Episodit
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In questa puntata leggo la lettera che ho scritto a mia mamma mentre osservavo un kakejiku: "Il canto di un volo riflesso, sulle acque del lago, viene sbirciato da un mazzo di rose. Il pino su cui si posa cambia dimensione, chinandosi sottosopra. Tra l’acqua e l’aria il suo corpo di terra è una scala che collega i mondi. Perdura l’ascolto di quell’eco eterno, abbellito di piume lunghe. È come se si potesse ascoltare una trisavola che richiama il suo futuro nipote. Tra le mani, così vicino al sogno, l’aroma del tè."
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Aveva ragione Giacomo Leopardi, ne La ginestra, a sottolineare la potenza consolatrice della poesia dinnanzi all’insensatezza dell’esistenza: “Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola”. Una forma d’arte che, apparentemente, non aveva ancora del tutto rinunciato alla propria funzione consolatrice ma che, essenzialmente, ne era già consapevole. La poesia, come la danza, è un bellissimo rimedio di fronte al dolore del lutto e all’angoscia della morte, ma è destinato a fallire. Mettiamo in luce la contraddizione che si cela dietro a questo pensiero. Chi è sofferente e cerca consolazione nelle arti (o in un altro rimedio) desidera che quello che crede possa smettere di essere ciò che è (il desiderato) e diventare ciò che non è (l’ottenuto, il non-desiderato). Il desiderare, quindi, si fonda sulla convinzione che l’esser sé dell’essente sia il diventar-altro dell’essente stesso. Il desiderare, quindi, si fonda sulla convinzione che sia possibile il diventar-altro degli essenti, che sia possibile per il mortale diventare immortale. Questa è la convinzione della volontà originaria che crede che tutte le cose del mondo divengano. Tuttavia, la filosofia testimonia l’impossibilità del divenire. È, infatti, impossibile che un essente diventi altro da sé.
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Puuttuva jakso?
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Da sempre guardiamo con interesse non solo al diventar-altro delle “cose” del mondo, ma anche a ciò che ci sembra non seguire il divenire e che si rivolge all’eternità e all’incorruttibilità dell’essente. Sin dai suoi albori, l’umanità ha intessuto i suoi miti e la sua filosofia con i moti perpetui del cielo. Disegnando le costellazioni tra le stelle, suonando e danzando i cicli delle stagioni, l’umanità ha sempre contemplato l’eternità di ciò che scompare e poi riappare, come il moto del Sole. Siamo da sempre abitati da dimensioni che oltrepassano quello che vediamo solo con i nostri occhi. Sin da quando siamo bambini, infatti, abitiamo mondi che varcano le soglie della mera fattualità. Grazie alla danza butō, mi è capitato più volte di stupirmi dinnanzi a queste esperienze di “espansione della coscienza”. Rimane indelebile, nella mia memoria, quella sensazione di sprofondare al centro della terra pochi giorni prima del funerale di mia mamma. Già da sempre e per sempre, infatti, abitiamo l’eternità. C’è infinitamente altro rispetto a ciò di cui facciamo esperienza e, all’infinito, siamo destinati a fare esperienza dell’infinitamente altro.
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Come “soglia della morte”, la porta presieduta da Giano rappresenta il simbolo del passaggio e dell’iniziazione: dal profano, al sacro; dall’ignoranza, alla conoscenza; dalla mortalità, all’immortalità; dalla dualità, all’unità; dalla temporalità, all’eternità. E, si sa, nei riti di iniziazione gli iniziati devono morire per rinascere. La morte rappresenta l’apertura dello sguardo della verità, lo scostarsi dei veli delle apparenze e l’inizio della vita consapevole. Al cospetto di Giano, ora, facciamo assieme un’invocazione. Chiediamo che ci illumini rispetto alla domanda fondamentale che ci poniamo in questo podcast. Atterriti, dinnanzi alla morte, chiediamo: “Cos’è la morte?” Giano bifronte, divinità dell’inizio e della fine, ci risponderà che è impossibile indagare la morte a prescindere dall’inizio della vita. In verità, infatti, è impossibile morire se non siamo convinti anche di nascere.
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Nel Novecento si è levata la voce che ha testimoniato l’impossibilità, per l’essente, di divenire poiché, se divenisse, sarebbe necessario che ci fosse un tempo in cui l’ente è e un tempo in cui non è, ma il dibattersi dell’ente tra essere e niente si rivela contraddittorio, è impossibile, è la follia che ha caratterizzato il pensiero filosofico fino a questo momento. Infatti, gli scritti del filosofo Emanuele Severino testimoniano che pensare che una cosa “è quando è” e che “non è quando non è” significa ammettere che ci sia un tempo in cui una cosa-che-è è nulla. Il che significa ammettere che ci sia un tempo in una cosa-che-non-è-nulla è nulla. Questa è la contraddizione di fondo con cui ci dobbiamo confrontare quando indaghiamo il senso della morte. Questa, infatti, è la follia che si cela nel pensiero che testimonia il divenire delle cose del mondo: l’essenza del nichilismo. Pensando fuori dalla contraddizione, allora, le cose del mondo non possono distinguersi tra enti sensibili ed eterni, né possono essere soggette al divenire delle cose, ma devono essere, tutte, eterne, anche le più “umili” e “banali”. L’eternità non è un privilegio di alcune cose “elette”, ma è la condizione di ogni essente, di ogni istante. Allora, come accennavamo nella prima stagione di questo podcast, nascere e morire sono l’impossibile.
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Il punto cruciale toccato dalla sentenza del Sileno riguarda la nascita. Una volta nati, infatti, siamo costretti a scegliere la vita o la morte. Ma se non fossimo mai nati, non ci sarebbe la necessità di scegliere tra la vita e la morte. Solo se siamo convinti di essere nati, possiamo porci la domanda: “È meglio vivere o è meglio morire?”. Se non fossimo mai nati, invece, saremmo niente, oppure saremmo eterni. In entrambi questi due casi, quindi, se non fossimo mai nati, sarebbe impossibile vivere e morire. Se fossimo nulla, dal “ni-ente” non potrebbe nascere né morire alcun “ente”; se fossimo eterni, dall’eterno non potrebbe nascere né morire alcun eterno, poiché sarebbe già da sempre e per sempre eterno. La domanda di senso che ci poniamo dinnanzi alla morte è, quindi, una questione che tiene nel suo abbraccio il senso dell’esistenza (vita e morte assieme) e che finisce per interrogarsi, oltre che sul senso della morte, anche sul senso della nascita.
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Distogliere l’attenzione dalla morte significa distogliere l’attenzione dal senso della vita. In altre parole: la vita non può essere scissa dalla morte, così come il bene non può essere scisso dal male. Con le dovute differenze, la saggezza degli antichi testimonia che, dinnanzi alla morte, è possibile essere disinvolti come Socrate e Hoshin, lapidari come il Sileno e Solone, sofferenti e poi illuminati come Prometeo ed Epicuro. Queste testimonianze provenienti dall’antichità sono accomunate dalla domanda di senso che si pone l’umanità dinnanzi al dolore e, in particolare, dinnanzi al dolore connesso con l’inscindibile coppia morte-vita. Ponendoci questa domanda di senso, siamo invitati a cercare una risposta. Siamo, quindi, invitati a educarci rispetto al senso della morte, che è indissolubilmente legato al senso della vita.
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La death education promuove percorsi di riflessione sulla morte sul morire per elaborare il lutto e la morte in modo consapevole. È un campo di studio interdisciplinare che si concentra sull’educazione e sulla sensibilizzazione riguardo alla morte, al morire e al lutto, con lo scopo di fornire agli individui una comprensione più approfondita di questi temi, aiutandoli ad affrontarli in modo più consapevole. Ciò che propongo con i miei workshop è sperimentare laboratori di death education attraverso la danza butō e il mio metodo FÜYA. Trovo suggestivo riportare la poetica e la pratica della danza butō al momento della nostra morte. Come sarebbe trascorrere il nostro “ultimo momento” con una danza? Come sarebbe fare del nostro “ultimo respiro” il volo dell’ultima foglia d’autunno? Come sarebbe disegnare con il nostro corpo quell’ultima forma insegnata dalla danza butō, facendo come se fossimo un fiore che sboccia? Come sarebbe aprire il nostro “ultimo sguardo” su questo mondo come se stessimo spalancando una finestra sull’eternità? Queste sono alcune riflessioni che propongo ai miei allievi.
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Se Tatsumi Hijikata instilla nella danza butō la stessa oscurità ascetica che abbiamo descritto citando la Tachikawaryū, Kazuo Ohno propone una pratica ascetica incentrata sul potere rigenerativo della morte. Solitamente, infatti, la morte viene intesa come una cesura nella continuità della nostra esistenza mortale, ma per la danza butō la morte può essere considerata come un momento di passaggio e di trasformazione che ci conduce a una nuova vita, per mezzo di una forma diversa. Il mio maestro Atsushi Takenouchi, allievo di Tatsumi Hijikata e Yoshito Ohno, invita i danzatori a osservare i cicli delle stagioni. L’albero, quando muore, permette la nascita di altri organismi della foresta. I suoi elementi tornano in circolo e contribuiscono all’alimentazione di altre vite. Ogni morte, quindi, contribuisce alla vita, che prosegue in un costante ciclo di morti e di rinascite che si alimentano a vicenda. In questo senso, ogni vita è in debito con le morti che la precedono, perché ne è il frutto. La danza, per questi danzatori, è una preghiera di gratitudine che si rivolge verso l’eterno ciclo dell’esistenza.
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Con la stessa ambiguità per cui il veleno è sia letale che terapeutico, i riti sciamanici ricorrenti in molti popoli del mondo prevedono la meditazione del teschio: dalla meditazione kapalika (datata 7.000 anni fa), al San Girolamo che troviamo nei dipinti della nostre chiede, fino alla pervasività del teschio nell’iconografia in voga ancora oggi, testimoniata dalle magliette, dalle spille e dai tatuaggi che vediamo di continuo. Meditare di fronte al cadavere o al teschio, il memento mori, conduce all’illuminazione che brilla al fondo dell’orrore.
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Per raggiungere l’illuminazione, insegnano gli sciamani, bisogna innanzitutto seppellirsi nella caverna. Infatti, si dice che, per aprire il nostro sguardo, dobbiamo chiudere gli occhi nell’oscurità della terra. Lo sciamano, come il danzatore butoh, vive a cavallo tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Come gli alchimisti, gli sciamani sfidano i confini tra le cose mortali e le cose immortali. Custodendo le leggi che regolano i moti dei cieli, s’immergono in ciò che i più reputano “la fine” o, meglio, “il confine”, per tornare indietro e restituire messaggi ermetici. Per loro, l’inizio è la fine: “naturalissimum et perfectissimum opus est generare tale quale ipsum est”. Con questa meditazione alchemica, accompagnata dalle immagini dei tre uccelli alchemici (il corvo, il cigno e la fenice), comincia la seconda stagione di "Lettere a mia mamma".
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Che senso ha la morte? Damiano Fina presenta Lettere a mia mamma, un libro e un podcast in cui racconta il suo percorso di elaborazione del lutto attraverso la danza e la filosofia.
"Quando guardiamo in faccia la morte impariamo un po’ di più a vivere. Questo mi ha insegnato il lutto, ma non solo. Il dolore per la scomparsa di una persona cara è profondo, non si può nascondere e non si può annientare. Ma il dolore si può ascoltare, e allora diventa l’altro volto dell’amore, di ciò che è stato e che, non essendo più presente come lo era prima, ci manca inevitabilmente. Oggi penso che il dolore che affrontiamo quando siamo di fronte alla morte sia un’iniziazione. La morte è un’esperienza che ripristina un legame essenziale con i nostri antenati. Di fronte all’orrore per ciò che scompare ci troviamo a dover rispondere alle domande che da sempre si pone l’umanità. Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Grazie alla filosofia ho imparato che riflettere sul senso della morte ci permette di maturare nuove visioni per la nostra vita. Su questi spunti ho scritto il mio libro e questo podcast. Mi auguro che ti possa essere d’ispirazione e ti invito a visita il mio sito web. Buon ascolto!" -
Il rimedio contro l’angoscia della morte è cercato dall’umanità sin dalle più antiche danze attorno al fuoco. Più volte mi è capitato di danzare di fronte alla morte nel corso delle mie esperienze di danza butō. L’esperienza del lutto ha decisamente cambiato il mio rapporto con la morte e con il morire, rendendolo più vicino e vivido alla mia pelle. In particolare, la ricerca di un rimedio contro il dolore e l’angoscia della morte e del morire non era mai stata per me una necessità. La danza può attivare esperienze di meditatio mortis di primo livello, promuovendo la significazione della morte e del morire attraverso percorsi adatti ad ogni età, dalla prima infanzia alla senilità. La consapevolezza sulla morte e sul morire ci permette di affrontare con saggezza l’angoscia che ci assale di fronte alla nostra morte e al dolore che ci pervade durante un lutto. La danza, come meditatio mortis, ha anche la capacità di ripristinare un legame con il misterioso, il numinoso, il trascendente. Ma quale danza?
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Quando diamo un nome alla morte, ne disegniamo il volto, ne tracciamo i confini e tentiamo di coglierne i tratti fondamentali, le diamo una collocazione rispetto a un orizzonte di senso. Dare un significato a un evento significa prepararsi ad affrontarlo. Affrontare un’esperienza di cui si è letto, di cui ci hanno raccontato, di cui conosciamo gli esiti, ci aiuta ad avere degli schemi di comportamento a cui possiamo attingere nel momento della difficoltà. Dare un senso - mitico, filosofico, religioso, scientifico… - alla morte e al morire ci fornisce gli strumenti per non trovarci impreparati di fronte alla nostra morte o alla morte di una persona cara.
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In questa puntata leggo la lettera che ho scritto a distanza di due anni dal mio lutto: "Lo sguardo della famiglia è lo sguardo che ti colloca nel mondo. Una delle cose che più mi manca è il tuo modo di dire ad alta voce “Damiano”, il senso autentico che queste parole dicevano pronunciate solamente da te".
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In generale, il mortale, ovvero l’essere umano consapevole della propria finitudine, esposto a questa condizione di precarietà e fragilità, cerca un riparo per difendersi dalla vertigine dell’imprevedibile. L’imprevedibile per eccellenza è la morte, che viene addirittura rimossa dalla coscienza del mortale in funzione della propria sopravvivenza nella quotidianità. Ma l’inconscio del mortale è ben più profondo di questo rimosso, ci suggerisce la filosofia e in particolare il pensiero di Emanuele Severino. Nelle profondità del pensiero sulla morte risiede la minaccia estrema, portata in luce dal pensiero filosofico greco: l’oscillazione delle cose tra essere e nulla. La morte, infatti, viene intesa come un tornare nel nulla da cui si proviene.
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In questa puntata leggo la lettera che ho scritto a mia mamma dalla sua terra natia, la Svizzera: "E così sono andato in Svizzera, dove sei nata, con gli occhi puntati tutto il giorno in alto, sulle vette, dove scorrevano le nuvole con i voli dei rapaci. Il verde che tanto ti colpiva entrava sotto la mia pelle. L'azzurro che sovrastava tutto mi dipingeva nuovi occhi. Ogni giorno, ad ogni passo, il mio sorriso si colorava con il Sole. Ho portato con me le tue casacche da montagna".
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In questa puntata leggo la lettera che ho scritto a mia mamma un anno e mezzo dopo il lutto: "A distanza di un anno e mezzo dalla scomparsa di mia mamma, al termine di un’estate soleggiata e arsa, sono andato nella sua terra natia, in Svizzera, per seguire un corso di danza tenuto dal mio maestro di danza butō Atsushi Takenouchi. L’ispirazione artistica ricominciava ad abitare il mio mondo e stava emergendo il progetto per una nuova coreografi: Ecate".
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In questa puntata leggo la lettera che ho scritto a mia mamma rispetto al quello che sarebbe stato il suo prossimo viaggio: "A settembre saresti andata all'isola d'Elba, sarebbe stato il tuo primo viaggio, per un nuovo inizio. Così sono partito con i tuoi occhi e ho visitato tutta l'isola. Salendo sui punti più alti, dove lo sguardo può respirare. Lì ho trovato luoghi antichi, sopravvissuti all'oblio dei tempi."
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Il giorno prima di ricevere la chiamata dall’ospedale stavo ordinando casa quando, improvvisamente, trovandomi di fronte alla porta d’ingresso, sentii l’esigenza di danzare. Abitavo un luogo che conoscevo molto bene. Altre volte mi era capitato di sentire l’esigenza di danzare per connettermi con quella dimensione in cui l’interno, l’esterno e l’oltre si allineano spalancando la dimensione propria della mia danza. Eppure, in quella danza, si affacciò qualcosa di diverso, qualcosa di potente, che inibiva il movimento del corpo e mi trascinava a terra, sempre più giù. La danza può aprire una via di trasformazione del dolore del lutto.
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