Episodios

  • Il cammino di Avvento si sta per concludere, all’orizzonte la grotta di Betlemme dove nascerà il Salvatore del mondo. L’ultima tappa è lo Yemen, uno dei Paesi più poveri del Medio Oriente, sconvolto dal 2015 da una guerra civile tra le forze antigovernative della fazione Huthi e la coalizione a guida saudita con oltre 230mila morti. Per l’Onu l’80% della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, più di 4,5 milioni di persone, tra cui più di 2 milioni di bambini e bambine, sono stati costretti a lasciare le loro case. In questo camminare verso la luce di Gesù, Laura Silvia Battaglia, giornalista specializzata in Medio Oriente, corrispondente per varie testate anche dallo Yemen, fa conoscere alcune donne “costruttrici di pace”. La pace nel lungo conflitto in Yemen che ormai dura da 9 anni, la pace è donna ed ha almeno tre nomi. Uno è quello di Sumaya Ahmed al-Hussam, una donna diventata molto famosa per essere riuscita a spezzare una faida immensa tra due famiglie nella regione di Hajjah, nel nord del Paese, in due villaggi Bani Badr e Beit al-Qaidi dove 130 persone sono morte e 60 sono rimaste ferite. Lei è riuscita dopo tanti anni, dal 2012 al 2017, a chiudere questa faida tra le famiglie e a farle parlare, a creare la pace, a chiudere completamente qualsiasi forma di rivendicazione. Insieme a lei c’è Awfa Al-Naami che è diventata molto popolare perché è riuscita a fare in modo che i giovani e le popolazioni del sud dello Yemen si spogliassero il più possibile delle armi leggere e in questi anni cercassero di non portare la guerra verso i loro nemici del nord. Awfa Al-Naami che oggi non vive più in Yemen perché è stata pesantemente minacciata, oggi vive in un Paese europeo e da lì gestisce questa attività che ha due obiettivi: eliminare l’uso e la diffusione di armi leggere comprese armi di artiglieria leggera nel sud dello Yemen; l’altro è quello di riportare i ragazzi a scuola e rinsegnare loro una cultura della pace che oggi sembra assolutamente dimenticata. Tra queste donne ce n’è un’ultima che ha ricevuto, al grande summit di UNHCR a Ginevra un premio che è il “Nansen Refugee Award” per i più importanti rifugiati che si sono distinti nelle loro aree, lei ha vinto un premio per la sezione dei rifugiati in Africa e in Asia e si chiama proprio Asia Al-Mashreqi. Ha rilasciato anche una potentissima video-intervista sull’importanza delle donne nei contesti di pace, sulla protezione delle donne e dei bambini nei contesti di pace e la necessità assoluta di guardare alla società civile perché è la sola ad essere in grado di ricostruire un Paese piagato dalla guerra, di ricucire le fratture tra le generazioni. Anche monsignor Paolo Martinelli, dal 2022 vicario apostolico dell'Arabia del Sud, racconta di donne speciali come le Missionarie della Carità, restate in Yemen nonostante attacchi e uccisioni per prendersi cura degli altri. Uno dei tanti semi di speranza che qui non mancano di germogliare. La fedeltà delle suore alla loro vocazione missionaria vissuta in quelle condizioni e quella degli altri cristiani rimasti nonostante le difficoltà sono la testimonianza di amore e di una pace possibile. Infine penso all’opera silenziosa e tenace della Caritas che opera nel sud che, in questi anni difficili, assiste la popolazione con beni di prima necessità: cibo, medicine, affrontando con coraggio tante difficoltà. Infine ricordo la gioia di quest’estate a Lisbona quando ho incontrato un giovane proveniente dallo Yemen che ha potuto partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù portando la sua testimonianza di cristiano. Ecco questi segni di una grande speranza che affonda le sue radici nell’amore di Cristo.

  • Dopo il Medio Oriente e l’Ucraina, nel nostro viaggio verso il Natale, nei luoghi della terza guerra mondiale a pezzi, arriviamo in Sud Sudan. Un Paese giovane, nato solo nel 2011, che da allora vive però conflitti, divisioni interne, ed è teatro di violenze e soprusi. La pace lì fatica a mettere radici, per questo Papa Francesco nel 2019 convoca a Casa Santa Marta i leader delle varie fazioni per farli dialogare, chiedendo loro di diventare i “Padri della nazione”. C’è un accordo di pace, un governo di unità nazionale nel quale gruppi diversi lavorano insieme, ma la riconciliazione e il perdono sono strade in salita. L’Avvento in questa terra africana ha il volto di una donna, Mary, che come tante madri ha scelto di scappare in Sudan e di costruire una baracca per sé e i suoi figli come segno di rinascita. A far conoscere la sua storia è padre Lorenzo, un religioso che vive in Sudan. La storia di Mary assomiglia alla storia della Sacra Famiglia. È la storia di tanta gente che cerca posto, sicurezza e futuro fuggendo da guerra a guerra, da calamità a calamità. Mi colpisce come Mary e anche tanti altri si vogliono rialzare, vogliono ricominciare. Sì gli eventi della vita potrebbero toglierci la speranza. I pensieri neri, la depressione e la tristezza potrebbero invadere il nostro cuore. Ma in realtà attraverso questi eventi dolorosi ci viene a visitare Gesù. Gesù che viene a Natale e vuole nascere nel nostro cuore attraverso anche eventi di sofferenza. Lui ci invita ad affidarci a lui. Sì la storia di Mary è la storia di tanti che hanno imparato a rialzarsi sempre, confidando in lui che ci dice e ci ripete che è in mezzo a noi, sì lui veramente è nato. Monsignor Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, in Sud Sudan, vittima nel 2021 di un agguato criminale, spiega il senso del Natale in questo Paese. E’ una festa di popolo, della fraternità- ci dice - della gioia e della pace.  In Sud Sudan il 25 dicembre, che cade spesso in giorni feriali, è un giorno in cui la gente viene a Messa perché sente che è una festa di popolo. Quindi non viene solo la piccola comunità cattolica ma tante persone, cristiane e non, per ringraziare il dio della vita. Infatti il Natale oltre alla nascita di Gesù è anche la festa dell’inclusione, della comunione, della fraternità forse perché dicembre è il mese dell’abbondanza. È il mese dei matrimoni, delle nuove unioni che nascono perché vengono al mondo nuove vite a dare speranza alla comunità intera. Ma dicembre marca anche l'inizio del nuovo anno, con la stagione secca in cui si dovrà cercare nuovi pascoli. Allora tanta gente si sposta, ci si incontra, ancora il Sud Sudan riceve rifugiati dal Sudan. Molti di loro sono sud sudanesi che, stabilitisi in Sudan, ora ritornano. Hanno perso tutto. E in Sud Sudan trovano molto poco per poter ricominciare. Ma rimango sempre ammirato dalla forza d'animo della gente, sempre pronta a rialzarsi, non importa quanto grave sia stata la caduta, credono che la vita vada vissuta.

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  • Nel nostro cammino d’Avvento nei luoghi della terza guerra mondiale a pezzi, l’Ucraina è una tappa obbligata. All’udienza generale del 23 febbraio 2022, vigilia dell’attacco a Kiev da parte di Mosca, il Papa mostrava la sua preoccupazione per lo scenario allarmante che si stava profilando e lanciava un appello perché non si procurasse dolore alla popolazione inerme. Un appello finora caduto nel vuoto e che ancora oggi - trascorsi quasi due anni dall'inizio del conflitto - non trova orecchie pronte ad ascoltare il grido di chi implora la pace. Anche in questo inverno, seppure l'interesse mediatico sembra scemato, si muore e si soffre in quella terra. Lo racconta Oleh Klymonchuk, psicologo, operatore del Vis, Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, che fin dall’inizio del conflitto si è messo a fare la spola tra  le città e i villaggi ucraini offrendo aiuto e sostegno psicologico soprattutto ai genitori che hanno perso i figli mentre combattevano per difendere il proprio Paese. Un lavoro che guarda al futuro, a quando si dovrà ricostruire, e porta frutto solo se svolto insieme, nella condivisione e nella fraternità. Capisco che ogni persona in Ucraina percepisce questo stress, un’ansia costante di vivere in guerra, è un peso costante in ognuno di noi. Allora, perché noi dobbiamo unirci tutti insieme, vivere insieme questa guerra, perché dobbiamo lavorare e aiutare la gente a esprimere quello che prova? Perché comunque, se non possiamo fare qualcosa per far finire la guerra, dobbiamo almeno supportare gli altri. Questo è il nostro ruolo oggi, il ruolo di ognuno di noi, di ogni persona in Ucraina, specialmente il ruolo di noi psicologi che dobbiamo aiutare a condividere i sentimenti e dare supporto agli altri. Uno squarcio di speranza emerge anche dalla occante la testimonianza di padre Oleh Panchyniak, parroco della parrocchia greco-cattolica dei Tre Santi Gerarchi a Brovary, 20 km da Kiev. Racconta del figlio Nazar e del proprio cambiamento, sente infatti che le parole di Gesù in un contesto di guerra hanno per lui un significato nuovo e consolante. Il momento più difficile del mio viaggio al fronte per vedere mio figlio, che si chiama Nazar, è stato quando ci siamo salutati: capivo che stavo tornando a casa dall'inferno, e lui rimaneva in un inferno. Nazar ha perso al fronte un amico, si chiamava Andriy. Stavano facendo la formazione insieme. E, in realtà, al posto di Andriy, avrebbe dovuto partire mio figlio per la missione durante la quale Andriy è stato ucciso. È successo che sono stati sostituiti e questo ragazzo è morto. Nazar mi chiama continuamente dal fronte e dice: "Papà, ricordati che hai un quarto figlio per il quale dovresti pregare tanto quanto per noi". Quindi, sono grato a Dio, prego affinché custodisca i miei figli e tutti i Suoi figli, e sono grato perché loro si ricordano di Lui. Uno dei miei più grandi desideri è che torni dal fronte come un vero essere umano. Non è andato lì per uccidere nessuno, ma per proteggere. Purtroppo è stato già in prima linea e ha dovuto aprire il fuoco, sparare sulle persone. Quando è venuto qui a trovarmi per due o tre giorni, ci siamo seduti con lui e mi ha detto: "Papà, l'ho fatto", e io gli ho risposto: "Figliolo, ti sei preso cura di tua madre, del nostro Paese e di tutti coloro che vivono qui". Per questo il mio desiderio più grande è che tornino come persone umane, come persone erano prima della guerra. Per questo episodio un ringraziamento particolare va a Xavier Sartre e a Svitlana Dukhovech e per il doppiaggio a Alessandro De Carolis.

  • Nel primo episodio, alla vigilia dell'inizio dell'Avvento, andiamo in Terra Santa, insanguinata dal nuovo drammatico conflitto esploso con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre seguiti dai bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Giorgio Bernardelli, direttore di Asia News e esperto di Medio Oriente, ci aiuta a intravedere spiragli di luce, nell'orrore della guerra, guardandola con gli occhi di due ex-militari, uno palestinese e l'altro isreliano, impegnati nella ONG pacifista "Combatants for Peace". Jamil Al-Qassas - ex-combattente palestienese che ha perso madre, fratello e amici a causa del conflitto, ma ha scelto l’impegno pacifista - e Chen Alon che ha prestato servizio come ufficiale nell’esercito israeliano e ha poi fondato con altri militari israeliani il gruppo "Courage to Refuse", formato da ex ufficiali e soldati che si rifiutano di prestare servizio nei territori occupati. Jamil ci diceva che davanti alle stragi di Hamas del 7 ottobre per la prima volta ha sentito che non era lui la vittima e con la stessa onestà intellettuale Chen ci ha detto che quando guarda a quei bambini a Gaza, sotto i bombardamenti, non può non pensare anche a sua figlia, non può non pensare che c'è un'umanità anche dall'altra parte. È il messaggio più rivoluzionario in un momento in cui in entrambe le società l'unico coro sembra essere quello: “Guardate quanto sono animali quelli che stanno dall'altra parte”. Vanno avanti dicendo: “Noi vogliamo cessere quelli che insieme ricostruiscono, provano a rimettere in piedi questo Paese, queste società destinate volenti o nolenti a vivere insieme". Arriva proprio da Gerusalemme la riflessione di don Filippo Morlacchi, sacerdote fidei donum della Diocesi di Roma, convinto che, anche di fronte a questa nuova fiammata di odio e violenza reciproca, i cristiani abbiano il compito di seminare grazie e speranza tra quei popoli. Bisogna dire purtroppo che la situazione è molto triste, non lascia moltissimo spazio alla speranza. Sia da una parte che dall'altra ci si è molto arroccati sulle proprie posizioni. Anche tra gli amici ebrei più moderati che conoscevo purtroppo c'è stato un transito verso posizioni più oltranziste e lo stesso anche da parte palestinese, la diffidenza nei confronti degli ebrei è più radicata, più aggressiva. Certamente per costruire la pace ci vuole la giustizia. Ma per avere la giustizia quando il male si è così profondamente radicato ci vuole anche uno spazio per il perdono, per quella che, nella nostra fede, si chiama la grazia. Un'iniziativa  gratuita che va al di là del dovuto, al di là della ritorsione, al di là della giustizia riparatrice, ed è proprio un dono. Questo credo sia il messaggio della fede, ciò che viene dal Vangelo, quello che ci ha insegnato Gesù e di cui questa terra oggi credo abbia più bisogno che mai.