo sempre viva fama di martirio e di santità di don Streich tra i fedeli. Il 26 gennaio 2017, la Congregazione Vaticana per le cause dei santi rilasciò il "nulla osta" per l'istruzione della causa che cominciò nell'arcidiocesi di Poznan. Finita la fase diocesana, il 26 aprile 2019 gli atti furono consegnati alla Congregazione per le Cause dei Santi. L'odierna promulgazione del decreto sul martirio di don Streich apre la strada alla sua già prossima beatificazione.
    «Quando i cristiani sono veramente lievito, luce e sale della terra, diventano anche loro, come avvenne per Gesù, oggetto di persecuzioni. Come Lui sono 'segno di contraddizione' (...) Quanto utile è allora guardare alla luminosa testimonianza di chi ci ha preceduto nel segno di una fedeltà eroica sino al martirio!» - scriveva Benedetto XVI.
    Il messaggio del martirio di don Streich rimane sempre attuale nel mondo che continua a combattere la Chiesa di Cristo e perseguita i suoi sacerdoti. Ed è particolarmente attuale anche nella Polonia di oggi dove è iniziata una nuova persecuzione della Chiesa, simile a quella dei tempi del comunismo. I politici, ma prima di tutto i media, fomentano l'odio verso fede cattolica e l'anticlericalismo. E i preoccupanti risultati si vedono: profanazione dei luoghi di culto e dei simboli religiosi, spettacoli blasfemi, attacchi anche fisici ai sacerdoti, ondate di discorsi d'odio conto la Chiesa e i valori cristiani nei social media. Allora il martirio di don Streich dovrebbe essere anche un monito contro chi alimenta l'anticattolicesimo.
    Nota di BastaBugie: Wlodzimierz Redzioch, nell'articolo seguente dal titolo "Sacerdote arrestato nella nuova Polonia anticlericale" intervista l'avvocato del sacerdote in carcere dal 26 marzo. Si sospetta il movente politico dietro l'arresto, per appropriarsi del suo centro di aiuto alle persone in difficoltà e "regalarlo" a fondazioni di sinistra.
    Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 11 aprile 2024:
    Quest'anno la Settimana Santa per la Chiesa in Polonia è stata particolare: martedì 26 marzo è stato fermato dalla polizia un sacerdote, padre Michal Olszewski: fermato e subito condannato dal tribunale distrettuale di Varsavia-Mokotów a tre mesi di arresto temporaneo in relazione al caso del Fondo Giustizia. Il difensore di padre Olszewski, l'avvocato Krzysztof Wąsowski ha comunicato che non c'erano motivi per l'arresto e che le accuse rivolte alla Fondazione Profeto diretta dal sacerdote sono infondate. Perciò ha fatto ricorso contro la detenzione del sacerdote. La faccenda riguarda la costruzione del centro "Arcipelago - Isole libere da violenza" destinata ad aiutare le persone in situazioni economiche difficili, socialmente escluse e vittime di violenza e crimini, che viene finanziato principalmente dal Fondo Giustizia gestito dal Ministero della Giustizia.
    Nemmeno i confratelli di padre Olszewski, i padri del Sacro Cuore di Gesù, potevano contattarlo nel giorno dell'arresto. Lo stesso giorno, gli agenti dell'Agenzia per la Sicurezza Interna (ABW) sono entrati in tre case appartenenti alla congregazione. P. Płatek, portavoce della congregazione, ha dichiarato che il giorno dell'arresto «gli ufficiali dell'ABW sono venuti e hanno fatto delle perquisizioni nelle loro case a Varsavia, Stopnica e Stadniki: erano luoghi dove la Fondazione Profeto svolgeva temporaneamente le proprie attività».
    L'arresto di p. Olszewski è stato preceduto ed accompagnato dall'odiosa campagna mediatica di denigrazione del sacerdote che l'avvocato ha

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  • VIDEO: Conferenza della mamma di Carlo ➜ https://www.youtube.com/watch?v=s_hftmmo27A

    VIDEO: Carlo Acutis e l'autostrada per il cielo ➜ https://www.youtube.com/watch?v=l6WTVTzxgRo

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7808

    ANNUNCIO UFFICIALE: CARLO ACUTIS SARA' SANTO di Giuliano Guzzo
    È ufficiale: Carlo Acutis - lo studente morto a soli 15 anni stroncato dalla leucemia fulminante e già beatificato da papa Francesco il 10 ottobre 2020 - sarà santo. L'importante annuncio è arrivato quest'oggi, nel corso dell'udienza al cardinal Marcello Semeraro, prefetto per le Cause dei Santi - e riguarda anche un'altra figura: il beato Giuseppe Allamano, fondatore delle Missioni della Consolata. Il Santo Padre ha difatti autorizzato il Dicastero a promulgare i Decreti riguardanti il miracolo attribuito all'intercessione del giovane, morto nell'aprile 2019.
    Il miracolo in questione, riferisce Vatican News, è quello avvenuto nel 2022 ad una donna, Liliana, della Costarica. «La donna si inginocchia, prega e lascia una lettera, parole di speranza che avvolgono l'angoscia peggiore per una madre. Sei giorni prima, il 2 luglio, sua figlia è caduta nella notte dalla bici mentre tornava a casa nel centro di Firenze, dove dal 2018 la ragazza si trova per studiare. La notizia che arriva dall'ospedale Careggi è di quelle che schiantano. Trauma cranico molto grave, intervento di craniotomia, asportazione dell'osso occipitale destro per diminuire la pressione, speranze di sopravvivere quasi nulle.
    Quel 2 luglio, la segretaria di Liliana comincia a pregare il beato Carlo Acutis e l'8 Liliana stessa va ad Assisi. Quello stesso giorno l'ospedale informa: Valeria ha ripreso a respirare spontaneamente, il giorno dopo riprende a muoversi e parzialmente a parlare. Di lì in avanti è uno di quei casi in cui i protocolli medici si fanno da parte. Il 18 luglio la Tac mostra la scomparsa dell'emorragia e l'11 agosto la ragazza viene trasferita per la terapia riabilitativa, ma dopo solo una settimana è chiaro che la guarigione completa è ormai a un passo. E il 2 settembre madre e figlia sono di nuovo ad Assisi sulla tomba di Carlo a dire il loro infinito grazie».
    Il riconoscimento di questo miracolo e il riconoscere Carlo Acutis come santo certamente allieterà i tantissimi che già erano legati alla figura di questo giovane, considerato il ”patrono di Internet'‘ per la sua passione per l'informatica. In effetti, tanti sono anche i pensieri che, pur nella sua giovane età, il giovane era stato in grado di condividere ed evidentemente ispirati da una fede grandiosa: «L'eucaristia è la mia autostrada per il cielo», «Il rosario è la scala più corta per salire in Cielo», «Tutti nasciamo originali, ma molti muoiono fotocopie»...
    Detto questo, c'è da immaginare che, con la notizia di oggi, Carlo Acutis - giustamente - diventerà sempre più un riferimento non solo per la Chiesa tutta e per i fedeli in generale, ma soprattutto per quei giovani che, spesso, sembrano come distanti alla fede o percepiscono la santità come un traguardo irraggiungibile; mentre invece la breve ma luminosissima vita di questo giovane santo (ora possiamo dirlo), dimostra che è qualcosa cui si può guardare; anche a prescindere da quella che è la religiosità della propria famiglia.
    La madre di Carlo Acutis, infatti, non ha problemi a riconoscere che la fede di suo figlio non dipendeva da quella sua famiglia, che era assai più blanda per così dire. «Non è certo per merito di noi genitori», disse infatti la donna al Corriere della Sera, intervistata da Stefano Lorenzetto, «lo scriva pure. In vita mia ero stata in chiesa solo tre volte: prima comunione, cresima, matrimonio. E quando conobbi il mio futuro marito, mentre studiava economia politica a Ginevra, non è che la domenica andasse a messa [...] un ruolo lo ebbe Beata, la bambinaia polacca, devota a papa Wojtyla».
    «Ma c'era in lui una predisposizione naturale al sacro», ricorda ancora la madre del giovane, «a 3 anni e mezzo mi chiedeva di entrare nelle chiese per salutare Gesù. Nei parchi di Milano raccoglieva fiori da portare alla Madonna. Volle accostarsi all'eucaristia a 7 anni, anziché a 10». Insomma, sin da giovanissimo Carlo Acutis già si era scelto «l'autostrada per il cielo» giusta, tracciando un sentiero che, da oggi, potrà essere seguito da tutti quanti noi con ancora maggiori convinzione e gratitudine.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7791

    SAN GIUSEPPE COTTOLENGO, IL GIGANTE DELLA CARITA' di Roberto de Mattei
    Martedì 30 aprile 2024 tutti i religiosi della Piccola Casa della Divina Provvidenza e delle congregazioni ad essa collegate hanno festeggiato la solennità di san Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) a novant'anni dalla sua canonizzazione.
    Giuseppe Cottolengo fu infatti proclamato santo il 19 marzo 1934 nella Basilica di San Pietro da Papa Pio XI, che lo definì "gigante della carità" e "genio del bene".
    Giuseppe Benedetto Cottolengo nacque a Bra, cittadina della provincia di Cuneo, nel Piemonte sabaudo, il 3 maggio 1786. In quegli stessi anni l'ex-gesuita Nikolaus von Diessbach e il sacerdote Pio Brunone Lanteri fondavano a Torino la Amicizia Cristiana, che poi divenne la Amicizia Cattolica, una società segreta che si opponeva agli errori del tempo, l'illuminismo e il giansenismo, riproponendo l'autentico spirito cattolico, soprattutto la spiritualità di sant'Ignazio e la teologia morale di sant'Alfonso de'Liguori. Negli anni che vanno tra la Rivoluzione francese e la restaurazione sabauda del 1814, l'opera di disseminazione intellettuale e spirituale delle Amicizie preparò la grande rinascita del Piemonte cattolico nell'Ottocento.
    Uno dei primi frutti di questa rinascita fu Giuseppe Cottolengo, che nel 1811 abbracciò la via del sacerdozio, imitato anche da due fratelli. Fu nominato canonico e divenne un apprezzato predicatore e conferenziere. Dio però chiedeva qualcosa di più da lui e gli manifestò la sua Volontà, in modo drammatico, la domenica mattina del 2 settembre 1827. Proveniente da Milano giunse a Torino una diligenza dove si trovava una famiglia francese in cui la moglie, con cinque bambini, era in stato di gravidanza avanzata e con la febbre alta. Dopo aver vagato per vari ospedali, quella famiglia trovò alloggio in un dormitorio pubblico, ma la situazione per la donna andò aggravandosi e alcuni si misero alla ricerca di un prete. Fu chiamato Cottolengo, e fu proprio lui, ad accompagnare alla morte questa giovane madre. Rimase profondamente colpito da questo evento e pregò davanti al Santissimo Sacramento: "Mio Dio, perché? Perché mi hai voluto testimone di una morte così triste? Cosa vuoi da me?". Rialzatosi, fece suonare tutte le campane e accendere le candele, esclamando: "La grazia è fatta! La grazia è fatta!". Da quel momento il Cottolengo fu trasformato: tutte le sue capacità, specialmente la sua abilità economica e organizzativa, furono utilizzate al servizio dei più bisognosi.
    UNA SANTA GARA
    Affittò un paio di camerette nel centro di Torino e iniziò ad accogliere poveri e sofferenti, con l'aiuto di collaboratori e volontari. Tra essi una giovane vedova, Marianna Nasi, che fu alle origini delle sue suore, la cui giornata era divisa tra il servizio ai poveri e l'adorazione al Santissimo Sacramento. Fondò poi una famiglia religiosa di fratelli laici, e una comunità di sacerdoti, con la stessa missione di assistenza ai poveri e ai malati. Le dimensioni dell'iniziativa furono tali da obbligarlo ad allargarsi verso la periferia di Torino, a Valdocco. Cottolengo creò una sorta di villaggio, nel quale ad ogni edificio assegnò un nome significativo: "casa della fede", "casa della speranza", "casa della carità", coinvolgendo uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare insieme le difficoltà che si presentavano.
    Il canonico Cottolengo era di una carità eroica, ma la sua virtù più caratteristica era la fede nella Divina Provvidenza. Diceva: "Io sono un buono a nulla e non so neppure cosa mi faccio. La Divina Provvidenza però sa certamente ciò che vuole. A me tocca solo assecondarla. Avanti in Domino". Fu detto che una santa gara si avvertiva fra il totale abbandono del Cottolengo nelle mani della Divina Provvidenza e la cura della Provvidenza Divina nel premiare, spesso in modo prodigioso, la smisurata fiducia che egli aveva in essa.
    OPERE STRAORDINARIE E STRAORDINARIE DIFFICOLTÀ
    Nello spazio di quindici anni, Cottolengo realizza opere straordinarie, ma conosce anche straordinarie difficoltà. Nel 1838 viene denunciato per i debiti che fa per le sue case e parte un'inchiesta governativa nei suoi confronti. Il Re Carlo Alberto, invia due suoi uomini di fiducia il conte di Collegno e il conte di Castagnetto, che lo interrogano severamente. Cottolengo risponde: "Ho esaminato la casa per vedere se vi è qualche disordine tale da attirare l'abbandono del Cielo, non vi è nulla. Dunque perché le risorse mi vengono meno? Ecco ciò che penso: nella Piccola Casa non ho mai lasciato un letto vuoto. Ora da qualche tempo ho due o tre camere sottotetto vuote. Ecco la causa dell'abbandono di Dio. Ho mancato di fiducia. Datemi una piccola somma affinché io possa ripulirle, allestirle e riempirle di poveri, e fra un mese la situazione sarà capovolta". Nel diario del conte di Castagnetto che riporta il dialogo, si legge: "Il conte di Collegno ed io ci guardammo: dopo tre ore di discussione giungemmo alla conclusione che per sanare una situazione finanziaria disastrosa bisogna aumentare le spese! La fede di quest'uomo è ben grande e ci è mancato il coraggio di opporvici".
    La sera Cottolengo scrive al conte di Castagnetto, "Ho ferma fiducia di arrivare a Pasqua vedendo allargata la mano di Dio sulla Piccola Casa". E così' avvenne. Arrivarono delle inaspettate donazioni e per Pasqua il debito fu ripianato.
    Era il 1838. Cottolengo aveva davanti a sé solo quattro anni di vita nei quali fondò cinque monasteri di suore contemplative e uno di eremiti, considerandoli tra le realizzazioni più importanti. Mancano tre giorni ai suoi cinquantasei anni quando rimane vittima di un'epidemia di tifo. Muore a Chieri, il 30 aprile 1842, mentre Torino è in festa per le nozze del giovane Re Vittorio Emanuele II. Le sue ultime parole sono: "Misericordia, Domine; Misericordia, Domine. Buona e Santa Provvidenza... Vergine Santa, ora tocca a Voi".
    Con san Giuseppe Cafasso, san Giovanni Bosco, san Luigi Orione e tanti altri santi e beati, san Giuseppe Cottolengo costituisce una fulgida espressione di quella grande fioritura spirituale piemontese che aveva avuto i suoi prodromi nell'opera silenziosa, ma decisiva delle Amicizie cristiane.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7792

    IL CAVALIERE PERFETTO, EROE NAZIONALE DEL PORTOGALLO
    Combattente devotissimo alla Madonna, Nuno Alvares de Pereira decise di ritirarsi in un convento carmelitano e ai funerali era già acclamato come santo
    di Rino Cammilleri
    È singolare come due nazioni tendenzialmente pacifiche come la Svizzera e il Portogallo abbiano per eroe nazionali due guerrieri. La singolarità si accresce nella Svizzera calvinista, che ha come padre della Patria non solo un combattente ma addirittura un santo cattolico, San Nicola di Flue. E pure il Portogallo ha un Santo, Nuno Alvares de Pereira, canonizzato nel 2009 da Benedetto XVI. Allo svizzero, che dopo le gesta belliche si ritirò in eremitaggio e visse per quarant'anni di sole ostie, abbiamo dedicato a suo tempo una puntata. Oggi parleremo del portoghese, che già al funerale era acclamato come: "o santo Condestàvel", "il Conestabile Santo" (Conestabile era il titolo del comandante supremo delle armate). Nato il 24 giugno 1360 a Cernache do Bomjardim, era figlio illegittimo di un cavaliere di San Giovanni (odierni di Malta), fra Álvaro Gonçalves Pereira, che era pure priore e, ovviamente nobile d'alto rango. Anche la madre, Dona Iria Concalves do Carvalhal, era una gran dama, e a quel tempo la castità non era considerata un problema da perderci il sonno (e l'aborto era escluso a priori).
    AL COMANDO DELL'ESERCITO
    Le entrature del padre a Corte ottennero un decreto reale di legittimazione, così il tredicenne Nuno poté diventare paggio della regina Leonor e ricevere un'educazione da cavaliere. Dopo l'investitura, a sedici anni il padre lo accasciò in un ottimo partito, la giovane, bella e soprattutto ricca vedova dona Leonor de Alvin. I due sposi ebbero tre figli, due maschi e una femmina. Sopravvisse solo quest'ultima, Beatriz che poi andò in moglie ad Alfonso, Duca di Braganca e figlio del re Joao I. Da questa unione partì la dinastia reale portoghese di Bracanca. Nel 1383 morì Ferdinando senza eredi maschi, per cui la corona passò al fratello Joao. Ma il defunto Fernando aveva una figlia che aveva sposato il re di Castiglia, il quale si affrettò a reclamare per sé la corona portoghese. Naturalmente fu guerra e il nostro Nuno ebbe il comando supremo dell'esercito. Erano tempi in cui il comandante in carica non stava a dirigere le operazioni al sicuro su un'altura ma si spendeva personalmente in prima fila. E Nuno non si faceva pregare. Lo si vide in diverse battaglie e, fin dal giorno in cui le navi castigliane si presentarono di sorpresa davanti a Lisbona, che non era ancora capitale ma aveva già un porto di grande importanza. Nuno riuscì a riunire di fretta solo sessanta uomini e pochi cavalieri, mentre una forza di duecentocinquanta nemici si apprestava a sbarcare.
    PRATICAVA IL DIGIUNO
    I portoghesi, intimoriti, esitavano, ma Nuno si lanciò all'attacco con pochi compagni. Un colpo di lancia gli abbatté il cavallo e lui rimase intrappolato sotto l'animale. Ma anche da quella scomoda posizione si difendeva spada in mano contro una forma di castigliani. Fu il vedere il loro comandante in grave pericolo a far decidere i portoghesi rimasti a distanza. Dimentichi degli inferiorità numerica si proiettarono nel soccorso e la giornata fu loro: I castigliani, investiti da quelle furie, si affrettarono a reimbarcarsi lasciando sul terreno parecchi uomini. La guerra continuò fino al 1385, quando nella storica Battaglia Aljubarrota il Conestabile di Portogallo sconfisse definitivamente i castigliani e salvò l'indipendenza del Regno. La vittoria, quantunque l'esercito portoghese fosse più ridotto rispetto a quello Castigliano, fu così netta che il nemico venne inseguito fin dentro alla Castiglia e schiacciato a Valverde. Il giorno di Ajubarrota era la vigilia dell'Assunta. Il giorno prima, l'esercito in marcia provenendo da Tomar passò per Fatima. E qui, in località Cova di Iria, si vide lo straordinario spettacolo dei cavalli fermarsi e inginocchiarsi. Nuno, infatti era devotissimo alla Madonna. In Suo onore praticava moderato digiuno, compatibilmente con le esigenze belliche, nei giorni di mercoledì, venerdì e nelle vigilie delle feste mariane.
    MESSA OGNI MATTINA
    Ogni mattina assisteva alla Messa e sul suo stendardo campeggiavano il Crocifisso, la Vergine, San Giorgio e Santiago. Di tasca sua erigeva chiese e monasteri, tra cui il Carmelo di Lisbona e la chiesa di Santa Maria da Vitòria di Batalha. Poco dopo la fine della guerra morì sua moglie e lui, malgrado le insistenze della corte, non volle prenderne un'altra. Impiegò la maggior parte dei suoi beni per soccorrere i reduci della guerra, in un tempo in cui l'assistenza e la pensione dipendevano totalmente dalla buona volontà dei signori. Nel 1423 lasciò loro tutto quel che gli restava e si chiuse nel convento carmelitano che aveva fondato. Avrebbe voluto sceglierne uno lontano per esservi dimenticato, ma don Duarte, figlio del re, glielo proibì: la situazione politica non era ancora assestata e il Portogallo poteva avere bisogno della sua esperienza in qualunque momento. Prese voti come fra Nuno de Santa Maria e per umiltà vuole restare per sempre un semplice frate. Nello stesso convento c'era anche uno che era stato ai suoi ordini e che adesso era sacerdote. Quando lo incrociava, Nuno si inchinava a baciare un lembo della sua tonaca. Si dedicò alla mensa quotidiana dei poveri che lui stesso aveva organizzato e nei locali della quale assisteva e serviva i più sfortunati. Morì il giorno di Pasqua, il 1° aprile del 1431, e subito il popolo pianse il suo "santo Conestabile". Era un popolo, ahimè, di indole diversa da quello che seicento anni dopo accompagnò le sue reliquie nella traslazione in chiesa. Erano i primi anni sessanta del secolo scorso e l'urna d'argento che conteneva le sue ossa fu rubata e non se ne seppe più nulla.
    MORÌ DURANTE LA PASSIONE
    Sul letto di morte volle venire ad abbracciarlo il re, quello stesso che, da Gran Maestro dell'Ordine di Aviz, lo aveva creato Conestabile. Rese l'anima mentre gli leggevano la Passione, nell'istante in cui scandivano le parole: "Ecco tua Madre". Così passò al cielo Nuno Alvares di Pereira, Conte di Arraiolos, di Barcelos e di Ourém, Gran Conestabile di Portogallo. La sua tomba venne distrutta durante lo spaventoso terremoto che rase al suolo Lisbona nel 1755, evento che servì a Voltaire come esempio per dimostrare che se Dio esisteva non era affatto buono: La sfortunata traslazione finale, come abbiamo visto, finì con un furto sacrilego. Cosa attrasse la cupidigia dei ladri? L'urna d'argento? La commissione di qualche ricco collezionista? In ogni caso, la fede del 1961 non era più quella del XIV secolo. E non si era che agli inizi. Ero appena laureato e fresco di conversione quando un amico scoprì sulla bancarella di un mercatino antiquario una serie di piccole e artistiche teche contenenti reliquie. Le ricomprò tutte e non ci fu difficile risalire alla chiesa cittadina da cui erano state tolte. E al parroco, più noto per le sue attività di saggista, che non faceva mistero di preferire a quelle di officiante. Già: frammenti infinitesimi di vecchie ossa, di valore inferiore alle scatole che li contenevano. Che vuoi che sia? Ma sì, vendiamo tutto e magari diamone il ricavato ai poveri. Nello spirito (?) del Concilio.

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    UNA STIGMATIZZATA FUORI DAL COMUNI di Rino Cammilleri
    Ho scrutato attentamente il video che il dottor Paolo Basso da Crema mi ha recapitato sulla beata Maria Domenica Lazzeri, detta la "Meneghina", nata nel 1815 e morta nel 1848. Diciamo subito, per chi non lo sapesse, che si tratta di una stigmatizzata. Stavo per scrivere "la solita stigmatizzata", perché essendomi occupato per trent'anni, ogni giorno, prima sul quotidiano Avvenire e poi Il Giornale, di santi e beati, di stigmatizzate ne ho viste tante. Quante siano potete agevolmente contarle, se avete pazienza, sul sito santiebeati.it. Da Caterina da Siena, a Teresa Neumann, eccetera. Mai, però, avevo considerato il fatto che queste mistiche sanguinanti fossero tutte donne. Sì, abbiamo il Poverello e Padre Pio. E basta, almeno che io ricordi. Tutte le altre sono donne, sempre donne. Queste strane privilegiate dal Cielo in genere non devono far altro che starsene in un letto a patire. Qualcuna ha visioni e detta libri, come Katharina Emmerick. Qualche altra manifesta i dolori della Passione in periodi ricorrenti e limitati, come Natuzza Evolo. Qualche altra ancora, come Elena Aiello, continua a occuparsi dei suoi orfanotrofi. Ma le più devono solo fare le "vittime". Perché donne? Forse perché sono più delicate e fragili? In effetti ciò si accorderebbe con il risultato modus operandi del Cielo: scegliete il personaggio più improbabile onde mostrare che quanto gli accade viene solo esclusivamente dall'Alto. La potenza di Dio si manifesta meglio nella debolezza, come dice Paolo. E più la creatura prescelta è inadeguata, più appare, a chi voglia vederla, l'opera di Dio.

    RIMANEVA MORTA
    Naturalmente noi crediamo che la ricompensa per tali "vittime" sarà straordinaria, altrimenti prendere una ragazza minuta e insignificante, confinarla in un letto di dolore senza mangiare, né bere, né dormire, ma solo e sempre sanguinare tra le sofferenze più atroci sarebbe puro sadismo. Ma noi sappiamo che il Creatore è Bontà e Amore, perciò non ci resta che aggrapparci alla Fede. E veniamo alla Nostra. Al solito, nasce in un posto sperduto e dimenticato, Capriana in Val di Fiemme, Trento. Figlia di un povero mugnaio fin da subito conosce la fatica e i geloni alle dita in un tempo e in un luogo in cui se vuoi scaldarti devi prima far legna e accendere il camino. Ultima di cinque figli, dopo qualche anno di scuola, va a servizio, anche perché il padre è nel frattempo morto. Nel 1833, mentre si prodiga per i malati d'influenza, rimane contagiata. A quel tempo o si guarisce o si muore di polmonite. Lei, invece, sviluppa un crescendo di sintomi mai visti prima che in breve la confinano a letto, impedita a mangiare, bere e dormire. Riesce solo a "inghiottire" l'ostia, di cui nell'800 bisogna essere "degni", perciò mensile. Chiamata in paese "meneghina" ("Domeneghina"), ha diciannove anni quando comincia: sudorazione di sangue come nel Getsemani, ferite sulla fronte come da coronazione di spine, stigmate alle mani, al torace e ai piedi. Le mani sono artigliate, come si suppone siano state quelle inchiodate di Cristo, i piedi sempre sovrapposti. Ogni venerdì, all'ora della morte di Cristo, anche lei rimane morta per diverso tempo. Sì, morta. Indi si rianima e si riparte con il calvario.

    IL SANGUE OLTRE LA GRAVITÀ
    Gli scienziati che scrutano il caso sono intrigati anche dal fatto che su di lei il sangue gocciola non seguendo la gravità, ma come se davvero fosse appesa verticale a una croce. E ciò accade tutti i venerdì, per quattordici anni (per chi ama le coincidenze sempre in questi casi c'è il bicchiere mezzo pieno: la mistica è in grado di seguire omelie pronunciate in altri luoghi e di riferire cose dette altrove, di comprendere lingue straniere e pure antiche, di bilocarsi). Naturalmente, il caso fa scalpore e in breve la sua casa è assediata da visitatori provenienti da ogni dove. Anche semplici curiosi, certo. Ma per fortuna il vescovo competente è il beato Giovanni Nepomuceno de Tschiderer, che prende a cuore la vicenda e provvede a disciplinare l'accesso. Il primario dell'ospedale di Trento, dopo accurato studio, stende una relazione che viene presentata in ben tre congressi scientifici nazionali. Vengono illustri personaggi da tutta Europa, viene il beato Antonio Rosmini, perfino l'Arcivescovo di Sidney. Scoppia il caso sulla stampa, fogli cattolici e fogli protestanti incrociano le lame. Diversi editori europei fiutano l'affare e sguinzagliano agenti alla ricerca di testimoni oculari per cavarne libri e opuscoli a sensazione, i pamphlets il più delle volte di scaso valore, ma che concorrono alla divulgazione della notizia. Malgrado l'interessata non abbia mai voluto fotografie. Che pensare di tutto questo? Perché Dio sceglie una "vittima" e la massacra (o permette che lo sia, ma è lo stesso) per tutta la vita? Certo la cosa è sempre su base volontaria e se qualche farabutto conclamato scansa la dannazione eterna proprio grazie a queste mistiche che accettano di farsi maciullare al loro posto dalla Bontà Divina?

    HA RAGIONE DIO
    Si, Uno potrebbe osservare che Cristo in croce ci rimane tre ore, mica 14 anni, cioè 728 venerdì. Ma, attenzione, la prescelta assenziente viene fornita di un dono speciale: l'amore per la croce. La meneghina, si scoprì, portava il cilicio. Come se non le bastassero le sofferenze inaudite che doveva sopportare. Nella letteratura mistica questo fenomeno è chiamato "follia della croce", che, seppure alla lontanissima, può essere paragonato a quel che prova un padre che si fa togliere un rene per salvare la vita al figlio. Forse l'esempio è inadeguato, ma non me ne vengono altri. E non me ne vengono perché io, come voi, aborro la sofferenza e faccio di tutto per evitarla. Siamo fatti per la gioia, non per il dolore (il che dimostra che il peccato originale è un fatto storico). È per questo, temo, che a molti la preghiera sembra una perdita di tempo: se fosse efficace, se venissimo sempre esauditi, saremmo tutti in ginocchio. Ma ogni nostra preghiera - ci si faccia caso - è una richiesta per toglierci una croce. O la croce. Forse è per questo che di solito non succede niente. Si, poi il devoto spiega che Dio ascolta, ma si riserva dell'esaudimento al tempo opportuno; oppure che stai chiedendo la cosa sbagliata, oppure che...
    La solita arrampicata sugli specchi perché Dio, per definizione, ha sempre ragione e tu torto. Come Giobbe, cui alla fine Dio rispose come il Marchese del Grillo. Insomma, boh. Proviamo a chiedere lumi alla Meneghina.

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    PRINCIPESSA, SCHIAVA E INFINE SUORA di Rino Cammilleri
    Oggi parliamo di una suora africana, negra ed ex schiava. No, non si tratta di Giuseppina Bakhita, che è già canonizzata. Mi riferisco a Teresa Chikaba, che non era sudanese come Bakhita, ma veniva dall’Africa subsahariana, quella che ai suoi tempi veniva chiamata Africa nera. Teresa Chikaba è in attesa di beatificazione, e sarebbe anche l’ora, dati i molti miracoli testimoniati per sua intercessione. Ma andiamo con ordine. Non sappiamo se avesse altri nomi oltre a Chikaba; in base ai suoi racconti sappiamo che era nata in Guinea nel 1676 e che era una principessa. Ora, il termine principessa ci fa subito pensare alle case reali europee, col loro fasto e le trine e le parrucche incipriate. Quanto fosse esteso il "regno" di suo padre non è dato conoscere, ma è probabile che quest’ultimo non fosse altro che uno dei tanti capitribù. Chi comandava davvero da quelle parti erano i portoghesi, che avevano fatto della Guinea, insieme ai confinanti Angola e Mozambico, una loro colonia fin dal secolo precedente. Sì, perché, dopo che il rullo islamico aveva spazzato via l’Africa romana e cristiana, il continente aveva visto secoli di guerre inter-tribali per procurarsi schiavi da vendere agli arabi. Fino a quando i navigatori portoghesi nel XV secolo non inaugurarono il ritorno dei missionari al seguito dei coloni.
    FUTURA REGINA
    Dietro esploratori e poi coloni spagnoli, francesi e, via via, olandesi belgi, inglesi, tedeschi e infine italiani, la parola Vangelo era rientrata in Africa, con i suoi successi più o meno limitati e i suoi, ovviamente, martiri. Per questo è altresì probabile che la famiglia di Chikaba, i suoi genitori e i fratelli fossero venuti in contatto con i missionari cattolici, dato che questi sempre seguivano la fondazione di una colonia da parte di una potenza cattolica. Lei stessa narrò che, una volta, dovendo seguire la sua famiglia nel prescritto pellegrinaggio all’idolo che i nativi chiamavano Lucero, mentre eseguiva la prostrazione rituale sentì una sorta di vuoto dentro, un senso di insoddisfazione infinita, una delusione cocente. Perché? Qualunque cosa fosse quella sensazione inaudita e insopportabile, fu forse l’inizio della sua conversione. In ogni caso, il risultato fu per lei un desiderio di imitazione dei missionari cristiani, nel senso che da allora prese a occuparsi dei malati, dei bambini, dei bisognosi con un trasporto che finì col procurarle la stima degli altri indigeni. Tanto da allarmare i suoi fratelli. Infatti, questi temevano che, quando fossero morti i loro genitori, il popolo avrebbe riversato il suo favore su Chikaba, eleggendo lei come regina e defraudando le aspettative dei maschi della famiglia sul trono. Chikaba dovette fare i salti mortali per rassicurarli: non aveva alcuna mira politica, anche se non sapeva bene nemmeno lei che cosa volesse nella vita. In ogni caso, ci pensarono gli eventi a decidere per lei.
    RAPITA DAGLI SPAGNOLI
    Un brutto giorno un raid di razziatori spagnoli rapì lei e altri nativi per venderli come schiavi. Non avrebbe rivisto mai più la sua terra e la sua famiglia. Caricata con gli altri schiavi su una nave, fu portata in Spagna. Durante il tragitto i trafficanti appresero che si trattava di una principessa e cominciarono a trattarla bene. Oh, non per riguardo al rango, ma perché da lei si poteva cavare un miglior prezzo. Infatti, venne acquistata dai duchi di Mancera, che la portarono nel loro palazzo di Madrid. La differenza tra gli schiavi domestici nei luoghi cattolici e in quelli protestanti stava in questo: i primi erano considerati dei paggi e praticamente adottati, entravano cioè a far parte della famiglia, come si può vedere in molti dipinti dell’epoca. Gli spagnoli non tenevano dunque schiavi? Sì, ma si trattava quasi sempre di saraceni catturati e messi ai remi o adibiti ai lavori più pesanti, in attesa di poterli scambiare con gli schiavi cristiani in mano ai barbareschi o ai turchi. Chikaba poté dunque per l prima volta in vita sua indossare dei veri abiti e nutrirsi con una vera cucina, dormire in un vero letto e avere una o più stanze tutte per sé. Volentierissimo accolse il Battesimo, per il quale ebbe gli stessi duchi come padrini. Si accorse anche di aver trovato quel che sempre aveva cercato, che il cristianesimo riempiva totalmente quel vuoto che le si era impresso dolorosamente dentro da quando era andata ad adorare Lucero. E tanto sul serio prese il suo Battesimo che, compiuti i ventiquattro anni, espresse il desiderio di farsi suora. Si tenga presente che la sua educazione, i suoi modi e la famiglia adottiva le avrebbero consentito un buon matrimonio. Gli spagnoli non erano razzisti: Darwin era inglese e di là da venire. Forse che il padre di san Martino de Porres non era un gentiluomo spagnolo (e la madre una africana?)? Forse che molti conquistadores non si erano sposati con donne incas e azteche? Forse che il grande scrittore Garcilaso de la Vega non era di madre inca? E poi una buona dote non avrebbe mancato di attirare gli hidalgos iberici.
    GLI ANNI IN CONVENTO
    No, la vocazione di Chikaba era sincera e totale. Solo che c’era un problema. Nessun convento la accettava. Sì, c’entrava proprio il colore della sua pelle. Non c’erano precedenti di suore africane in Spagna, e una suora negra avrebbe finito col trasformare il convento in cui fosse ospitata in un’attrazione per i curiosi, con nocumento della necessaria clausura, una clausura che - va detto - a quel tempo era piuttosto larga e certe visite altolocate non si potevano rifiutare. Solo nel 1708, convinto dalla schiettezza della sua vocazione, l’Arcivescovo di Salamanca ordinò alle suore domenicane del Terz’ordine di Santa Maria Maddalena di accoglierla come conversa. Finalmente, Chikaba poté prendere il velo e il nome religioso di Teresa. Malgrado la sua estrazione nobile, si adattò facilmente ai lavori domestici ai quali fu adibita. Ci vollero ancora degli anni prima che un altro Vescovo decidesse di ammetterla ai voti. E finalmente fu suora domenicana. I quarant’anni di vita che le restavano li trascorse tutti lì, a Salamanca, nel convento dove aveva spazzato e lavato i pavimenti. Morì in odore di santità il 6 dicembre 1748. Il suo corpo riposa nel monastero che a Salamanca chiamano delle Duenas. Molti miracoli sono attribuiti a questa principessa africana, schiava, adottata dal duca di Mancera, suora domenicana. I progressi del suo processo canonico? Mistero. Sotto papa Bergoglio tutti i lavori della Congregazione apposita sono stati segretati, chissà perché.

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    IL BUON LADRONE A CUI GESU' PROMETTE IL PARADISO SUBITO di Roberto De Mattei
    La liturgia latina della Chiesa ricorda il 25 marzo san Disma, il buon Ladrone, a cui Gesù disse sul Calvario: "Oggi sarai con me in Paradiso". La scelta del 25 marzo non è casuale. Questa data non è solo quella dell'Annunciazione e dell'Incarnazione del Verbo ma secondo un'antica tradizione è anche il giorno in cui il Salvatore dell'Umanità consumò il suo supremo sacrificio. Il Vangelo ci dice che sul Calvario crocifissero Gesù con due Ladroni, mettendone uno alla sua destra e uno alla sua sinistra (Lc, 23, 39-42). Ne conosciamo il nome dai Vangeli apocrifi: Disma il buon Ladrone e Gisma, o Gesta il cattivo Ladrone.
    La parola Ladrone non deve trarre in inganno. Il termine Latrones indicava i briganti da strada, non solo ladri, ma assassini e rapinatori, puniti di morte presso tutti i popoli dell'antichità. Per umiliare Gesù furono scelti i più scellerati tra i tanti che riempivano le prigioni di Pilato. Disma era un capo brigante, probabilmente egiziano, vissuto e invecchiato tra i delitti più gravi, tra i quali quello di fratricidio. Sulla sua croce era scritto: Hic est Dismas latronum Dux
    La morte in croce era tra le più dolorose e il condannato soffriva terribilmente, sospeso a quattro chiodi. I due malfattori imprecavano tra gli spasimi, mentre Gesù sopportava i tormenti con pazienza inalterabile. Le sue prime parole sulla Croce furono di misericordia per i suoi carnefici: "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc, 23, 24).
    Entrambi i Ladroni ascoltarono queste parole, entrambi ricevettero la grazia sufficiente a riconoscere l'innocenza di Cristo, ma uno si convertì, l'altro continuò a bestemmiare. San Luca racconta che dei due ladri, appesi alla Croce accanto a Cristo, uno si beffava di lui dicendogli: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente siamo condannati alla Croce, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". E aggiunse: "Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gesù gli rispose: "In verità io ti dico che oggi sarai con me in Paradiso" (Lc, 39-43).
    Disma dunque insorge alle parole di oltraggio contro Gesù del suo compagno di rapine e lo corregge apertamente, in maniera severa, accusandolo di non capire che Gesù è innocente, mentre loro sono colpevoli e giustamente condannati. Il suo è un atto di pentimento, ma egli non si limita a riconoscere le proprie colpe, proclama l'innocenza di Cristo, dicendo: "Non ha fatto niente di male". Lo proclama, quando tutto il mondo condanna Gesù e gli Apostoli tacciono. Disma rompe il silenzio, afferma pubblicamente la verità.
    LA GRAZIA DELLA FEDE
    Per affermare l'innocenza di Gesù era sufficiente la luce della ragione, illuminata dalla grazia, per proclamarlo Dio era necessaria la grazia sfolgorante della fede. Dopo aver difeso Gesù contro il cattivo ladrone, Disma riceve la grazia della fede soprannaturale che esprime nelle parole: "Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno"(Lc, 23, 42). Non era tra coloro che avevano seguito Gesù nella sua predicazione, nessun angelo glielo aveva suggerito. Non vedeva la Divinità di Cristo, ma un'umanità sfigurata dalle sofferenze. Eppure, pur vedendolo crocifisso, non dubitò che fosse Dio. San Roberto Bellarmino dice, "Chiama Signore uno che guarda nudo, ferito, sofferente, deriso e schernito pubblicamente, appeso con lui e afferma che dopo la morte andrà nel suo regno. Da ciò si comprende che egli non sognava un regno temporale di Cristo sulla terra, come aspettavano i Giudei, ma un regno eterno dopo la morte nel Cielo. Chi gli aveva insegnato misteri così alti? Nessuno certamente, se non lo spirito di verità" (Le Sette parole di Cristo, in Scritti spirituali, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 556-557).
    Gesù aveva detto: "Chi mi confesserà davanti agli uomini io lo confesserò ed onorerò dinnanzi al Padre Mio e ai suoi Angeli" (Mt, 10, 32). E mantiene la promessa. Disma otterrà la più preziosa delle ricompense.
    La parola di Disma "Domine, memento mei, cum veneris in Regnum tuum" è una preghiera che va ripetuta con cuore umile e fiducioso. A questa preghiera Gesù risponde: "Amen dico tibi: hodie mecum eris in Paradiso"; "In verità io ti dico che oggi sarai con me in Paradiso". E' la seconda parola di Gesù in Croce. La parola Amen è quasi il giuramento di Cristo, che non dice a Disma, sarai con me in Paradiso nel giorno del Giudizio, e neppure tra qualche anno, mese o giorno, ma promette che quel giorno stesso si sarebbero aperte per lui le porte del Cielo.
    "Oggi sarai con me in Paradiso", sono le parole più angeliche e armoniose che possano risuonare ad un orecchio umano ed è per questo che tanti compositori, da Franz Joseph Haydn a Charles Gounod, a Théodor Dubois, le hanno messe in musica, con commoventi melodie che cantano la speranza della salvezza eterna.
    LA RAGIONE DELLA CONVERSIONE
    La ragione della conversione di Disma fu la grazia divina che ne inondò l'anima. I Padri attribuiscono la causa strumentale di questa conversione all'ombra che Cristo proiettava sul Ladrone, mentre pronunciava le sue prime parole in Croce. Il volto di Cristo, scrive mons. Jean-Joseph Gaume (1802-1879), era rivolto a Occidente, il sole era a mezzogiorno e l'ombra del Redentore si stese alla sua destra su Disma chiamando il buon Ladrone dal nulla del peccato alla vita della grazia (Storia del buon ladrone, Tip. Ranieri Guasti, Prato 1868, pp. 135-136). Ma se è vero che ogni grazia viene da Maria, come dubitare del ruolo primario della Madonna nella conversione di Disma? Ella si trovava in piedi, tra la Croce di Cristo e quella del buon Ladrone e pregò certamente per lui. Quando poi udì le parole di Disma ne ebbe un'immensa consolazione, perché queste parole proclamavano davanti al Cielo e alla terra le verità dell'innocenza del Figlio e della sua divinità. Nel Venerdì santo, nessuno, al di fuori di Disma, ebbe una fede simile a quella incrollabile di Maria.
    Tre croci si innalzano sulla cima del Calvario. Alla destra l'umanità penitente che sta per salire in Cielo. Alla sinistra l'umanità impenitente che cade nell'inferno. Nel mezzo è l'Uomo-Dio Giudice supremo dei vivi e dei morti. Nel giorno del Giudizio, gli eletti saranno alla destra del divino giudice, ed alla sinistra i reprobi. Di due che staranno sul campo, dice il Vangelo, uno sarà preso e uno sarà lasciato (Lc, 17, 34). Il buon Ladrone è l'immagine degli eletti, il cattivo ladrone dei riprovati.
    Tra gli straordinari miracoli che seguirono alla morte di Gesù ve ne fu uno impressionante, che san Matteo descrive con queste parole: "i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti" (Mt, 52-54). Profeti e Re di Israele furono tra coloro che apparvero per le vie di Gerusalemme convertendo alcuni, ma senza riuscire a scuotere l'incredulità dei molti. Quale stupore fu per gli abitanti della Città santa vedere tra questi risorti il vecchio brigante Disma proclamare la verità di Cristo, trasfigurato nell'anima e nel corpo. I risorti rimasero a Gerusalemme fino al momento dell'Ascensione quando Gesù li portò con sè in Cielo. La sentenza secondo cui i risorti del Calvario sono in Cielo anima e corpo è, secondo i teologi, la più sicura e tra questi risorti, bisogna annoverare san Disma, il buon Ladrone (Gaume, op. cit. pp. 278-288).
    San Disma è il protettore dei peccatori che si trovano in punto di morte. Oggi il mondo oltraggia Cristo come il cattivo ladrone sul Calvario. Chiediamo al buon Ladrone di infondere il suo spirito penitente e fiducioso nell'Occidente che muore. La promessa di Fatima ha la stessa dolcezza delle seconde parole di Gesù in Croce. Il trionfo del Cuore Immacolato di Maria sarà il paradiso storico delle nazioni, cioè la restaurazione della civiltà cristiana che seguirà all'inferno storico del nostro tempo.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7723

    LA TERRIBILE STORIA DIMENTICATA DEI FRANCESCANI MARTIRIZZATI DAI MUSULMANI di Rino Cammilleri
    Oggi voglio ricordare i sette francescani, e non solo loro, che nel 1920 vennero martirizzati dai musulmani. Nel 1920,dunque dopo la fine della Grande Guerra, dopo i trattati di pace, dopo che Kemal Ataturk aveva respinto i Greci e salvato la Turchia. Che, lo ricordiamo, era stata alleata degli sconfitti Imperi centrali.
    Il genocidio del popolo armeno - il primo, nella storia, a convertirsi al cristianesimo - era stato completato da un pezzo, i turchi, stretti tra i Bolscevichi di Lenin a nord e le potenze occidentali, soprattutto Inghilterra e Francia, che si spartirono il loro ex impero, dopo aver orribilmente incendiato Salonicco (la più ricca delle loro città, ma ricca grazie a greci e armeni), visto che Ataturk intendeva modernizzare il suo popolo vietando fez, veli e barbe per dare un sterzata laica alla vita turca (ben rendendosi conto che la causa dell'arretratezza stava proprio nella religione), avrebbero potuto smetterla con le scimitarre e l'uccisione inutile e insensata dei cristiani. Invece no. Ecco la storia che andiamo a raccontare.
    Alla fine del 1919 tre francescani, due italiani e un ungherese, vennero assegnati dalla Custodia della Terra Santa a Mugiukderest, in Armenia. Erano padre Francesco De Vittorio (38 anni), fratel Alfredo Dolentz (67), austriaco, e fratel Salvatore Sabatini (45). La missione era completamente distrutta e ora, a guerra finita, la Custodia intendeva ripristinarla in qualche modo. Provvisti di denaro, i tre riuscirono a farvi affluire le famiglie superstiti e a radunare la trentina di bambini rimasti orfani. Sotto la loro direzione si cominciò a riattare qualche casa e, soprattutto, a impiantare un orfanotrofio per quei bambini abbandonati che chissà come erano riusciti a scappare al genocidio. I tre frati erano tutto: medici, farmacisti, vivandieri, maestri, padri. Ma nel gennaio del 1920 ricominciò l'incubo: la notizia che i massacri di cristiani erano ripresi giunse fino alla missione e quei poveri disgraziati, la cui sfortuna non sembrava aver mai fine, presero a disperarsi. Dove altro sarebbero potuti andare? Ora che avevano riguadagnato un minimo di tranquillità, pur nella miseria, bisognava di nuovo scappare?
    UN INVITO A CENA
    Leggo in una vecchia news del Centro studi Giuseppe Federici che ai tre frati, in pensiero per i loro orfanelli, si presentò uno del posto, un musulmano di cui avevano fatto la conoscenza e che si era comportato sempre amabilmente con loro. Ne conosciamo il nome: Leuimen Oglu Alì. Aveva una grande casa e si offrì di ospitare i missionari e tutti gli orfanelli. Anzi, poiché c'era ancora posto, poteva accogliere anche tutti i pochi cristiani del luogo. E arrivò a mettere a disposizione alcuni locali per gli oggetti, le cose care che ognuno avesse ritenuto di portare con sé. Cominciò così il trasloco. In quella nuova casa sarebbero stati al sicuro, così aveva garantito loro l'anfitrione. Anche se si fosse scatenato il pogrom, lui li avrebbe protetti, perché nessuno avrebbe osato violare la casa di un notabile musulmano. Erano a cena, gentilmente offerta dal loro ospite, quando i tre frati sentirono colpi di fucile provenienti dalla strada. D'istinto si alzarono da tavola per sbirciare dalle finestre, ma a quel punto Leuimen Oglu Alì gettò la maschera. Estratta una pistola, mentre i tre gli davano le spalle li freddò con pochi colpi, poi andò ad aprire il portone di quelli fuori, con cui era d'accordo. Dei cristiani e orfanelli non ne rimase vivo neppure uno. Poi la banda di assassini andò a saccheggiare la chiesa, l'orfanotrofio e le case delle vittime, completando l'opera con un bel falò di tutto. Tutto questo accadde il 23 gennaio 1920.
    CHIESA BRUCIATA
    Padre Alberto Amarisse, 46 anni, era superiore alla missione di Jenige-Rale. Negli stessi giorni i turchi invasero l'Armenia e uccisero lui e tutti gli altri cristiani. Padre Stefano Jalincatjan, 51 anni, armeno, era superiore alla missione Donkalè. Scappato all'ora dalle guerra, era tornato per riunire i superstiti e cercare di ricostruire quanto era stato distrutto. Ma il 23 gennaio 1920 i turchi tornarono. Capeggiati da tal Naggiar Mustafà, si avventarono nel villaggio e presero a incendiare tutto. I cristiani si rifugiarono in chiesa e, nella missione, mentre i turchi li calpestavano di fucilate. Ma prevalse l'opinione di risparmiare munizioni, visto che quelli si erano barricati. Così, mano alla benzina, diedero fuoco a tutto e arrostirono gli sventurati, missionario compreso. Al giovane fratel Giuseppe Achillian, 25 anni e armeno pure lui, andò meglio. Nel senso che non morì ammazzato. Invasa l'Armenia, ricominciarono le marcie forzate della popolazione cristiana. Molti morirono di stenti e fatica. Lui, il più giovane e in forze, partito il 23 gennaio, resistette fino al 15 del mese successivo. Ma, arrivato ad Adana, schiantò per lo strapazzo. E, se questa fu la sorte, figurarsi quella di donne, vecchi e bambini. L'italiano padre Leonardo Bellucci, 39 anni, dopo il servizio militare (il clero italiano non era ancora esentato, lo sarà con Mussolini), finita la guerra fu assegnata alla missione di Aleppo come economo e insegnante nel collegio che i francescani avevano là. Stava recandosi a Gerusalemme in treno quando, alla stazione di Kherbet el- Ghazi, un gruppo di beduini armati lo costrinse a scendere. Venne freddato sul posto a colpi di fucile. E, non contenti ne impalarono il cadavere. Allah è grande. Forse Abramo sbagliò a mettere incinta Agar...

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    SANT'ANTONIO ABATE E LA BENEDIZIONE DEGLI ANIMALI di Don Stefano Bimbi
    La vita di Sant'Antonio abate è descritta nella Vita Antonii di Sant'Atanasio, vescovo di Alessandria e dottore della Chiesa, che ebbe da lui un aiuto nella lotta contro l'arianesimo. Questa era l'eresia combattuta dal Concilio di Nicea per eliminare l'idea che Gesù fosse solo uomo e non vero Dio. Sant'Antonio è considerato il fondatore del monachesimo orientale, mentre quello occidentale si fa risalire a San Benedetto da Norcia. Risale al santo anche il nome dell'herpes zoster, popolarmente noto come fuoco di sant'Antonio, una malattia virale della cute e delle terminazioni nervose, causata dal virus della varicella infantile.
    VITA DI SANT'ANTONIO
    Sant'Antonio nacque a Coma un villaggio del Basso Egitto nel 251, figlio di benestanti contadini cristiani. Rimase orfano a vent'anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare. Sentì presto la vocazione ascoltando il vangelo dove Gesù dice al giovane ricco «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri» (Mt 19,21). Distribuiti i beni ai poveri e sistemata la sorella, iniziò a vivere come un anacoreta nel deserto attorno alla sua città, vivendo in preghiera, povertà e castità.
    In una visione vide un eremita che passava la giornata tra la preghiera e l'intreccio di una corda. Da questo capì che, oltre alla preghiera, si sarebbe dovuto dedicare ad un'attività concreta. Diventerà il principio dell'ora et labora che caratterizzerà anche in Occidente la vita monastica da San Benedetto in poi.
    Sant'Antonio condusse quindi una vita ritirata in perfetta solitudine. I frutti del lavoro gli servivano per sostentarsi, ma anche per fare la carità ai poveri. Nei primi anni di vita ritirata fu tormentato da tentazioni fortissime, inclusi dubbi sul senso della vita solitaria. Consultando altri eremiti fu esortato ad andare avanti. Anzi gli fu consigliato di staccarsi ancora più radicalmente dal mondo. Fu così che, indossando solo un rude panno, si chiuse in una tomba nella roccia. Qui fu aggredito e percosso dal demonio; senza sensi fu trovato dalle persone che si recavano spesso da lui per portargli del cibo. Fu portato nel villaggio, dove guarì.
    In seguito Sant'Antonio si spostò sul monte Pispir, vicino al Mar Rosso, dove si rinchiuse in una vecchia fortificazione. Vi rimase per 20 anni, nutrendosi solo con il pane che gli veniva portato due volte all'anno. Anche qui fu tormentato dal demonio. Alla fine molte persone, per stargli vicino e chiedergli consiglio e aiuto, abbatterono le mura del suo rifugio. Sant'Antonio allora si dedicò a guarire i sofferenti ed a liberare gli indemoniati.
    Durante la persecuzione dell'imperatore Massimino Daia rientrò ad Alessandria per confortare i cristiani che venivano ferocemente perseguitati. Tornata la pace, Sant'Antonio visse i suoi ultimi anni nel deserto. Morì all'età di 105 anni il 17 gennaio del 356. Ecco perché la sua festa si celebra il 17 gennaio di ogni anno.
    PROTETTORE DEGLI ANIMALI DOMESTICI
    Sant'Antonio è ricordato anche come protettore degli animali domestici e viene raffigurato con un maiale che reca al collo una campanella. Per la sua festa la Chiesa benedice gli animali e le stalle. Ci si potrebbe chiedere se sia il caso di benedire gli animali oppure se sia solo una moda derivante dalla diffusione degli animali come surrogati di un figlio, ma la risposta non può che essere affermativa. Infatti il primo a benedire gli animali è stato Dio stesso. Come ci ricorda la Genesi, dopo aver creato gli animali Dio li benedisse dicendo: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra» (Gn 1,22). Siate fecondi e moltiplicatevi vuol dire crescere di numero, cioè godere di buona salute per avere lo sviluppo voluto da Dio. Purtroppo con il peccato originale anche la natura animale partecipa della ferita della natura umana e quindi anche gli animali sono soggetti alle malattie e alla morte. Inoltre il Diavolo non solo può colpire gli uomini, ma anche i beni che a lui appartengono e quindi, tra questi, anche gli animali. Le benedizioni per gli animali si trovano nel Rituale Romanum. C'è anche una benedizione se sono colpiti da gravi infermità chiedendo a Dio che venga cancellato ogni diabolico potere su di loro.
    Certamente il fatto che la Chiesa benedica gli animali, non vuol dire che questi abbiano la stessa dignità degli uomini. Oggi va di moda difendere i diritti degli animali (contro i diritti degli uomini), come prima erano stati esaltati i diritti degli uomini (contro i diritti di Dio). È quindi bene ricordare che anche Hitler fu un animalista (e vegetariano). A prova di ciò basti sapere che una delle prime leggi che fece approvare proibiva la vivisezione sugli animali. Sappiamo come è andata a finire... gli esperimenti sono stati fatti sugli uomini.
    L'IDEOLOGIA ANIMALISTA
    Purtroppo l'ideologia animalista sta permeando sempre più la società e ciò è dovuto anche alla massiccia campagna per i presunti diritti degli animali sui mezzi di comunicazione. Ad esempio è frequente trovare nei tg un servizio che parli di cura degli animali o di ingiusti maltrattamenti nei loro confronti. È talmente assillante che ormai pare quasi introdotto un nuovo genere di peccato: l'abbandono degli animali. Vorrei invece ricordare che abbandonare un animale non è un peccato. Può essere una cosa non bella, ma non è un peccato. Semmai abbandonare un anziano è un peccato, però di questo raramente parlano i tg, per cui, sono certo, alla frase "abbandonare un animale non è un peccato" si troverebbero molte persone indignate. Eppure basterebbe ricordar loro che decidere cosa è peccato non è compito della televisione, ma di Dio.
    Sempre nei succitati servizi televisivi capita spesso che per descrivere i maltrattamenti sugli animali si arrivi a dire "animali trattati in modo disumano". Ora mi pare evidente che l'espressione riveli che esiste una gerarchia nella natura umana che prevede che l'uomo sia superiore agli animali. E ciò è confermato dall'altra espressione usata quando invece sono maltrattati degli uomini, si dice infatti "uomini trattati come bestie".
    In conclusione, per la festa di Sant'Antonio la Chiesa benedice gli animali perché li considera creature che Dio ha messo al fianco dell'uomo per migliorare la sua vita. La posizione della Chiesa, bene espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica, mi pare equilibrata e secondo verità. E profondamente contraria alle ideologie del mondo che si rivelano, al contrario, fortemente disumane. Hitler docet!
    Nota di BastaBugie: per approfondire l'articolo di Don Stefano Bimbi alla luce di quello che insegna la Chiesa riportiamo cosa dice il Catechismo della Chiesa Cattolica sugli animali.
    2416 - Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda della sua provvida cura. Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria. Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro. Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san Francesco d'Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli animali.
    2417 - Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine. È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali sono pratiche moralmente accettabili, se rimangono entro limiti ragionevoli e contribuiscono a curare o salvare vite umane.
    2418 - È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita. È pure indegno dell'uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli uomini. Si possono amare gli animali; ma non si devono far oggetto di quell'affetto che è dovuto soltanto alle persone.

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    EMILIA KACZOROWSKA, LA MAMMA DI SAN GIOVANNI PAOLO II di Renzo Allegri
    La madre di Giovanni Paolo II, Emilia Kaczorowska, era figlia di un sellaio lituano, ma era nata in Slesia il 26 marzo 1884. Aveva otto fratelli. La famiglia si trasferì a Cracovia quando Emilia era ancora piccola e fu bersagliata da dolori e disgrazie. In pochi anni, Emilia perse quattro fratelli e anche i genitori. Per alcuni anni crebbe in un Collegio delle suore della Misericordia. Poté frequentare solo le scuole elementari. Poi dovette pensare a guadagnarsi da vivere facendo la sarta.
    Era gracile e cagionevole di salute, ma era molto bella.
    Maria Janina, una coetanea di Emilia, nel 1978, subito dopo l'elezione a Pontefice di Karol Wojtyla, ricordava: «Emilia Kaczorowska, da ragazza, era la più bella ed elegante di Wadovice. Abitavamo nella stessa casa. Era snella, aveva profondi occhi neri e un sorriso disarmante. Di carattere era gaia e sempre serena. Vestiva modestamente, ma era distinta, molto femminile. Si confezionava lei stessa i vestiti. Aveva capelli lunghi e si pettinava, come si usava allora, puntandoli tutti in alto».
    Il padre del Papa si chiamava Karol. Al figlio poi diede il proprio nome, come si usava spesso allora. Era nato nel 1879. Era figlio di un sarto e anche lui aveva imparato il mestiere del sarto, ma poi lo aveva abbandonato per un posto di ufficiale di carriera nell'esercito.
    «Era alto, con spalle molto dritte e aveva un incedere armonioso», raccontava Maria Janina, la vicina di casa. «Gli stivali lunghi e la divisa militare con le scintillanti tre stellette di sottufficiale sul colletto gli davano fascino ed eleganza. Era molto ammirato dalle ragazze. Anche Emilia si era nascostamente innamorata di lui, e fu felicissima quando Karol la scelse come fidanzata».
    I due giovani si erano conosciuti nella chiesa cattolica di Cracovia che entrambi frequentavano. Emilia se ne era innamorata subito. Secondo un rapporto dell'esercito austriaco, dove Karol prestava servizio, egli era «onesto, leale, serio, educato, modesto, retto, responsabile, generoso e instancabile». Era anche un affascinante parlatore. Tutte doti preziose, immediatamente apprezzate da Emilia.
    IL MATRIMONIO E I FIGLI
    Si sposarono il 10 febbraio 1904 e subito dopo si trasferirono a Wadowice, dove aveva sede un prestigioso reggimento di fanteria in cui Karol Wojtyla svolgeva compiti amministrativi.
    Nell'agosto del 1906, Emilia diede alla luce un maschietto, che fu chiamato Edmund. Ma già fin da quel primo parto risultò che Emilia aveva una salute gracile e che successive maternità potevano essere fatali per lei. I medici quindi le consigliarono di non avere altri figli.
    La vita dei coniugi Wojtyla a Wadowice trascorreva serena. Lo stipendio di Karol non era pingue ma sufficiente. Emilia lo amministrava con oculatezza. Lavorava anche lei come sarta contribuendo al bilancio familiare. Amava vestire bene il suo bambino e andava a comperargli qualche vestitino a Cracovia.
    Edmund era intelligente, studiava con profitto. Emilia decise che quel suo ragazzo doveva frequentare l'università e diventare importante. Era orgogliosa di lui.
    Nel 1914 però Emilia rimase di nuovo incinta. La gravidanza questa volta fu difficile, il parto complicato e nacque una bambina che visse poche ore. Emilia la volle chiamare Olga, come la propria sorella morta a soli 22 anni.
    Quella difficile maternità e la perdita della bambina segnarono molto Emilia. Fisicamente ma anche psicologicamente. Era diventata una donna molto sofferente. Andava soggetta a fortissimi mal di schiena che le impedivano perfino di reggersi in piedi. Inoltre veniva presa da improvvisi capogiri, svenimenti che le facevano perdere conoscenza. Quando arrivavano quelle crisi, doveva restare a letto anche per quattro cinque giorni di fila. Doveva essere trasportata a Cracovia, per essere assistita da medici specialisti. Le assenze duravano anche una settimana e allora era il marito a sbrigare le faccende domestiche, fare da mangiare, lavare i piatti, pulire la casa.
    I medici dicevano che aveva i reni compromessi e il cuore malandato. Doveva condurre un'esistenza tranquilla, serena, non doveva affaticarsi e neppure lontanamente pensare ad altre maternità.
    IL RIFIUTO DELL'ABORTO TERAPEUTICO
    Ma alla fine del 1919 si accorse di aspettare un nuovo bambino. Aveva già 35 anni e mezzo e la nuova gravidanza si annunciò subito difficile. I medici dissero che era pericolosa per lei e per il nascituro: doveva interromperla. Ma Emilia era una donna di fede. Con grande semplicità, si affidò al buon Dio. Mai avrebbe impedito a quel suo bambino di venire al mondo: per lui era disposta a morire.
    I nove mesi di gestazione furono pieni di complicazioni per la salute cagionevole di Emilia. Il parto, avvenuto il 18 maggio 1920, fu difficile. Il bambino però nacque sano e venne chiamato Karol, come il padre.
    Da quel momento l'esistenza di Emilia divenne precaria. I disturbi al cuore e ai reni peggiorarono, i gonfiori alle gambe le impedivano di restare a lungo in piedi. Doveva egualmente provvedere alla casa e ai figli. Si sacrificava in silenzio. «Sopportava il dolore con fede», raccontò la sua coetanea Maria Janina. «Non parlava mai dei suoi disturbi e riusciva sempre a tenere un sorriso dolce e sereno sulle labbra, anche nei momenti di maggior sofferenza».
    Il piccolo Karol crebbe sereno e vezzeggiato. Nel 1926 cominciò ad andare a scuola. Aveva difficoltà in matematica, ma con l'aiuto del fratello maggiore, che era già universitario, riuscì a superarle e divenne uno dei migliori allievi.
    Nell'inverno del 1928 le condizioni di salute di Emilia si aggravarono. Karol, che aveva compiuto otto anni, cominciò a capire e ad avere il terrore di perdere la mamma. Un suo insegnante di allora raccontò che il bambino era spesso pensieroso e assente. La mattina del 13 aprile 1929, Karol, dopo aver fatto colazione, era uscito presto come il solito per andare a scuola. Verso mezzogiorno arrivò nella sua classe il preside e disse all'insegnante che doveva parlare con il piccolo Wojtyla. Fuori dell'aula, Karol vide una vicina di casa. Capì che era accaduto qualcosa di grave alla sua mamma e scoppiò a piangere. La signora Emilia, infatti, era spirata poco dopo aver mandato a scuola il bambino.
    La salma esposta nella casa, i funerali, la sepoltura nel cimitero, impressionarono tremendamente il piccolo Karol. Quel lutto segnò la sua vita per sempre. Gli fece scoprire il dolore di perdere la persona più cara. Tutti gli amici di Karol Wojtyla sono concordi nel dire che egli rimase sconvolto dalla perdita della madre al punto di non riuscire quasi mai a parlare di lei. Solo una volta, al giornalista francese André Frossard, che era suo amico, confidò:
    «La morte di mia madre è sempre profondamente scolpita nella mia mente». Il suo amore tenero e vivo lo dimostrò tenendo sempre con sé alcuni oggetti che erano appartenuti a sua madre: un tavolino e la cesta di vimini che Emilia usava per raccogliere la biancheria.
    In seguito, quando Karol Wojtyla era anche diventato un famoso poeta, scrisse, in ricordo della madre questa poesia:
    «Sulla tua tomba bianca / Fioriscono bianchi fiori della vita.
    Oh, quanti anni sono stati senza di te, / Quanti anni fa?
    Sulla tua tomba bianca / Da tanti anni già chiusa:
    Come se in alto qualcosa si innalzasse, / Come la morte incomprensibile.
    Sulla tua tomba bianca, / O madre, mio spento amore,
    Con tanto affetto filiale / Faccio preghiera: Dio, donale eterno riposo».
    Versi densi di un tremendo dolore mai venuto meno.

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    IL RUOLO FONDAMENTALE DELLE SANTE MADRI PER LA SANTITA' DEI FIGLI di Antonio Tarallo
    Sul tema "mamma", la letteratura di ogni genere ed epoca è assai vasta: testi teatrali, poesie, racconti e romanzi. Per non parlare degli antichi adagi popolari che costituiscono una cultura millenaria. Più volte, nel nostro quotidiano, abbiamo sentito ripetere frasi come: "La mamma è sempre la mamma"; "di mamma ce n'è una sola" o ancora "chi dice mamma non s'inganna". E si potrebbe continuare ad libitum perché l'immaginario collettivo su questo tema così universale è davvero colmo di scene e sentimenti. Le madri sono, infatti, da sempre figure centrali per ognuno, per ogni vivente: si nasce da un grembo materno. E, prima di nascere, si è legati alla madre tramite il cordone ombelicale, unione vitale e spirituale con la propria mamma. E non è certo "un caso" se Dio stesso, per incarnarsi, ha pensato al grembo della Vergine Maria, la Mamma per eccellenza.
    Nella storia del cristianesimo, dunque, la figura della madre ha avuto un ruolo fondamentale fin dal principio. E lo sapevano bene quei santi che hanno avuto nelle madri testimoni importanti di fede. L'agiografia è colma di esempi di spose e madri che hanno trasmesso ai propri figli una fede salda, ben radicata in Dio, in Cristo, nella Madonna. Madri che per prime hanno trasmesso il messaggio del Vangelo ai figli, e questi, a loro volta, hanno così voluto intraprendere un cammino spirituale tutto particolare, speciale, fino a divenire santi. Così è accaduto a san Gregorio Magno, papa Gregorio I: la madre, santa Silvia (della quale oggi ricorre la memoria liturgica), secondo quanto lo stesso pontefice santo ha riferito nei suoi scritti, raggiunse il vertice della vita di preghiera e di penitenza, divenendo per lui una colonna della sua stessa fede.
    SANTA MONICA, MADRE DI SANT'AGOSTINO
    Altra figura centrale per la storia del cristianesimo è senza dubbio santa Monica, madre di sant'Agostino, dottore della Chiesa. Monica ha 22 anni quando nasce il primogenito Agostino, il futuro santo vescovo d'Ippona. Le vicende della sua biografia sono così strettamente legate a quelle del figlio che i due nomi si fondono, si confondono quasi, diventando un binomio inscindibile nella storia della Chiesa. Anche le loro memorie liturgiche si susseguono una dopo l'altra: Monica è celebrata il 27 agosto (sale al Cielo il 27 agosto 387); Agostino il 28 agosto (sale al Cielo il 28 agosto 430). Questa incredibile storia di madre e figlio è affascinante: quando Agostino si trasferisce per i suoi studi di retorica a Cartagine, si concede con sfrenata libertà ai piaceri della vita. La sua è una quotidianità fatta di piaceri smodati. Le sue Confessioni raccolgono diversi episodi riguardo a questo periodo. Monica, allora, cerca di riportarlo sulla retta via, ma niente da fare: Agostino, pur amando profondamente la madre, continua la sua vita smodata. Finiti gli studi, Agostino decide di spostarsi con la sua famiglia a Roma, capitale dell'impero. Monica, caparbia, decide di seguirlo, ma il figlio le sfugge. Ed è a questo punto della storia che avviene un fatto fondamentale: Monica trascorre una notte intera a pregare presso la tomba di san Cipriano. Sarà proprio la perseveranza della preghiera di santa Monica a convertire il figlio. Ma non sarà Roma la tappa decisiva della conversione, bensì Milano. Nella città lombarda, Agostino conosce sant'Ambrogio, vescovo di Milano. Monica comincia così a intravedere un po' di luce nella vita del figlio: è la Luce di Cristo che comincia a squarciare le tenebre del cuore del figlio dissoluto. Agostino verrà battezzato nel 387. Diventerà vescovo d'Ippona e sarà ricordato per la sua imponente e importante opera teologica.
    SANTA BRIGIDA E SANTA CATERINA DI SVEZIA
    Facciamo un salto nel Medioevo: in quest'epoca ci imbattiamo nella storia di santa Brigida e santa Caterina di Svezia, madre e figlia. Anno del Signore 1349: dalla fredda Svezia, Brigida, dopo la morte del nobile marito Ulf Gudmarsson, giunge a Roma. La seguirà la figlia, Caterina. Le due donne saranno da quel momento in poi sempre più unite nel Signore, nell'amore per i bisognosi. Abiteranno, fra preghiere e opere di carità, in Piazza Farnese. Qui si trova ancora oggi il palazzo dove avevano preso dimora: due stanze attigue, metafora della loro vicinanza spirituale. E proprio nel palazzo di Piazza Farnese - sede dell'Ordine del SS. Salvatore di Santa Brigida - è conservata una tela (vedi immagine in fondo) che può darci un'istantanea delle loro biografie: il quadro presenta santa Caterina mentre accompagna l'uscita del corpo di santa Brigida dalla chiesa romana di San Lorenzo in Panisperna. Brigida era stata sepolta lì, prima di ritornare in patria: viene colta nel sonno della luminosa morte, mentre Caterina, mesta, con il capo reclinato e le mani giunte, prega il Signore mentre accompagna la madre nel suo ultimo viaggio.
    MARGHERITA OCCHIENA, MADRE DI SAN GIOVANNI BOSCO
    Anche il Novecento riesce a donarci bellissime storie di madri che con la loro testimonianza di fede hanno avuto una grande influenza sui propri figli. Basterebbe pensare alla venerabile Margherita Occhiena, madre di san Giovanni Bosco: sarà lei la guida per il figlio e per i primi ragazzi di Valdocco. Quando Giovanni confidò al parroco di sentir nascere in lui la vocazione religiosa, il sacerdote lo comunicò subito alla madre. Lei, allora, si rivolse al figlio con queste parole: «Io voglio solamente che tu esamini attentamente il passo che vuoi fare e poi segui la tua vocazione senza guardar ad alcuno. La prima cosa è la salvezza della tua anima. [...] Non prenderti fastidio per me. Io da te voglio niente; niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto. Se ti decidessi per lo stato di prete secolare, e per sventura diventassi ricco, io non verrò neppure a farti una sola visita, anzi non porrò mai piede in casa tua. Ricordalo bene».
    Passiamo dal Nord al Sud d'Italia. Un altro esempio di grande e genuina fede: è Maria Giuseppa Di Nunzio Forgione, madre di san Pio da Pietrelcina. La sua, una vita da terziaria francescana che sicuramente influì sul figlio Francesco (chiamato così in onore di san Francesco d'Assisi), il futuro santo cappuccino con le stimmate.
    Altra madre importante è la serva di Dio Emilia Kaczorowska, mamma di Karol Wojtyła, il futuro pontefice Giovanni Paolo II. Il ginecologo di fiducia aveva avvisato della pericolosità del parto di quel bambino e le aveva indicato di abortire. Ma Emilia era una donna di fede: affidò tutto a Dio e alla Madonna: quel bambino, che rischiava di non nascere, diventerà appunto san Giovanni Paolo II, colosso della fede e della Chiesa.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7561

    SAN MICHELE E' L'ARCANGELO DEL PURGATORIO
    L'arcangelo san Michele è considerato dai cristiani il più potente difensore del popolo di Dio. Nell'iconografia, sia orientale che occidentale, san Michele viene rappresentato come un combattente, con la spada o lancia nella mano e sotto i suoi piedi il dragone-satana, sconfitto nella battaglia. I credenti da secoli si affidano alla sua protezione qui sulla terra, ma anche particolarmente nel momento del giudizio, come recita un'antica invocazione: "San Michele arcangelo, difendici nel combattimento, affinché non periamo nel terribile giorno del giudizio."
    L'Arcangelo viene riconosciuto anche come guida delle anime al Cielo. Questa funzione di san Michele è evidenziata nella Liturgia romana in particolare nella preghiera all'Offertorio della Messa dei defunti: "Signore Gesù Cristo, libera le anime dei fedeli defunti dalle pene dell'inferno! San Michele, che porta i tuoi santi segni, le conduca alla luce santa che promettesti ad Abramo e alla sua discendenza."
    Egli compie dunque l'onorevole ufficio di presentare a Gesù Cristo, nostro giudice, le anime che muoiono in grazia di Dio. La Santa Chiesa prega anche san Michele, a nome di tutti i fedeli, di difenderci al momento della morte contro i demoni; di farci trionfare dei loro assalti e di custodirci contro ogni pericolo di perdizione. Questo ufficio attribuito a san Michele di proteggere i moribondi è un privilegio secolare e riconosciuto da tutti. San Tommaso, san Bellarmino, Suarez e sant'Alfonso de' Liguori dichiarano che san Michele ha dato a Dio il compito di presiedere alla morte dei cristiani; che egli libera i suoi devoti dalle astuzie del demonio e dona loro la pace e la gloria eterna. Tale è dunque il pensiero della Chiesa.
    La Tradizione attribuisce a san Michele anche il compito della pesatura delle anime dopo la morte. Perciò in alcune rappresentazioni iconografiche, oltre alla spada, l'Arcangelo porta in mano una bilancia. Felice dunque colui che ogni giorno avrà pregato san Michele. Nella sua ultima ora, quando dovrà vincere il supremo combattimento che decide per l'eternità, il potente Arcangelo l'assisterà. Esso stesso dichiarò che Satana non avrebbe avuto nessun potere sopra i suoi servi e i suoi protetti.
    Il fatto che la Chiesa lo preghi per i defunti, indica, secondo l'osservazione del Bossuet, la sua fede circa il ruolo di san Michele nei riguardi delle anime del Purgatorio. Nelle loro sofferenze purificatrici, queste anime hanno bisogno di consolazione. San Michele vi si impegna in modo particolare, egli è l'Arcangelo del Purgatorio. Il Principe della milizia celeste, dice sant'Anselmo, è onnipotente in Purgatorio, egli può dare sollievo alle anime che la giustizia e la santità dell'Altissimo trattengono in quella dimensione dell'aldilà. E' incontestabilmente riconosciuto fin dalla fondazione del Cristianesimo, diceva il cardinale san Roberto Bellarmino, che le anime dei defunti sono liberate dal Purgatorio per l'intercessione ed il ministero dell'arcangelo san Michele. Aggiungiamo a questo autorevole teologo anche l'opinione di sant'Alfonso: "San Michele - egli dice - è incaricato di consolare le anime del Purgatorio. Egli non cessa di assisterle e di soccorrerle, procurando loro molti sollievi nelle loro pene".
    Se dunque noi amiamo i nostri defunti, a loro intenzione dobbiamo pregare san Michele.

  • VIDEO: cartone animato su Madre Teresa ➜ https://www.youtube.com/watch?v=HXUI5yBvSdo

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=4361

    MADRE TERESA SARA' PROCLAMATA SANTA IL 4 SETTEMBRE di Rodolfo Casadei
    Oggi il Meeting di Rimini chiude i battenti con un attesissimo incontro su Madre Teresa di Calcutta, che verrà proclamata santa il 4 settembre prossimo, e fra i relatori non poteva mancare Brian Kolodiejchuk, il postulatore della causa di beatificazione e di quella di canonizzazione della suora albanese. Kolodiejchuk, canadese di origine ucraina e sacerdote dei padri missionari della Carità, ha frequentato madre Teresa per vent'anni, dal 1977 fino alla morte nel 1997, e oggi è il direttore del Mother Teresa Center. Oltre alla mostra rimasta esposta per tutta la settimana al Meeting, ha curato molti libri di scritti della fondatrice delle Missionarie della Carità, fra i quali Sii la mia luce, il libro che rivela la "notte dell'anima" che Teresa visse fino alla fine dei suoi giorni e che più oggi risulta utile per capire la natura della santità che la Chiesa ha riconosciuto e intende sottolineare celebrando la canonizzazione nel corso del Giubileo della misericordia.
    Padre Brian, lei ha detto e scritto che madre Teresa sarà la patrona di chi ha maggiormente bisogno della misericordia di Dio. Cosa intende dire?
    In una lettera pubblicata nel libro Sii la mia luce madre Teresa scrive: «Se mai diventerò una santa, sarò una santa dell'"oscurità". Sarò sempre assente dal Paradiso per accendere la luce di coloro che sono nell'oscurità sulla Terra». Questa è la missione di misericordia che si prefigge di svolgere dal Paradiso. Allo stesso tempo l'opera delle sue suore è essenzialmente opera di misericordia. Nell'ultimo libro tradotto in italiano, Il miracolo delle piccole cose, i quattordici capitoli mettono a fuoco le sette opere di misericordia corporale che madre Teresa e le sue suore hanno compiuto, e si tratta della documentazione ufficiale della causa di canonizzazione. Che avviene provvidenzialmente nell'anno del Giubileo della misericordia, per proporre la Madre come un modello di misericordia.
    Qual è la cosa che più ha fatto soffrire madre Teresa in vita?
    Vedere continuamente la sofferenza dei poveri. Nei suoi ultimi anni di vita ripeteva spesso: «Chi si prenderà cura dei poveri?». E non si riferiva a quelli di cui le Missionarie della Carità si prendevano cura, ma ai poveri di tutto il mondo in generale. Le dava sollievo il fatto che, grazie anche alle sue iniziative, il mondo era diventato più cosciente della condizione dei poveri. Ha accettato di ricevere più di 200 premi, oltre al premio Nobel, nel corso della sua vita, in nome dei poveri e del fatto che attraverso di lei il mondo prendeva coscienza di loro.
    Cosa pensava madre Teresa delle critiche che le facevano persone come Christopher Hitchens, di chi la accusava di fare assistenzialismo senza affrontare le cause della miseria?
    Alcuni fatti che Hitchens ha riportato nel suo libro non erano precisi, come quando ha accusato madre Teresa di aver reso omaggio alla tomba del dittatore Enver Hoxha a Tirana: lei è stata portata lì come le autorità facevano con tutti i visitatori stranieri, la sua intenzione era quella di pregare sulla tomba dei suoi genitori in Albania. L'ha criticata per essersi limitata a creare una casa per i moribondi a Calcutta, quando avrebbe potuto finanziare una clinica di prim'ordine per loro. Ma quella casa era stata creata proprio per i moribondi, per persone abbandonate e senza speranza di guarigione, affinché potessero morire nella dignità. Tutti sanno la storia di quell'uomo che disse: «Ho vissuto tutta la vita come un animale, ma ora muoio come un angelo». Doveva essere un luogo dove si realizzava un incontro personale profondo fra chi accudiva il morente e il morente stesso. Ho invitato Hitchens a rendere la sua testimonianza durante il processo di beatificazione, e lui ha ammesso che la sua antipatia per madre Teresa è nata quando, nella seconda parte della sua visita alle opere delle missionarie della Carità a Calcutta, caduto il discorso sulla questione dell'aborto lei gli disse che la soluzione per le donne che volevano abortire era che partorissero e dessero il figlio in adozione. [leggi MADRE TERESA: IL PIU' GRANDE DISTRUTTORE DELLA PACE E' L'ABORTO, clicca qui, N.d.BB]
    Riguardo alle critiche sul fatto che lei non si occupava delle cause della miseria, la Madre ha sempre risposto che la sua missione era quella di prendersi cura dei bisogni del sofferente qui ed ora, ad altri era data quella di occuparsi della rimozione delle cause, appoggiandosi sulla dottrina sociale della Chiesa. [leggi MADRE TERESA: PORTAVA AI POVERI SIA IL PANE CHE CRISTO (NO ALL'UMANITARISMO RELATIVISTA), clicca qui, N.d.BB]
    Quali sono stati il santo e la santa preferiti di madre Teresa?
    La santa è Teresina di Lisieux, che era stata canonizzata e poi proclamata co-patrona delle missioni insieme a san Francesco Saverio proprio negli anni della formazione e dei primi voti di madre Teresa. La colpiva tantissimo la «via dell'infanzia spirituale» di Teresina, che consiste nella fiducia e nell'abbandono nelle braccia di Gesù perché lui operi in noi quando a noi è impossibile operare. Teresa tradurrà in inglese "confiance et abandon" con "trust and surrender". Fra i santi amava molto san Francesco: era l'unica immaginetta dentro al suo libro di preghiere. E sant'Ignazio di Loyola, al quale si ispirava il primo ordine religioso a cui si consacrò, quello delle suore di Loreto.
    Quale era la sua preghiera preferita?
    Era il Memorare, la preghiera di intercessione alla Vergine Maria attribuita a san Bernardo di Chiaravalle. Ne aveva fatto una novena, che chiamava la "novena volante", nella quale si ripeteva per nove volte di seguito la preghiera ogni giorno per nove giorni. Ricordo il caso di una suora che non riusciva ad avere il visto per l'allora Ddr (la Germania comunista): lei e altre suore pregarono e già dopo il primo giorno il visto arrivò. E quella non è stata l'unica grazia ottenuta attraverso la novena volante.
    Aveva pratiche ascetiche particolari?
    Solo il digiuno in concomitanza del pranzo del primo venerdì del mese. Il corrispettivo del pranzo saltato andava in un fondo speciale a cui si faceva ricorso per le richieste di aiuto impreviste. Non era attratta da pratiche ascetiche straordinarie, anche nella vita ascetica applicava il suo motto generale: "fare le cose ordinarie con un amore straordinario".
    Quali persone ha sentito maggiormente amiche nel corso della sua esistenza?
    Anzitutto Jacqueline De Decker, una donna belga che voleva diventare missionaria della carità, ma a causa di un grave problema di salute è dovuta tornare in Belgio. Madre Teresa le ha chiesto di essere il suo braccio destro spirituale, di fondare i Cooperanti sofferenti delle missionarie della Carità, che offrivano le loro sofferenze per donare alle suore la forza di compiere la loro opera di misericordia. Poi Anne Blaikie, che condusse con lei la campagna "tocca un lebbroso con la tua compassione" a Calcutta e poi fondò gli Youth Co-workers, giovani che collaborano le Missionarie della Carità. Infine Kathryn Spink, figlia di diplomatici britannici e scrittrice di successo: madre Teresa si fidò tanto di lei da farne la sua biografa autorizzata.
    Si è molto parlato della "notte dell'anima" che scese su madre Teresa a un certo momento. Come attraversò quel tempo e come ne uscì?
    Non è uscita dall'oscurità per il resto della sua vita. Di solito nella vita dei mistici la notte dell'anima è un passaggio verso l'unione mistica con Cristo. In madre Teresa la cosa è diversa. Lei afferma di avere provato la dolcezza dell'unione della sua anima con Cristo fra il 10 settembre 1946, il giorno in cui si manifesta in lei l'ispirazione per quella che sarà la sua opera, e la metà del 1947, quando comincia a visitare gli slum di Calcutta. In quel momento la dolcezza svanisce e non torna più. Questa seconda esperienza di oscurità, dopo che era avvenuta l'unione mistica con Cristo, la definirei un'oscurità apostolica, missionaria. Lei capisce che la povertà più grande dell'uomo non è quella materiale, ma il sentirsi non amati, abbandonati, soli, ed è ciò che lei stessa sperimenta nel rapporto con Cristo: ha il sentimento che Gesù non la ama e che lei non riesce ad amare Gesù come vorrebbe. Diceva: «Lo stato della mia anima è come quello dei poveri che vivono per strada».
    Paradossalmente questa aridità del rapporto con Cristo l'ha unita maggiormente a lui e ai poveri. A lui perché ha condiviso con lui l'esperienza della solitudine nell'orto del Getsemani e dell'abbandono da parte di Dio sulla croce, quando Gesù dice: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?". E con i poveri perché è diventata come loro non solo nello stile povero di vita, ma nel condividere il loro senso di abbandono, di solitudine, di assenza dell'amore.

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    SAN GIOVANNI DA CAPESTRANO, PATRONO DEI CAPPELLANI MILITARI di Don Mario Scudu
    Non si può certo dire che fu un uomo tutto casa e chiesa, o meglio, visto che era un frate, tutto convento e cappella. Ha avuto una vita movimentata, molto varia e ricca di esperienze. Ha girato prima l'Italia e poi l'Europa, ma non per turismo religioso o per convegni di aggiornamento con soggiorno in alberghi a varie stelle... ma per predicare. E non dimentichiamo che, nel Quattrocento, lo stesso "viaggiare" era sinonimo di fatica, dormire poco, soffrire la fame e la sete con pericoli vari e imprevedibili: ogni giorno una buona dose di disagio di vario genere con avventure non sempre a lieto fine.
    Nel 1453 era caduta la città di Costantinopoli, la capitale dell'Impero Romano d'Oriente. L'impressione fu enorme. Il senso della minaccia sulla cristianità europea era tangibile e incombente. La paura e l'angoscia erano tornate prepotenti e si facevano sentire con forza su larghi strati della popolazione. Anche se non su tutti. Davanti ad ogni avvenimento doloroso c'è sempre un certo numero di apatici, che sono poi quelli dagli ideali ristretti e dagli orizzonti che coincidono esattamente con il proprio benessere e tornaconto. Fu così anche allora.
    Il nuovo pericolo che minacciava l'Europa era costituito dall'avanzata sanguinaria e apparentemente inarrestabile dell'Islam e dei Turchi. Furono i papi Niccolò V e poi il successore Callisto III che organizzarono una crociata in difesa della fede cristiana e dell'Occidente intero minacciati dal pericolo ottomano-islamico. Ma sul campo è stato Giovanni da Capestrano, un umile frate, a raccogliere la sfida e darsi da fare, con la predicazione, per reclutare uomini. Purtroppo solo gli Ungheresi, i più direttamente minacciati, risposero al suo appello.
    Con un esercito di quasi 5.000 uomini si mise in cammino verso Belgrado, fortezza che era stata chiusa in una tenaglia dalle truppe di Maometto II e dalla flotta turca. Fu dapprima un comandante ungherese, lo Hunyadi, dietro suo impulso a rompere l'assedio navale con un attacco che riportò pieno successo il 14 luglio 1456. Una settimana dopo arrivò anche la vittoria terrestre. E questa ebbe come protagonista assoluto Giovanni da Capestrano che guidò l'attacco. Un frate trasformatosi in generale vittorioso. Fu questa azione a difesa dell'Occidente che gli meritò in seguito l'appellativo di "Apostolo dell'Europa Unita". Ma gli costò anche la vita. Contrasse infatti la peste e ne morì tre mesi dopo nel convento di Ilok, in Croazia. Era il 1456. Anno della Battaglia di Belgrado dell'Europa contro i Turchi, come viene indicato nei libri di storia.
    GIOVANNI: INQUISITORE E PREDICATORE IN ITALIA
    Giovanni nacque il 24 giugno 1386 a Capestrano non lontano da L'Aquila, nell'Abruzzo. I suoi genitori erano di nobili origini. La prima istruzione l'ebbe in famiglia da uno speciale pedagogo. E ancora adolescente conobbe il dolore: subì infatti, per rappresaglia, l'uccisione di ben dodici persone del parentado e la distruzione della stessa casa. Giovanni studiò diritto canonico e diritto civile a Perugia. Diventò anche giudice di questa città facendosi notare e ricordare per la sua integrità morale e imparzialità. Stava per far rientro in paese per guadagnare un po' di denaro e così autofinanziarsi gli studi per la promozione al dottorato, quando, nel 1415 in seguito ad un conflitto tra Perugia e Rimini, cadde prigioniero. Come sarà alcuni secoli dopo per Sant'Ignazio di Loyola che si convertì durante la prigionia, così fu per Giovanni da Capestrano (cf box a pag. 18). Alcuni anni dopo entrò tra i francescani osservanti, divenendo sacerdote nel 1417.
    La sua vita si può dividere in due grandi periodi. Il primo comprende la sua attività in Italia fino al 1451; il secondo la sua predicazione nell'Europa centrale e la partecipazione alla battaglia di Belgrado, e la morte (1456).
    Nel primo periodo furono tre i principali interessi di Giovanni: la predicazione, la difesa della ortodossia cattolica e la riforma dei frati minori.
    A partire dal 1422 cominciò a predicare a L'Aquila davanti a grandi folle, che rimanevano estasiate alle sue parole e al suo entusiasmo. Folle enormi lo seguiranno anche a Roma, Siena, Perugia, Milano, Padova, Vicenza, Venezia e altre città. Fece anche alcune puntate in Spagna e in Terra Santa. La sua predicazione, specialmente durante l'Avvento e la Quaresima, fu un grande aiuto per il rinnovamento spirituale e dottrinale delle popolazioni italiane del tempo. Diventato un predicatore famoso, Giovanni ne conobbe un altro grandissimo, Bernardino di Siena, di cui divenne amico (e difensore quando venne accusato di idolatria). Fu quest'ultimo a comunicargli la devozione al nome di Gesù (condensato nelle famose tre lettere IHS che significavano Jesus Hominum Salvator, Gesù Salvatore degli uomini). Per le sue conoscenze del diritto Giovanni veniva anche chiamato dai papi come paciere e come diplomatico incaricato di delicate missioni.
    Venne nominato in seguito inquisitore dei Fraticelli e chiamato così a combattere il fraticellismo: una setta che pretendeva di praticare "alla lettera e senza glosse" la regola di San Francesco, professando diverse dottrine dichiarate eretiche dalla Chiesa. Proprio per il successo che ebbe come riformatore dell'ordine francescano si meritò l'appellativo di "Colonna dell'Osservanza".
    Altro incarico che svolge con molto zelo e efficienza, anche senza i risultati desiderati, fu la sua attività di inquisitore degli Ebrei (1427) o meglio la sua battaglia contro l'usura, grandemente ed efficientemente praticata da questi, che ha poi lasciato su di loro lungo i secoli seguenti una fama poco bella.
    Giovanni si era adoperato presso papi, principi e governatori di città, e specialmente presso la regina Giovanna di Napoli, per far applicare le leggi contro l'usura in generale e contro gli Ebrei in modo particolare, cercando di costringere questi ultimi ad osservare le disposizione del diritto ecclesiastico e civile del Regno. Non ebbe grande successo anche perché non godette degli appoggi importanti su cui lui contava.
    UN PREDICATORE PER L'EUROPA
    Dal 1451 al 1456 abbiamo il secondo periodo della vita di Giovanni quello propriamente "europeo". Su istanza di papa Niccolò V egli partì per l'Austria insieme a dodici compagni (tra i quali uno dei suoi biografi, un certo Nicola della Fara). Fu lo stesso imperatore Federico III a richiedere la sua presenza come predicatore (predicò in Baviera, nella Turingia, nella Sassonia, Slesia ed in Polonia, parlando in latino e aiutato da un interprete), come riformatore dei frati conventuali, come inquisitore degli Ebrei e anche per cercare di riconvertire gli hussiti di Boemia. Questi erano i seguaci del riformatore Jan Hus, arso come eretico nel 1415. [...]
    Ma questo punto nel programma di Giovanni diventava secondario rispetto al pericolo incombente posto dall'Islam che avanzava insieme ai Turchi. Si dedicò completamente a questo obiettivo fino alla morte.
    Che messaggio ci lascia Giovanni da Capestrano? Anzitutto la sua totale dedizione per la causa del Vangelo, attraverso la predicazione in Italia e nell'Europa centrale contrastando le eresie del tempo. Egli "può restare come esempio di un uomo che, in quello scorcio finale del Medio Evo, seppe capire problemi e aspirazioni, angosce e attese del suo uditorio, e cercò di ripresentare il Vangelo in quella situazione... Un messaggio ... resta per i predicatori di tutti i tempi, quello di farsi ricercatori e annunciatori del senso attuale che deve avere la rivelazione divina per ogni generazione e cultura" (A. Pompei).
    Giovanni da Capestrano ha lasciato una profonda impressione nella Chiesa del Quattrocento, per la sua predicazione travolgente e convincente (e le sue prediche non erano propriamente uno show: duravano infatti dalle due alle tre ore, con qualche eccezione... ancora più a lungo). Fu un uomo di successo apostolico per le conversioni spettacolari operate, per i suoi poteri taumaturgici che esercitava per la povera gente, e non ultimo anche per la sua multiforme santità. "Giovanni appare come un discepolo di Cristo, del quale segue l'esempio per quanto la sua condizione umana glielo consente.
    L'imitazione di Cristo è dunque primordiale ed il modello evangelico guida la vita di Giovanni. La profonda pietà e la grandissima umiltà del santo colpirono i suoi contemporanei; egli si imponeva prove umilianti, come attraversare la città di Perugia, della quale fu giudice, malvestito e in groppa ad un asinello. Il suo amore per la pace, legato ad un innato senso della giustizia ed una ardente carità nei confronti del prossimo, lo pongono nella categoria dei santi. La sua vita è condotta nel segno dell'austerità: accatta il suo pane, porta quotidianamente il cilicio, digiuna tutti i giorni in eguale misura" (da Storia dei Santi e della Santità cristiana, vol. I).
    Un santo ancora oggi, per molti aspetti, significativo.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7478

    FRANCESCO DI SALES, IL SANTO CHE INSEGNA AD ESSERE SANTI
    Autore del libro di successo Filotea, scritto per i fedeli laici e tutt'oggi validissimo per progredire nella vita spirituale
    di Liana Marabini
    Lo Château de Sales, in Savoia, predomina la vallata sottostante con i suoi muri merlettati predisposti per le guardie: è un castello fortificato, di proprietà della famiglia de Sales. Il patriarca François osserva da una delle finestre del primo piano il giardino sottostante: un ragazzino elegantemente vestito sta duellando con un adulto. Il ragazzo è suo figlio, si chiama François, come lui (lo hanno battezzato così in onore di san Francesco d'Assisi); l'altro duellante è il suo maestro di armi. Il patriarca è combattuto fra la gioia di vedere la bravura del figlio nel maneggiare le armi e la tristezza per la notizia che il giovane desidera ardentemente diventare prete.
    Ma lui ha ben altri progetti per il figlio. Lo manderà a Parigi, a studiare il diritto, così diventerà un ottimo magistrato. Il giovane Francesco (1567-1622) si piega alla decisione del padre e prosegue gli studi presso il collegio parigino di Clermont, tenuto dai gesuiti. Studia retorica, latino, greco, ebraico, filosofia e teologia, conoscenze che gli permettono di "imparare gli esercizi della nobiltà". Impara bene anche il francese, che comincia ad utilizzare in sostituzione del dialetto natale. Ma ciò che lo attira di più è lo studio della teologia.
    Francesco mostrava un forte interesse per la teologia dei santi Agostino di Ippona e Tommaso d'Aquino, concentrandosi in particolare sulla grazia e la predestinazione, che era molto discussa allora a causa del protestantesimo. Qualche tempo prima della nascita del Sales, Calvino aveva teorizzato una sua teologia della predestinazione, in modo molto diverso dalla dottrina cattolica. Questo approccio suscitò grande ansia in Francesco, che per alcune settimane - tra il dicembre 1586 e il gennaio 1587 - si immaginò di essere predestinato all'Inferno. Sconvolto, pregava davanti a una statua della Vergine Maria in una chiesa domenicana, la chiesa di Saint-Étienne-des-Grès. Con l'aiuto della preghiera arrivò alla liberazione dalle sue paure. Fece anche voto di castità, accrescendo preghiere e penitenze.
    STRAORDINARIE QUALITÀ SACERDOTALI
    Nel 1588, decise di continuare gli studi in Italia, arrivando in una delle più notevoli università europee del tempo: Padova. Cercando consiglio e aiuto, si pose sotto la direzione spirituale del gesuita Antonio Possevino, che gli fece fare gli esercizi spirituali. Come confidò una volta a un amico: "Ho studiato diritto per piacere a mio padre e teologia per piacere a me stesso". A 25 anni, viaggiò tra Loreto, Roma, Venezia e poi tornò in Savoia. Qui il padre gli offrì la signoria di Villaroger e gli presentò una fidanzata. Ma Francesco ribadì il suo desiderio di diventare prete.
    Qualche tempo dopo, il vescovo Claude de Granier gli offrì l'incarico di prevosto del capitolo di Ginevra. Così, Francesco indossò la tonaca il 10 maggio 1593 e il giorno successivo divenne canonico di Annecy; il 13 maggio rinunciò alla primogenitura e al titolo di signore di Villaroger. Si ritirò quindi nel castello di Sales fino al 7 giugno 1593, lottando contro i suoi dubbi e le sue tentazioni. Ricevette il diaconato l'11 giugno 1593; il 18 dicembre dello stesso anno fu ordinato sacerdote e quindi divenne prevosto di Ginevra.
    Le sue straordinarie qualità sacerdotali (calma, dolcezza nelle parole e nell'approccio ai fedeli, un'eloquenza rara) fecero di lui un ottimo strumento per la conversione delle anime. L'8 dicembre 1602 Francesco di Sales fu consacrato, a Thorens, vescovo di Ginevra. Servì la sede episcopale in esilio ad Annecy, poiché Ginevra era divenuta una roccaforte protestante. Come nuovo vescovo, decise di istituire il catechismo per diffondere, far conoscere e far comprendere la fede cattolica ai credenti della sua diocesi. I suoi seguaci lo chiamavano "l'amabile Cristo di Ginevra".
    L'INCONTRO FECONDO CON SANTA GIOVANNA DI CHANTAL
    Nel marzo 1604, a Francesco fu chiesto di tenere i sermoni quaresimali a Digione. Lì conobbe la baronessa Giovanna Francesca di Chantal (1572-1641). Vedendola, Francesco credette di riconoscere colei che gli era apparsa durante una visione e che avrebbe dovuto fondare un nuovo ordine religioso. Qualche tempo dopo, divenne direttore spirituale della stessa Giovanna di Chantal, oggi santa, alla quale disse: "Tutto si deve fare per amore, e niente per forza, bisogna amare l'obbedienza più che temere la disobbedienza". Insieme a lei, avrebbe poi fondato l'Ordine della Visitazione.
    San Francesco di Sales è stato anche uno scrittore notevole, uno dei primi ad usare il francese contemporaneo nei suoi scritti per avvicinarsi ai lettori. Nel 1608, scrisse la sua opera più famosa, l'Introduzione alla vita devota (o Filotea). Inizialmente, il santo aveva scritto a Madame de Charmoisy, la moglie di un cugino che desiderava praticare una vita di preghiera. Per due anni, le diede consigli spirituali, finché la guida spirituale di Francesco lo esortò a pensare a una pubblicazione. L'autore, dopo una serie di opportune modifiche, pubblicò quindi quei consigli sotto il titolo di Introduzione alla vita devota. Il linguaggio e lo stile utilizzati in quest'opera erano molto semplici per l'epoca, senza citazioni latine o greche. Offrendo devoti consigli a uomini e donne di ogni stato di vita, si rivolgeva a un pubblico molto più vasto rispetto a molti altri trattati spirituali dell'epoca.
    Riguardo al protestantesimo, si distinse per la carità con cui si proponeva di riportare le anime alla Chiesa cattolica: "È con la carità che le mura di Ginevra devono essere scosse, con la carità che deve essere invasa, con la carità che deve essere recuperata [...]. Non ti offro ferro, né questa polvere il cui odore e sapore ricorda la fornace infernale [...]. È da noi stessi che dobbiamo respingere il nemico [...], con l'esempio e la santità della nostra vita [...]. Dobbiamo abbattere le mura di Ginevra con preghiere ardenti e lanciare l'assalto con fraterna carità".
    Francesco di Sales è stato canonizzato nel 1665 da Alessandro VII. Nel 1877 il beato Pio IX lo ha proclamato Dottore della Chiesa. E nel 1923, Pio XI lo ha dichiarato patrono dei giornalisti e degli scrittori cattolici.

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=160

    L'ATTUALITA' DEL SANTO CURATO D'ARS di Benedetto XVI
    Cari fratelli e sorelle, nell'odierna catechesi vorrei ripercorrere brevemente l'esistenza del Santo Curato d'Ars sottolineandone alcuni tratti, che possono essere di esempio anche per i sacerdoti di questa nostra epoca, certamente diversa da quella in cui egli visse, ma segnata, per molti versi, dalle stesse sfide fondamentali umane e spirituali. Proprio ieri si sono compiuti 150 anni dalla sua nascita al Cielo: erano infatti le due del mattino del 4 agosto 1859, quando san Giovanni Battista Maria Vianney, terminato il corso della sua esistenza terrena, andò incontro al Padre celeste per ricevere in eredità il regno preparato fin dalla creazione del mondo per coloro che fedelmente seguono i suoi insegnamenti (cfr Mt 25, 34). Quale grande festa deve esserci stata in Paradiso all'ingresso di un così zelante pastore! Quale accoglienza deve avergli riservata la moltitudine dei figli riconciliati con il Padre, per mezzo dalla sua opera di parroco e confessore! Ho voluto prendere spunto da questo anniversario per indire l'Anno Sacerdotale, che, com'è noto, ha per tema Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote. Dipende dalla santità la credibilità della testimonianza e, in definitiva, l'efficacia stessa della missione di ogni sacerdote.
    Giovanni Maria Vianney nacque nel piccolo borgo di Dardilly l'8 maggio del 1786, da una famiglia contadina, povera di beni materiali, ma ricca di umanità e di fede. Battezzato, com'era buon uso all'e-poca, lo stesso giorno della nascita, consacrò gli anni della fanciullezza e dell'adolescenza ai lavori nei campi e al pascolo degli animali, tanto che, all'età di diciassette anni, era ancora analfabeta. Conosceva però a memoria le preghiere insegnategli dalla pia madre e si nutriva del senso religioso che si respirava in casa. I biografi narrano che, fin dalla prima giovinezza, egli cercò di conformarsi alla divina volontà anche nelle mansioni più umili.
    Nutriva in animo il desiderio di divenire sacerdote, ma non gli fu facile assecondarlo. Giunse infatti all'ordinazione presbiterale dopo non poche traversie ed incomprensioni, grazie all'aiuto di sapienti sacerdoti, che non si fermarono a considerare i suoi limiti umani, ma seppero guardare oltre, intuendo l'orizzonte di santità che si profilava in quel giovane veramente singolare. Così, il 23 giugno 1815, fu ordinato diacono e, il 13 agosto seguente, sacerdote. Finalmente all'età di 29 anni, dopo molte incertezze, non pochi insuccessi e tante lacrime, poté salire l'altare del Signore e realizzare il sogno della sua vita.
    Il Santo Curato d'Ars manifestò sempre un'altissima considerazione del dono ricevuto. Affermava: «Oh! Che cosa grande è il sacerdozio! Non lo si capirà bene che in Cielo… se lo si comprendesse sulla terra, si morirebbe, non di spavento ma di amore!» (Abbé Monnin, Esprit du Curé d'Ars, p. 113). Inoltre, da fanciullo aveva confidato alla madre: «Se fossi prete, vorrei conquistare molte anime» (Abbé Monnin, Procès de l'ordinaire, p. 1064). E così fu. Nel servizio pastorale, tanto semplice quanto straordinariamente fecondo, questo anonimo parroco di uno sperduto villaggio del sud della Francia riuscì talmente ad immedesimarsi col proprio ministero, da divenire, anche in maniera visibilmente ed universalmente riconoscibile, alter Christus, immagine del Buon Pastore, che, a differenza del mercenario, dà la vita per le proprie pecore (cfr Gv 10,11). Sull'esempio del Buon Pastore, egli ha dato la vita nei decenni del suo servizio sacerdotale. La sua esistenza fu una catechesi vivente, che acquistava un'efficacia particolarissima quando la gente lo vedeva celebrare la Messa, sostare in adorazione davanti al tabernacolo o trascorrere molte ore nel confessionale.
    Centro di tutta la sua vita era dunque l'Eucaristia, che celebrava ed adorava con devozione e rispetto. Altra caratteristica fondamentale di questa straordinaria figura sacerdotale era l'assiduo ministero delle confessioni. Riconosceva nella pratica del sacramento della penitenza il logico e naturale compimento dell'apostolato sacerdotale, in obbedienza al mandato di Cristo: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (cfr Gv 20,23). San Giovanni Maria Vianney si distinse pertanto come ottimo e instancabile confessore e maestro spirituale. Passando «con un solo movimento interiore, dall'altare al confessionale», dove trascorreva gran parte della giornata, cercava in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai parrocchiani il significato e la bellezza della penitenza sacramentale, mostrandola come un'esigenza intima della Presenza eucaristica (cfr Lettera ai sacerdoti per l'Anno Sacerdotale).
    I metodi pastorali di san Giovanni Maria Vianney potrebbero apparire poco adatti alle attuali condizioni sociali e culturali. Come potrebbe infatti imitarlo un sacerdote oggi, in un mondo tanto cambiato? Se è vero che mutano i tempi e molti carismi sono tipici della persona, quindi irripetibili, c'è però uno stile di vita e un anelito di fondo che tutti siamo chiamati a coltivare. A ben vedere, ciò che ha reso santo il Curato d'Ars è stata la sua umile fedeltà alla missione a cui Iddio lo aveva chiamato; è stato il suo costante abbandono, colmo di fiducia, nelle mani della Provvidenza divina. Egli riuscì a toccare il cuore della gente non in forza delle proprie doti umane, né facendo leva esclusivamente su un pur lodevole impegno della volontà; conquistò le anime, anche le più refrattarie, comunicando loro ciò che intimamente viveva, e cioè la sua amicizia con Cristo. Fu «innamorato» di Cristo, e il vero segreto del suo successo pastorale è stato l'amore che nutriva per il Mistero eucaristico annunciato, celebrato e vissuto, che è divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le persone che cercano Dio. La sua testimonianza ci ricorda, cari fratelli e sorelle, che per ciascun battezzato, e ancor più per il sacerdote, l'Eucaristia «non è semplicemente un evento con due protagonisti, un dialogo tra Dio e me. La Comunione eucaristica tende ad una trasformazione totale della propria vita. Con forza spalanca l'intero io dell'uomo e crea un nuovo noi» ( Joseph Ratzinger, La Comunione nella Chiesa , p. 80).
    Lungi allora dal ridurre la figura di san Giovanni Maria Vianney a un esempio, sia pure ammirevole, della spiritualità devozionale ottocentesca, è necessario al contrario cogliere la forza profetica che con-trassegna la sua personalità umana e sacerdotale di altissima attualità. Nella Francia post-rivoluzionaria che sperimentava una sorta di «dittatura del razionalismo» volta a cancellare la presenza stessa dei sacerdoti e della Chiesa nella società, egli visse, prima - negli anni della giovinezza - un'eroica clandestinità percorrendo chilometri nella notte per partecipare alla Santa Messa. Poi - da sacerdote - si contraddistinse per una singolare e feconda creatività pastorale, atta a mostrare che il razionalismo, allora imperante, era in realtà distante dal soddisfare gli autentici bisogni dell'uomo e quindi, in definitiva, non vivibile.
    Cari fratelli e sorelle, a 150 anni dalla morte del Santo Curato d'Ars, le sfide della società odierna non sono meno impegnative, anzi forse, si sono fatte più complesse. Se allora c'era la «dittatura del razionalismo», all'epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di «dittatura del relativismo». Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell'uomo di usare a pieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose, trasformandola in una dea; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l'essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi però, come allora, l'uomo «mendicante di significato e compimento» va alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi. Avevano ben presente questa «sete di verità», che arde nel cuore di ogni uomo, i Padri del Concilio ecumenico Vaticano II quando affermarono che spetta ai sacerdoti, «quali educatori della fede», formare «un'autentica comunità cristiana» capace di aprire «a tutti gli uomini la strada che conduce a Cristo» e di esercitare «una vera azione materna» nei loro confronti, indicando o agevolando a che non crede «il cammino che porta a Cristo e alla sua Chiesa», e costituendo per chi già crede «stimolo, alimento e sostegno per la lotta spirituale» (cfr Presbyterorum ordinis , 6). L'insegnamento che a questo proposito continua a trasmetterci il Santo Curato d'Ars é che, alla base di tale impegno pastorale, il sacerdote deve porre un'intima unione personale con Cristo, da coltivare e accrescere giorno dopo giorno.

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    GLI INTERROGATORI A BERNADETTE, LA FORZA DI UN'ANIMA PURA di Antonio Tarallo
    Quando si pensa a Lourdes le immagini si affollano nella mente, soprattutto nel cuore: la grotta di Massabielle, la statua dell'Immacolata Concezione, l'acqua miracolosa, i flambeaux, le migliaia di candele accese che illuminano il luogo sacro, il verde incontaminato dei Pirenei, il fiume Gave e tante, tante altre immagini. Si potrebbe continuare ad libitum. Ma fra queste, più di tutte, ve n'è una: è il volto di una giovane con grandi occhi neri, scuri e profondi; ha un viso tondeggiante e i suoi capelli sono raccolti da uno scialle che reca sulla testa. È il volto di santa Bernadette Soubirous. È questa adolescente di appena 14 anni ad essere, assieme alla Vergine Maria, protagonista di quei fatti che sconvolsero, a partire dall'11 febbraio di 165 anni fa, la piccola cittadina francese di Lourdes: un luogo come tanti, destinato a rimanere anonimo, se Maria non l'avesse scelto per palesarsi con il titolo di Immacolata Concezione.
    UNA RAGAZZINA POVERA E IGNORANTE
    Dio sceglie i piccoli per parlare, gli umili di cuore. «In quel tempo Gesù disse: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli"» (Matteo 11,25). E così è avvenuto per santa Bernadette, che non sapeva leggere né scrivere. Bernadette doveva aiutare la sua povera famiglia perciò non c'era tempo per lo studio. Andava solo saltuariamente a scuola, nella classe delle bambine povere dell'ospizio di Lourdes, tenuta dalle Suore della Carità di Nevers. Bernadette e la sua famiglia è un capitolo che merita un particolare approfondimento in quanto riesce a fornirci alcune importanti informazioni sulla fede della giovane santa. I suoi genitori - François Soubirous (1807-1871) e Louise Castérot (1825-1866) - erano poveri e indigenti rimasero sempre: è grazie a loro se la piccola Bernadette crebbe in una fede cattolica semplice e pura, al contempo forte, determinata e coraggiosa. Il padre, alla nascita di Bernadette, faceva il mugnaio presso il mulino di Boly, ma gli affari erano tutt'altro che proficui perché François era uomo buono e generoso, sempre più pronto a donare che a ricevere. Ogni giorno un problema assaliva la famiglia Soubirous, ma in questa loro via Crucis è necessario sottolineare un elemento importante: la loro fede nel Signore era incrollabile, riusciva a superare ogni difficoltà. È questo l'humus in cui crebbe Bernadette.
    E proprio questa fede incrollabile l'aiuterà durante gli interrogatori a cui sarà sottoposta dalle autorità di Lourdes. Dopo quel famoso 11 febbraio, alla grotta di Massabielle cominciarono ad accorrere i primi "pellegrini": da ciò, gli asseriti problemi di ordine pubblico. I primi interrogatori che dovette affrontare Bernadette furono condotti dal commissario di polizia Jacomet e dal procuratore imperiale Dutour. È interessante leggere il memoriale che il procuratore stenderà del suo incontro con la giovane: «Bernadette non fu né portata, né condotta: si recò volontariamente, dietro semplice invito verbale. Quando apparve, nulla del suo aspetto esprimeva ch'ella dovesse vincere qualche ripugnanza; nessun timore da superare. La sua fisionomia era serena, fiduciosa, senza timidezza, se pur senza audacia. Ciò che le fu detto non parve causarle alcun turbamento; ciò che disse, lo disse con semplicità, nel suo dialetto, senza imbarazzo e senza che fosse necessario costringerla» (cit. in Bernadette Soubirous di François Trochu, Marietti, Torino, 1957). Quest'ultima frase - «senza che fosse necessario costringerla» - ci dice tutto: ci fa comprendere l'animo di questa giovane di fronte alle autorità. Bernadette non ha paura perché sa bene che il Signore e la Vergine Maria sono con lei. A una sua compagna di scuola, dopo gli interrogatori, Bernadette dirà: «Non ero più me stessa e non avevo paura. C'era in me qualche cosa che mi rendeva capace di superare ogni ostacolo».
    UNA SANTA CHE HA ANCORA MOLTO DA DIRCI
    I resoconti degli interrogatori - qui riproposti come il già citato volume Bernadette Soubirous di François Trochu li raccoglie - riescono ad offrire un'istantanea di quei momenti che segneranno, per sempre, la storia della Chiesa e delle apparizioni mariane. Sono pagine in cui, il più delle volte, troviamo replicato lo stesso schema: da una parte, ci sono le autorità che cercano di mettere in crisi Bernadette; dall'altra, vi è la giovane pastorella che non cade nelle "trappole". Fra i tanti esempi che si potrebbero annoverare, ne citiamo uno: è l'interrogatorio condotto dal commissario Jacomet. A un certo punto, il commissario disse: «No, tu non dici la verità. Se tu non mi dici chi è che ti ha spinta a raccontare questa storia, ti perseguiterò come una bugiarda». Pronta la risposta di Bernadette: «Signore, fate come volete».
    A 165 anni dagli straordinari avvenimenti di Lourdes, santa Bernadette ha ancora molto da dirci. Le grandi figure del cristianesimo hanno proprio questa peculiarità: pur approfondite da insigni studiosi e teologi, la loro forza comunicativa sembra davvero non esaurirsi mai. Basterebbe solo pensare alle migliaia e migliaia di pagine scritte sulla giovane pastorella. Da Le apparizioni di Lourdes narrate da Bernadette di Jean-Baptiste Estrade, testimone oculare e tra i primi storici delle apparizioni, del 1898 (prima edizione) e del 1906 (edizione definitiva), fino ad arrivare alle importantissime opere di padre René Laurentin (solo per citarne alcune, Vita di Bernadette del 1979; Lourdes. Cronaca di un mistero del 1998; Bernadette di Lourdes ci parla ancora, uscito postumo nel 2018). E poi vi è il nostrano Bernadette non ci ha ingannati (2013), di Vittorio Messori.
    Ma alla lista bisogna almeno aggiungere altri autori, come l'abate Blazy con il suo Santa Bernadetta del 1977 e come il curioso Il canto di Bernadette (del 1941) di Franz Werfel, scrittore austriaco di origine ebraica. Werfel scrisse questo romanzo - in cui «tutti gli avvenimenti notevoli che formano il contenuto del libro sono in realtà accaduti», come precisa lo stesso autore nell'introduzione - per adempiere un voto fatto alla Madonna. Werfel e la moglie, scappati dalla Parigi occupata dai nazisti, avevano trovato rifugio a Lourdes per poi trovare definitivamente la salvezza a Los Angeles, in America. La Madonna aveva ascoltato la sua preghiera.
    Nota di BastaBugie: l'autore del precedente articolo, Antonio Tarallo, nell'articolo seguente dal titolo "Vita nascosta di una santa: Bernadette nel convento di Nevers" parla della vita esemplare della santa vissuta nel ritiro del convento.
    Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 15 aprile 2023:
    Martedì 3 luglio 1866, Bernadette è davanti alla grotta di Massabielle: lo sguardo fisso a quelle rocce e nel suo cuore vi è tanta malinconia. I sentimenti della giovane Bernadette, alla vigilia della partenza per Nevers, sono tanti e hanno le stesse sfumature dei colori del cielo di Lourdes: sa bene che non rivedrà più quel paesino dei Pirenei, non vedrà più i suoi genitori, ma soprattutto non vedrà più quella grotta, dove le era cambiata, per sempre, l'esistenza. Eppure, sa bene che la strada religiosa è quella segnata dalla Vergine Maria.
    Prime luci dell'alba del 4 luglio: la giovane parte alla volta della Casa Madre delle Suore della carità e dell'istruzione cristiana di Nevers. «Signorina Bernadette Soubirous, postulante di Lourdes, di ventitré anni, entrata l'8 luglio 1866. Ammessa gratuitamente. [...] Siamo felici che la Santa Vergine si sia degnata di affidarcela», poche righe sul "Libro delle entrate" del convento di Nevers per registrare questa nuova postulante. «Finalmente lontano da tutti, sono venuta qui per nascondermi», affermerà lei qualche giorno dopo.
    Le sorelle della congregazione non erano del tutto sconosciute alla giovane Bernadette: già dalla fanciullezza erano entrate nella sua vita. Erano state, infatti, loro a istruirla a Lourdes per la Prima Comunione, le avevano insegnato il catechismo e le prime nozioni della lingua francese. E ora si trovava fra loro. Incominciava così per Bernadette un nuovo capitolo della vita che si sarebbe concluso con l'ultima pagina scritta della sua esistenza terrena. Chi avrebbe mai pensato che quella pastorella, quasi analfabeta, un giorno avrebbe visto l'Immacolata e ancora più avanti sarebbe divenuta una religiosa? Eppure il Signore aveva voluto così e lei, nella sua umiltà, aveva accettato tutto.
    Ma come era visto dalle sorelle di Nevers questo nuovo arrivo? Tutte conoscevano la sua storia, ciò che aveva vissuto prima di entrare lì, nel convento di Saint Gildard a Nevers: facile immaginare la curiosità di incontrare il suo volto; tutte le sorelle non aspettavano altro che ascoltare la voce di quella giovane che aveva parlato con l'Immacolata. Suor Lucia Clor

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=4502

    STORIA DEL VESCOVO AUTORE DI TU SCENDI DALLE STELLE di Francesco Agnoli
    "Tu scendi dalle stelle o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo": inizia così la più celebre canzone popolare di Natale, e può venir voglia di conoscere chi sia l'autore e quale sia stata la sua vita. Alfonso Maria de Liguori, questo il nome di colui che la ideò, nasce a Napoli nel 1696, da famiglia nobile e ricca. Dati i natali, la sua vita sembrerebbe già scritta: lo aspettano onori, ricchezze, potere. Suo padre nutre grandi ambizioni per il figlio, e lui ha doti non ordinarie. Studia musica, ama dipingere, si iscrive, a 12 anni, presso l'Università di Napoli, per divenire avvocato.
    BRILLANTE AVVOCATO E BUON SAMARITANO
    L'età minima, per accedere al titolo, sono i 20 anni: Alfonso viene rivestito di una toga più grande di lui, già a 16. Se l'aspirante è eccezionale, si può fare eccezione. Divenuto avvocato, Alfonso si impone una moralità ferrea, in un mestiere difficile. Nello stesso tempo frequenta varie confraternite, che lo portano per esempio a visitare i malati, i sifilitici, i derelitti del grande ospedale di Napoli, gli Incurabili. L'ingresso "nella confraternita della Visitazione portava per la prima volta il nostro brillante samaritano ad avvicinare, a incontrare, a toccare con le sue mani, ogni settimana, per anni, l'uomo a terra, spogliato, ferito, gemente nel fossato, ai bordi del suo cammino di ricco. Per otto anni si piegherà su di lui con orrore, con amore, con fede nella parola di Gesù: 'Quello che fate al più piccolo dei miei lo fate a me'" (T.R.Mermet).
    Alfonso fa parte anche della Confraternita di santa Maria della Misericordia, i cui membri sono dediti al seppellimento degli indigenti, ai preti pellegrini o stranieri, e a quelli detenuti per indegnità nelle carceri dell'Arcivescovado. Alfonso per dieci anni, dal 1714 al 1726, gira per Napoli, una volta la settimana, questuando per tutti questi. E' nel 1723, quando la carriera sembra inarrestabile, che proprio mentre si piega su un malato degli Incurabili, egli sente come una voce che lo chiama: "Lascia il mondo e datti a me". Nonostante la disperazione del padre, Alfonso segue l'ispirazione e si avvia agli studi per il sacerdozio, che sarà speso negli studi, negli scritti di morale (tra cui la Theologia moralis, La pratica del Confessore e Apparecchio alla morte), nelle missioni al popolo, nel confessionale, nelle celle dei prigionieri, tra i lazzaroni, le prostitute, i poco di buono e i peccatori di ogni genere...
    CELESTE PATRONO DEI MORALISTI E DEI CONFESSORI
    Qui, tra questa umanità dolorante, l'uomo di dottrina e di carità, acquista quella saggezza, nel trattare non solo con i malati nel corpo, ma anche con quelli nello spirito, che gli varrà il titolo, concesso da Pio XII nel 1950, di "celeste patrono dei moralisti e dei confessori". Saggezza che consiste in quel santo equilibrio con cui il santo sa affrontare il peccato: condannandolo, certamente, ma piegandosi anche con benignità ed amore sui peccatori. Alfonso è un avversario del rigorismo che trasforma la vita morale in terrorismo spirituale: confessa, esige e perdona, impone penitenze che non siano eccessive e da buon ammiratore di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paoli e di san Francesco di Sales (quello che invitava a conquistare le anime con il miele piuttosto che con il fiele), impara ad evangelizzare gli uomini con la semplicità (voleva farsi intendere anche dalle "menti di legno"), le devozioni popolari, la meditazione. Tenendosi lontano dallo zelo amaro e dall'algida moralità giansenista. Alfonso invita i confratelli predicatori a non dimenticare di inculcare il "timor di Dio", ma evitando gli eccessi, le "maledizioni", perché le conversioni vere nascono solo quando "entra nel cuore il santo amore di Dio".
    Napoli è la città giusta per lui: così piena di contraddizioni, di cultura e di miseria, di fede e di superstizione, di processioni e di bestemmie e sacrilegi... Un impasto in cui l'umanità dà il meglio e il peggio di sé, e in cui non si può raccogliere solo ciò che brilla e riluce, a prima vista.
    "TU SCENDI DALLE STELLE" E "QUANNO NASCETTE NINNO"
    Napoli è anche la città della musica che Alfonso ama sin da ragazzo (abbandonerà il suo clavicembalo solo una volta divenuto vescovo) e che sarà sempre, per lui, un modo per pregare ed istruire il popolo. Napoli è infatti la città in cui i discepoli di san Filippo Neri, inventore dell'Oratorio, frequentati da Alfonso già dal 1706, propongono di continuo concerti religiosi e 'ricreativi'; è la città in cui gli orfani "scugnizzi" sono internati nei "Conservatori", luoghi in cui, come dice la parola, devono essere custoditi e magari educati anche attraverso la musica. "A Napoli, scrive il già citato Mermet, la musica era per il popolo una seconda lingua, così questi Conservatori divennero 'gabbie di usignoli' e nel corso del XVII secolo si evolveranno progressivamente in scuole musicali".
    Da sant'Alfonso, "il più napoletano dei santi", avvocato, moralista, confessore, amico dei poveri, è nato dunque quel canto di cui si diceva all'inizio; come pure quell'altro, bellissimo, in cui i Cieli fermano la loro armonia, perché la Madonna canti la sua ninna nanna; e pure quell'altro, così dolce, in dialetto napoletano: "Quanno nascette Ninno...".

  • TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7461

    DICHIARATA VENERABILE SUOR LUCIA DI FATIMA
    Riconosciute le virtù eroiche della veggente che visse la sua chiamata alla santità fin da prima delle apparizioni della Madonna nella Cova da Iria
    di Ermes Dovico
    Ieri, 22 giugno, dopo aver ricevuto il benestare di papa Francesco, il Dicastero delle Cause dei Santi ha promulgato, tra gli altri, il decreto che riconosce le virtù eroiche di suor Maria Lucia di Gesù e del Cuore Immacolato. Questo il nome completo, da carmelitana scalza, di colei che è più semplicemente conosciuta come suor Lucia di Fatima (28 marzo 1907 - 13 febbraio 2005), che da ieri gode quindi del titolo di «venerabile», il gradino che precede l'eventuale beatificazione.
    Si può leggere come una carezza della Provvidenza il fatto che questo decreto giunga nel mese del Sacro Cuore di Gesù e a pochi giorni dalla collegata memoria liturgica del Cuore Immacolato di Maria. Una devozione, quest'ultima, che Dio ha voluto diffondere particolarmente proprio attraverso la missione affidata a Lucia, come la Madonna stessa rivelò per la prima volta alla più grande dei tre pastorelli di Fatima, quando di anni ne aveva appena dieci, il 13 giugno 1917. Allora la Santa Vergine le disse che lei, a differenza di Francesco e Giacinta che sarebbero presto andati in Cielo, sarebbe rimasta in terra «ancora per un po' di tempo. Gesù vuole servirsi di te per farMi conoscere e amare. Egli vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. A chi l'abbraccerà, prometto la salvezza, e saranno amate da Dio queste anime, come fiori messi da Me a ornare il Suo trono» (cfr. Memorie di suor Lucia, Appendice I, Testo della Grande Promessa del Cuore di Maria, scritto nel 1927).
    SIGNORE FAMMI SANTA
    Oggi sappiamo che quell'«ancora per un po' di tempo» ha significato, per suor Lucia, tornare alla casa del Padre alla soglia del 98° compleanno. Tant'è che la veggente, già nella sua maturità, ebbe a dire che la Madre celeste l'aveva sempre accontentata in tutto, tranne che nel suo desiderio di raggiungerla presto in Paradiso. Un fatto che ci dice quale nostalgia della patria eterna vivono coloro che sperimentano, già quaggiù, le realtà celesti e che ci esorta a riscoprire il senso soprannaturale della nostra vita in terra, dove siamo chiamati a scegliere Dio, anziché il peccato che ci allontana da Lui. Verità di cui il mondo odierno appare dimentico.
    Il decreto che riconosce le virtù eroiche di suor Lucia sottolinea il profondo influsso che le apparizioni ebbero sulla vita della nuova venerabile e da cui le derivarono, insieme a grandi gioie e straordinarie grazie celesti, anche «molte delle sue sofferenze». Basti ricordare qui il dolore che provò, fin dall'inizio della mariofania, per non essere creduta dalla propria famiglia, in particolare dalla madre. E non fu l'unico. Eppure suor Lucia, come scrive il Dicastero delle Cause dei Santi, «visse eroicamente la virtù della fede sia nella modalità con cui affrontò il procedimento ecclesiastico e civile relativo alle apparizioni, sia cercando di compiere in tutto la volontà di Dio e di aiutare gli altri a crescere nella fiducia in Lui. La sua lunga vita fu segnata dall'eroica speranza e dal profondo desiderio di "andare in Cielo". Volle offrire la sua vita per amore verso Dio, riparando le offese contro di Lui e crescendo nella pietà eucaristica. Ebbe anche una grande sollecitudine per l'Ordine Carmelitano, i familiari, i malati e i poveri che sosteneva con la preghiera e la penitenza, ma anche attraverso la pratica della carità».
    Se è chiaro che le apparizioni hanno rappresentato uno spartiacque nella vita di Lucia, è altrettanto chiara una verità poco sottolineata e cioè che in lei, grazie alla fede ricevuta in famiglia, si palesavano i semi di un'eccezionale vocazione alla santità già prima del ciclo angelico del 1915-16 e di quello mariano del 1917. Esemplare, in tal senso, quanto la stessa venerabile racconta nelle prime pagine della seconda delle sue quattro Memorie, tutte e quattro scritte (nel periodo 1935-41) in obbedienza al vescovo di Leiria, monsignor Giuseppe Alves Correia da Silva. Commovente, in particolare, tutta la descrizione dell'attesa e poi del giorno della Prima Comunione, che Lucia ottenne di fare, dietro una sua santa insistenza, già a sei anni. «Mentre il sacerdote scendeva i gradini dell'altare - scriveva Lucia - sembrava che il cuore mi volesse saltar fuori dal petto. Ma appena l'Ostia Divina si posò sulla mia lingua, sentii una serenità e una pace inalterabili, sentii che m'invadeva un'atmosfera così soprannaturale, che la presenza del nostro buon Dio mi diventava così sensibile come se Lo vedessi e sentissi con tutti i sensi del mio corpo. Allora Lo pregai così: "Signore, fammi santa, conserva il mio cuore sempre puro, soltanto per Te"».
    UNA PROFEZIA NON ANCORA CONCLUSA
    Fin dall'infanzia, come ricorda lo stesso decreto, la sua vita è stata quindi un cammino di costante crescita spirituale, che la portò - dopo il grande ciclo fatimita - a vivere nel silenzio e nella contemplazione le sue esperienze da religiosa, prima tra le Dorotee e poi, dal 1948, nel Carmelo di Coimbra. «Lucia si ritira nel segreto della sua clausura perché la luce del messaggio brilli con intensità», ha scritto il vescovo emerito di Leiria-Fatima, il cardinale Antonio Marto.
    Dal nascondimento della sua cella, nelle sue giornate divise tra preghiera e lavoro, suor Lucia intrattenne vari scambi epistolari. Famosa è la lettera autografa che inviò nei primi anni Ottanta all'allora semplice sacerdote Carlo Caffarra, poi cardinale, il quale, incaricato da Giovanni Paolo II di fondare e presiedere il Pontificio Istituto di Studi sul Matrimonio e sulla Famiglia, le aveva chiesto preghiere: «Padre, verrà un momento in cui la battaglia decisiva tra il regno di Cristo e Satana sarà sul matrimonio e sulla famiglia. E coloro che lavoreranno per il bene della famiglia sperimenteranno la persecuzione e la tribolazione. Ma non bisogna aver paura, perché la Madonna gli ha già schiacciato la testa».
    Quelle parole oggi si stanno rivelando in tutta la loro portata profetica, non solo per gli attacchi da parte del laicismo ma anche per quel che accade all'interno della Chiesa. Proprio la Sposa di Cristo ha l'urgenza di rilanciare il messaggio di Fatima nella sua interezza: la visione dell'Inferno, dove finiscono le anime che rifiutano fino all'ultimo l'amore di Dio; la recita quotidiana del Rosario, da cui passa la fine delle guerre; l'importanza di consacrarsi al Cuore Immacolato di Maria, rifugio sicuro contro gli assalti del diavolo; il fortissimo richiamo alla penitenza; la pratica salvifica della Comunione riparatrice nei primi sabati del mese.
    Il tutto con all'orizzonte l'annuncio della tremenda persecuzione alla Chiesa, che ancora deve compiersi. Come disse Benedetto XVI il 13 maggio 2010, nel decimo anniversario della beatificazione di Francesco e Giacinta e della rivelazione di quella che è nota come la terza parte del segreto: «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa». La Madonna ha già promesso che il suo Cuore Immacolato infine trionferà. Ma il suo trionfo, come ci ricorda tutta la vita di suor Lucia, passa da ogni nostro singolo sì alla volontà divina che Maria è venuta a rivelarci a Fatima.