Episodit
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Trieste, una donna beve il suo caffè e poi viene uccisa. Trovarsi nel posto giusto al momento sbagliato: Albina Brosolo, ha appena bevuto il suo caffè. Un'abitudine ormai consolidata e ricorrente che la donna, 77 anni, ripeteva ogni pomeriggio, prima di rincasare al termine delle commissioni di giornata. E così avvenne anche il sette novembre del 2000. Siamo a Trieste, in via Carducci, cinque minuti a piedi dal Canal Grande. La donna, quel pomeriggio, verrà trovata morta qualche ora più tardi in una delle stanze del suo appartamento. Strangolata al termine di una rapina. Ma per spiegare e risolvere quest'omicidio serviranno degli anni perché nonostante fosse da subito chiaro quanto avvenuto nell'appartamento, per risalire alla coppia che aveva adescato la vittima serviranno più di dieci anni. Il contesto in cui matura prima la rapina e poi l'omicidio come spiega Giuseppe Testai, dirigente del gabinetto interregionale per il triveneto della Scientifica con cui ripercorriamo oggi questo caso, è un contesto comune. Lei, Albina, è una donna comune che viene però presa di mira, rapinata, picchiata e infine uccisa da una coppia. Gli aggressori, un uomo e una donna, lasciarono delle impronte. La prima sul campanello della signora, la seconda su una scatola di latta da cucine. Per quest'ultima però che si rivelerà poi dirimente per risalire all'identità degli aggressori bisognerà aspettare le evoluzioni di analisi della Scientifica che nel 2012 portarono a riaprire il caso. Fino a che la Corte d’Assise d’appello ha condannato a dieci anni e otto mesi Valentina Cinquepalmi e a dieci anni Jonatha Ausili.
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Può una donna scomparire nel nulla? Samanta Fava ha 35 anni, vive a Sora in provincia di Frosinone e da qui scomparirà nel nulla. E' una donna come altre, ma diversamente dalle altre combatte da tempo un demone soltanto suo, quello della dipendenza da stupefacenti. La droga che compare nella sua vita a seguito della separazione dal marito. Così sparisce pur avendo un figlio di 11 anni a cui era molto legata. Qualche giorno dopo la scomparsa, l'ex marito e i genitori della donna presentano denuncia di scomparsa. Le indagini in un primo momento si indirizzano verso l'ambiente dello spaccio considerato appunto il pregresso della donna e il suo ritorno al consumo di stupefacenti ma sarà un'altra la verità – terribile – che si nasconde dietro a questo caso, che ripercorreremo con il commissario capo tecnico Giacomo Rogliero, funzionario alla sezione indagini elettroniche della polizia Scientifica. Samanta Fava verrà trovata un anno più tardi murata nel muro di una cantina. Picchiata fino alla morte, come accerterà l'autopsia, la donna era stata nascosta in una nicchia poi murata. Il suo corpo avvolto in dei sacchi dell'immondizia e in alcuni lenzuoli. Ma chi l'aveva uccisa e perché?
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Puuttuva jakso?
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Massacrato a suon di calci e pugni e azzannato da un cane. Fu trovato così, il 7 maggio 2020, Emauel Stoica, cittadino romeno all'epoca 38enne, sulla banchine del fiume Tevere a Roma, non lontano da Ponte Sisto. Era il tardo pomeriggio e quel pestaggio poi sfociato in omicidio fu ripreso, nelle sue parti finali da alcuni passanti che dai muraglioni sul lungotevere registrarono con i cellulari parte della scena. Quelle immagini tornarono utili alla polizia per contestare poi l'aggressione e l'omicidio a Massimo Galioto, già rimbalzato agli onori delle cronache per la morte di un giovane studente statunitense. Ma oltre a quelle immagini che tuttavia non misero a fuoco il volto dell'uomo, dirimente per risolvere il caso furono le verifiche della polizia scientifica. La vittima, Stoica, aveva una profonda ferita al cranio e la forma del livido poi formatosi era simile alla suola di una scarpa. Con Martina Torta, vice questore aggiunto Direttore della II sezione della I divisione - analisi investigativa scena del crimine della Scientifica di Roma e con il commissario capo tecnico Chiara Germani, funzionaria biologa addetta alla sezione di genetica forense del servizio polizia scientifica, scopriremo come si riuscì a collegare quell'impronta alla suola delle scarpe indossate quel pomeriggio da Massimo Galioto. L'uomo è stato condannato in primo grado all'ergastolo ma non ha mai confessato il delitto.
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Otto settembre 2003: c'è una porta socchiusa al secondo piano di via Cadorna 28, quartiere Santa Rita di Torino. Qualche condomino di quel palazzo, salendo le scale vede la porta leggermente aperta. Si ferma sull'uscio e pronuncia il nome della proprietaria di quell'appartamento ma non risponde nessuno. Allora decide di entrare e si trova davanti il corpo di Clotilde Zambrini, 73 anni, strangolata con una calza di nylon e seviziata con la punta numero 13 di un trapano.
All'inizio sembrava l'epilogo di una rapina finita male: un'anziana che viene derubata, barbaramente ferita e poi uccisa. Ma la storia è un'altra e riporterà a un vecchio caso, avvenuto nel 1997 sempre a Torino e non risolto. Un'altra donna uccisa, sempre strangolata. E sempre seviziata. Si chiamava Maria Carolina Canavese ma non c'era nulla che apparentemente la legasse alla Zambrini se non le somiglianze dei due delitti.
Con Marinella La porta, Direttore tecnico superiore del Gabinetto di Polizia Scientifica, responsabile del laboratorio di genetica forense per il Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria e con il dottor Andrea Giuliano, responsabile del laboratorio di dattiloscopia giudiziaria al gabinetto interregionale di polizia scientifica per il Piemonte e la Valle d'Aosta di Torino ripercorreremo questi due omicidi, solo apparentemente lontani ma che furono compiuti da una sola persona la cui identità è stata svelata nel 2010: a sette anni anni dall'omicidio Zambrini e a 13 da quello della Canavese. -
Loris aveva solo otto anni quando fu ritrovato senza vita in un canale nella periferia di Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa. Del bambino si erano perse le tracce e la madre, Veronica Panarello, il 29 novembre 2014 sporse denuncia di scomparsa dicendo di aver accompagnato, quella mattina, il figlioletto a scuola. Ma a scuola, confermarono le maestre, Loris non era mai entrato. Le ricerche vennero immediatamente avviate e proseguirono fino alle 16 del giorno stesso, quando un cacciatore ritrovò il cadavere del bambino gettato in un canalone. Loris fu strangolato e poi gettato, verosimilmente da un ponticello, in quel canale. All'inizio si pensò che il bambino fosse stato abusato poiché il suo corpicino fu trovato con i pantaloni leggermente scoscesi ma la verità era un'altra. Con Antonio Grande, dirigente superiore medico della polizia di stato e con Giovanni Tessitore a capo della sezione indagini elettroniche della IV divisione della polizia scientifica, ripercorriamo oggi questo caso. Ad uccidere il bambino, ricostruiranno le indagini, fu la madre, Veronica Panarello, condannata in via definitiva a 30 anni di reclusione. Ma perché lo aveva ucciso e soprattutto come fu possibile per la polizia contestare alla donna il delitto? La Scientifica per mesi lavorò a questo caso, acquisendo tutte le immagini provenienti dai sistemi di videosorveglianza pubblici e privati presenti non solo intorno alla scena del crimine ma anche nelle vicinanze della casa di Loris e lungo poi tutto il percorso che la madre del bambino compì per abbandonare il corpo. Decine di ore di video a partire dai quali, attraverso l’applicazione di una nuova tecnica investigativa, denominata “annotazione multimediale”, è stato possibile ricostruire, su una mappa geolocalizzata, una simulazione degli spostamenti effettuati dall’autovettura della Panarello il giorno della scomparsa, dimostrando che la stessa non era passata per la strada che portava alla scuola.
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Alessandro Polizzi aveva 24 anni quando nella notte fra il 25 e il 26 marzo 2013 fu ucciso da un colpo di pistola mentre dormiva a casa della sua fidanzata, Julia Tosti, di quattro anni più giovane. Un uomo si introdusse nel cuore della notte nell'appartamento di via Ettore Ricci, a Perugia. Aveva il volto travisato e guanti di lattice alle mani. Sfondò la porta e si diresse subito nella camera da letto dove i due giovani dormivano. I ragazzi si svegliarono di soprassalto ma quell'uomo estrasse una pistola ed esplose un colpo che raggiunse Polizzi e ferì la sua ragazza. Poi l'aggressore si dileguò ma perché aveva firmato quell'agguato? Nella fuga l'uomo abbandonava la pistola sul posto, probabilmente scivolata via in seguito alla reazione del 24enne che, prima di cadere in terra, provò a difendersi. Sul posto quella notte si precipitò la polizia. La Scientifica rinvenne l'arma e diverse tracce ematiche non solo delle vittime. Dall'analisi di quei "dettagli" fu estrapolato un profilo genetico riconducibile a Riccardo Menenti e anche sul calcio della pistola furono trovate tracce biologiche riconducibili alla vittima e all'aggressore. Ma chi era Riccardo Menenti e perché aveva firmato quell'agguato che lo ha portato ad essere condannato all'ergastolo, in tutti e tre i gradi di giudizio? A rispondere a questa domanda e a ricostruire il macchinoso lavoro di analisi, verifica e confronti è la dottoressa Alessandra La Rosa, primo dirigente della Scientifica.
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Carla Molinari aveva 82 anni quando fu trovata uccisa, nella sua camera da letto, a Cocquio Trevisago, un piccolo Comune in provincia di Varese. Fin da subito la polizia dovette lavorare duramente per spiegare non solo il delitto ma un preciso mistero: la donna era stata mutilata delle mani, che non furono mai più ritrovate. Si pensava fosse rimasta vittima di una rapina finita male ma quest’ipotesi fu esclusa quasi subito. Nella villetta che la donna viveva da sola, non essendosi mai sposata, non mancava nulla. Era il 5 novembre 2009: quel pomeriggio la signora Molinari, come ogni settimana, sarebbe dovuta andare a giocare a carte con delle amiche che, non vedendola arrivare, si insospettirono. Prima ancora del suono delle sirene di polizia e ambulanza, a rompere la tranquillità di un piccolo Comune di provincia furono le urla di chi, cercando la donna si imbatte nel suo cadavere. Nel corso del sopralluogo la polizia repertò alcuni mozziconi di sigaretta, tutti di marche diverse. Condizione questa che risultò fin da subito strana, poiché nell’abitazione non era stato trovato alcun posacenere. E questo perché, come emerse poi da alcune testimonianze, la vittima non fumava e non consentiva a nessuno di fumare all’interno della propria abitazione. Di chi erano allora quei mozziconi? E perché furono trovati in diverse stanze? Ma soprattutto perché alla donna furono tagliate le mani? Dopo mesi di indagini serrate fu arrestato un uomo, poi condannato in via definitiva all’ergastolo. Si chiamava Giuseppe Piccolomo. Con il dottor Roberto Giuffrida, della polizia Scientifica di Milano, ripercorriamo questo mistero d’Italia, poi risolto grazie anche all’analisi di tracce e dettagli trovati sulla scena del crimine.
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Il delitto perfetto non esiste: parlano i corpi delle vittime e parlano anche le scene del crimine. Ma soprattutto vale un principio: chiunque entri in posto o tocchi qualcuno lascia una traccia di sé e si porta via qualcos'altro. A ricordarcelo fu, nella precedente stagione di Tracce - un podcast de Il Messaggero su casi riaperti e risolti grazie all'analisi dei dettagli - un'investigatrice che riassunse il pensiero del criminologo francese Edmond Locard: "Chi commette un crimine lascerà sempre sulla scena qualcosa di sé". In questa nuova stagione racconteremo otto casi, delitti e misteri d'Italia non sempre elevati agli "onori" delle cronache nazionali ma importanti a spiegare quanto e come l'investigazione classica unita a quella scientifica può arrivare a spiegare il chi ed anche il perché.
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Sono le 19.30 del 26 novembre 2010 quando a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, una ragazzina di 13 anni cammina sotto la neve. Sta tornando a casa dopo aver portato alla scuola di danza un registratore. Di lei quel pomeriggio si perderanno le tracce: scomparsa nel nulla. Nessuno la vede, nessuno la sente. Tre mesi più tardi il suo corpo verrà trovato in un campo lontano circa 12 chilometri dal luogo della scomparsa. Non ci sono dubbi che sia lei anche se il tempo, la neve, la pioggia e i roditori ne hanno brutalmente distrutto l'immagine. Come ci è finita lì, in quel campo, Yara? Le indagini coordinate dalla Procura di Bergamo saranno condotte dal Ris di Parma e dal colonnello Giampietro Lago, oggi a capo del Reparto delle investigazioni scientifiche dell'Arma dei carabinieri. Le verifiche e le ricostruzioni saranno lunghe e complesse ma attraverso una raccolta di tracce biologiche ed ematiche da parte di oltre 20 mila persone, che a titolo volontario si misero a disposizione per rintracciare l'assassino, si arriverà alla svolta. Sul corpicino di Yara il suo carnefice aveva lasciato delle tracce ma per mesi è rimasto solo "Ignoto 1". Fino a che, però, proprio grazie ad un confronto mastodontico e una ricerca sempre tesa al risultato si arriverà a fermare e ad arrestare Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all'ergastolo.
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Era una domenica, quel 12 settembre 1993, quando da Potenza, una giovane ragazza di appena 16 anni, Elisa Claps, scompare nel nulla. Il suo corpo verrà trovato 17 anni dopo nascosto nel sottotetto della chiesa Santissima Trinità nel capoluogo della Basilicata. Le ricerche e le indagini partirono a poche ore dalla scomparsa e nonostante gli anni, l'uomo considerato il suo assassino, Danilo Restivo, è stato condannato in via definitiva. Ma per ricostruire il caso fu necessario dissipare un porto di nebbie, sostituire periti e ripartire con le indagini da capo. Quando il corpo fu trovato, di esso non restava altro se non un cumulo di ossa e capelli. Anche i vestiti si erano quasi completamente deteriorati, e per analizzare le tracce sulla maglia che la ragazzina indossava quel giorno, il lavoro fu complicatissimo: toccare le fibre per gli investigatori significava restare con un pugno di polvere in mano. Ma il Ris di Parma, guidato oggi dal colonnello Giampietro Lago, riuscirono a trovare elementi sufficienti ad accusare Restivo della morte. Proprio Lago effettuò le indagini e ripercorre oggi un caso, tra i più noti e conosciuti d'Italia. Un mistero durato 17 anni che tuttavia sarebbe potuto essere risolto in pochissimo tempo.
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A cinque giorni dalla scomparsa di Francesca Benetti, a Gavorrano, in provincia di Grosseto arrivarono i carabinieri del Ris di Roma. Era il 9 novembre 2013 e di quella donna, all'epoca 55enne, si erano perse le tracce da cinque giorni. Nessuno l'aveva più sentita dalla mattina del 4 novembre ma i militari del Nucleo Investigativo del comando provinciale di Grosseto iniziarono subito a sospettare - in base alla denuncia presentata dal compagno della donna - che nella scomparsa fosse coinvolto il fattore della tenuta Benetti, Antonio Bilella. Il suo coinvolgimento che porterà l'uomo ad essere condannato all'ergastolo verrà accertata anche dalle analisi e dalle verifiche del Ris di Roma. Questa è la seconda ed ultima puntata su un caso che sconvolse il grossetano: il corpo della Benetti non fu mai ritrovato. A raccontare oggi l'attività investigativa scientifica è il Maggiore Cesare Rapone, del Ris di Roma
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Francesca Benetti era un'insegnante di educazione fisica e quando scomparve nel nulla aveva 55 anni. Una donna di cultura, di bell'aspetto che dopo la scomparsa del marito si trasferì a Follonica dalla Lombardia. Aveva due figli, un nuovo compagno e una proprietà con 40 ettari di terreno ereditata in provincia di Grosseto. Da qui scomparve la mattina del 4 novembre 2013. Di lei non si è saputo più nulla né si è mai ritrovato il corpo. All'anagrafe di Follonica è ancora registrata come "persona scomparsa" ma un uomo, Antonio Bilella, di circa vent'anni più grande di lei è stato condannato in via definitiva all'ergastolo per il suo omicidio. In questo nuovo podcast di "Tracce" racconteremo con il Nucleo investigativo del comando provinciale di Grosseto quella misteriosa scomparsa e i protagonisti rimandando ad una nuova puntata le analisi compiute dal Ris di Roma in quella tenuta e non solo che servirono a suffragare l'impianto accusatorio dei confronti del Bilella, all'epoca custode della proprietà, che dopo essersi innamorato della donna e dopo esser stato rifiutato premeditò accuratamente il suo omicidio e l'occultamento del cadavere, tutt'oggi ricercato.
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E' passato alla storia come il delitto di Novi Ligure compiuto da due adolescenti, Erika De Nardo e Mauro Favaro detto Omar, che in una sera d'inverno - era il 21 febbraio 2001 - uccisero barbaramente la madre e il fratellino di lei. C'è un numero a sintesi dell'efferatezza mostrata dalla giovane coppia di fidanzatini: è il numero 97. Tante le coltellate che complessivamente furono inferte alle vittime. da allora sono passati 21 anni, via Don Beniamino Dacatra non si chiama più così, il suo nome oggi è via Caduti di Nassirya come se in un certo qual modo si sia voluto - o anche solo provato - a cancellare il ricordo di quella strage. Una strage, come ripercorre oggi il colonnello Giampietro Lago a capo del Ris di Parma, il reparto delle investigazioni scientifiche dell'Arma dei Carabinieri, maturata all'interno di un contesto sociale apparentemente “sano” e probabilmente proprio per questo difficile da spiegare. Dirimenti all'epoca furono le indagini del Ris sulla scena del crimine che per la prima volta, nella storia delle investigazioni scientifiche, adottò una particolare tecnica di analisi per accertare le singole responsabilità dei due fidanzatini durante quella feroce mattanza.
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Roma, quartiere Prati: il delitto dell'orafo Giancarlo Nocchia. Il pomeriggio del 15 luglio 2015 il gioielliere Giancarlo Nocchia, 70 anni, era nel suo laboratorio in via dei Gracchi. Stava sistemando dei conti e dei preziosi quando quello che sembrava un cliente bussò alla porta. L'orafo aprì ma dopo pochi minuti fu barbaramente aggredito e colpito alla testa con un oggetto che non fu mai trovato. Una violenza feroce che non gli lasciò scampo. Quel presunto cliente era un rapinatore, Ludovico Caiazza, 33enne all'epoca dei fatti, che già vantava un corposo curriculum criminale. Dopo l'aggressione il Caiazza fuggì con la refurtiva: bracciali, orecchini, collane per un valore complessivo di 200 mila euro. Il rapinatore, tuttavia, compì dei "passi falsi" disseminando le sue impronte sulla vetrina all'ingresso del negozio. Grazie a quelle tracce, esaminate dalla sezione impronte del Ris di Roma, i carabinieri del comando provinciale riuscirono a fermare e ad arrestare l'uomo appena tre giorni più tardi. Caiazza però non fu mai processato poiché si tolse la vita in carcere. A ripercorrere quel delitto, che sconvolse un intero quartiere della Capitale, è oggi il tenente colonnello Giampaolo Iuliano, comandante della sezione impronte del Ris di Roma
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E' il pomeriggio del 4 agosto 1989 quando Giuseppe Carretta, contabile di una nota società di Parma, varca la soglia del magazzino per prendere alcune scatolette di tonno per la cena. La sua famiglia è pronta a partire per le vacanze estive ma il figlio più grande, Ferdinando, gli spara uccidendo poi anche la madre e il fratello più piccolo. Il carnefice, all'epoca ventisettenne, metterà i corpi dei suoi familiari nella vasca da bagno per pulirli, provando poi a seppellirli tra gli argini del fiume. Non ci riuscirà poiché verrà disturbato da una coppietta che si era appartata in auto. Così cambierà piano e abbandonerà i corpi dei suoi genitori e del fratello minore in discarica: i loro resti non verranno mai ritrovati. Ferdinando Carretta si dà alla fuga e per un decennio vivrà nel Regno Unito fino a quando verrà arrestato, dopo un controllo, e una confessione spontanea resa alla stampa che riaprirà il caso. Ed è così che i militari del Ris di Parma, il reparto delle investigazioni scientifiche dell'Arma dei Carabinieri, torneranno in quell'appartamento degli orrori e smonteranno, pezzo dopo pezzo, il bagno per trovare le tracce utili ad avvalorare la confessione di Ferdinando Carretta. A ripercorrere il caso è oggi il Colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma.
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Quattro anni fa e il ricordo di un orrore che non tende a affievolirsi. E' ancora tutto lì: negli occhi e nella memoria di chi varcò la soglia di quel cancello arrugginito chiuso dai lucchetti nel cuore del quartiere San Lorenzo, a Roma, la notte del 18 ottobre 2018 scoprendo il cadavere di una 16enne lasciata morire dopo ripetuti abusi sessuali e un mix di droghe di cui non si ha traccia neanche in letteratura scientifica. "Un girone dantesco" dentro cui "nessun investigatore vorrebbe trovarsi" ricorda oggi la dottoressa Pamela Franconieri, a capo della IV sezione della Squadra Mobile di Roma, specializzata in reati sessuali. Desirée era un'adolescente con i suoi problemi e le sue paure. Era scappata di casa da Cisterna di Latina, una cittadina a 70 chilometri dalla Capitale, arrivando in via dei Lucani 22 dove, in un complesso edilizio abbandonato, ma protetto da alti muri e cancelli invalicabili, fiorente andava avanti da tempo un'attività di spaccio e consumo di stupefacenti. La sedicenne varca quel cancello e da lì non ne uscirà più. Con la dottoressa Franconieri si ripercorrono oggi le tappe di quel delitto, i dettagli e le tracce, le testimonianze che portarono poi gli agenti della Mobile ad arrestate quattro uomini che saranno processati e condannati per la morte della ragazzina.
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Diciassette omicidi e un tentato omicidio "collezionati" nell'arco di pochi mesi, tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998, che sconvolsero il Paese. Perché il Liguria e più in generale nel basso Piemonte, si capì che era entrato in azione un killer seriale. Tra le prime vittime ci furono delle prostitute ma poi la scia di sangue si allargò inspiegabilmente a bordo dei treni, seminando il panico. Perché a morire senza un perché (non ce n'è mai uno in realtà tale da sopportare e giustificare un omicidio) fu una baby-sitter e un'infermiera. A pochi giorni dall'ultimo efferato delitto, il killer delle prostitute o il mostro del treno, come fu soprannominato, venne arrestato. Si chiamava Donato Bilancia e a ricondurci oggi sulle tracce di quei delitti, di come furono compiuti e di come si arrivò alla svolta, è il colonnello Giampietro Lago, a capo del Ris di Parma.
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Sembrava essere stato un agguato di ‘ndrangheta: sette colpi esplosi da due pistole che la sera del 15 dicembre 2015 ferirono a morte nella piccola località di Longobardi, nel Vibonese Francesco Fiorillo, un uomo che però non era “affiliato” a nessuna famiglia. Fiorillo spacciava droga di fronte al liceo classico di Vibo Valentia ma era solito anche irretire minorenni. Ed è qui che si annida il movente di un brutale omicidio. A ripercorrere quel caso, che fu in parte risolto anche grazie ad un guanto di lattice trovato sulla scena del crimine, è il dottor Gianni Albano, capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia
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Quartiere di Torpignattara, in via Alò Giovannoli ancora oggi qualcuno ricorda quel bagno di sangue, un duplice omicidio tra i più crudeli avvenuti nella Capitale perché ad essere ammazzati, durante una rapina, furono un commerciante cinese Zhou Zeng e sua figlia Joy di appena nove mesi. Morirono sul colpo dopo che uno dei rapinatori, estratta una pistola per intimidire e spaventare, sparò ferendoli a morte. La mattanza di Torpignattara fu chiamata così. A poche ore dal delitto si ipotizzò di tutto, addirittura che dietro questa rapina ci fosse la mafia cinese considerata la nazionalità delle vittime e anche il quartiere dove si consumò il duplice omicidio. Ma nulla di tutto questo: si trattò di una rapina finita in tragedia. A ripercorrerla oggi è il tenente colonnello Giampaolo Iuliano, a capo della Sezione "Impronte" del Ris dei carabinieri di Roma. A essere ripercorsa tutta l'attività investigativa che tramite un'intuizione e l'analisi di alcune tracce di sangue portò ad identificare gli artefici.
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Era un ferroviere in pensione, Antonio Schiesaro, trovato seminudo e riverso sul letto del suo appartamento a Verona il pomeriggio del 29 maggio 2001. L'uomo era stato ucciso diverse ore prima con delle forbici trovate poi nel bagno dentro una bacinella con acqua e candeggina ma per individuare il suo assassino ci vollero vent'anni. Perché Schiesaro fu ucciso? Nel 2001 avrebbe dovuto compiere 70 anni, non era sposato né aveva figli. A riempire la sua vita erano degli incontri occasionali con uomini a cui offriva oltre al denaro, anche vitto e alloggio, conosciuti nei giardini di fronte alla stazione. A dare l'allarme all'epoca fu la collaboratrice domestica di Schiesaro che bussando senza ricevere risposta, quel pomeriggio, allertò le forze dell'ordine. Le indagini furono condotte dalla Squadra Mobile di Verona che riuscì a rintracciare l'assassino dopo vent'anni grazie anche all'istituzione della banca dati del Dna e all'evoluzione delle tecniche di analisi e di verifica della polizia Scientifica. Oggi a ripercorrere quel brutale omicidio è il dottor Massimo Sacco, dirigente della Squadra Mobile di Verona.
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