Episodes
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L’attenzione ricevuta dalla stampa internazionale e l’occasione degli ultimi summit europei prima della fine dell’anno impongono una riflessione sull’Italia. Oltre la fragilità di Francia e Germania, oltre i governi e le leadership, l’interesse nazionale italiano è riconducibile a poche priorità strutturali e tutte partono dalla stabilità del Mediterraneo e del nostro estero vicino. Posta la nostra appartenenza a un’Alleanza ben definita, il nostro è un interesse nazionale unico, non sovrapponibile a quello americano. Richiede pertanto un’arte del negoziato bilaterale prima con Washington, poi, necessariamente, anche con Mosca e Pechino.
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La Siria post-Assad è un paese frammentato tra attori locali e occupato da potenze straniere, tutti armati e interessati a partecipare al negoziato per i nuovi assetti territoriali. Hayat Tahrir Al-Sham (HTS) di Al Jolani guida la transizione a Damasco, ma al di là dei dubbi tentativi di accreditamento internazionale, un processo politico inclusivo e indipendente sembra difficile. Le minoranze etniche religiose (alawiti, cristiani, sciiti, ismailiti, drusi, curdi) sono gelose della propria autonomia rispetto alla maggioranza sunnita e il rischio che le tensioni sfocino in conflitto aperto resta alto. In un momento così fluido, l’influenza della Turchia è massima. Oltre alle sue specifiche mire anti-curde, Ankara conduce il negoziato regionale e fa da intermediario fra HTS e gli Stati Uniti (presenti a sostegno dei curdi e contro l’ISIS, chissà ancora per quanto con Trump) e fra HTS e la Russia per il futuro delle sue basi militari nel Mediterraneo. Intanto Israele, dopo aver provocato l’uscita dell’Iran, si costruisce da solo la sua zona cuscinetto.
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Episodes manquant?
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Forti dell’indebolimento della presenza militare delle forze filo-iraniane (dai pasdaran a Hezbollah) a causa della guerra contro Israele, i ribelli siriani antigovernativi sostenuti dalla Turchia hanno dato fuoco alle polveri, riaccendendo il conflitto civile nel nord-ovest della Siria. Un paese che è microcosmo di un Grande Gioco in cui si scontrano gli interessi delle maggiori potenze al mondo e di due ex imperi. La presa di Aleppo insieme all’offensiva territoriale verso sud e verso est da parte dei ribelli sunniti jihadisti probabilmente non riuscirà a scardinare il regime di Bashar al-Assad sostenuto da Russia e Iran, ma dimostra come i due sponsor non siano più in grado di assicurare protezione al dittatore siriano perché distratti da altre priorità, fra Ucraina e Medio Oriente. Un pericolo per la sopravvivenza al potere di Assad che potrebbe finalmente accettare il negoziato che il presidente turco Erdogan gli propone da mesi e che riguarda l’allontanamento delle forze siriane del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) dal confine fra nord-est siriano e Turchia, area di giacimenti petroliferi dove permangono ancora soldati americani come spina nel fianco di Teheran.
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“Concentrarsi sulla minaccia iraniana” è la prima ragione con cui Netanyahu ha motivato al popolo israeliano il raggiunto cessate il fuoco nel sud del Libano. “Farò di tutto per impedire all’Iran di ottenere armi nucleari, è la mia massima priorità” ha aggiunto. La corsa all’atomica e i negoziati sul programma nucleare dell’Iran sono infatti ripresi di pari passo, dopo che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha scoperto che Teheran ha superato di oltre 32 volte il limite di uranio arricchito stabilito dall’accordo sul nucleare promosso da Obama nel 2015. Un accordo oggi considerato defunto da tutte le parti. La Repubblica Islamica prova quindi a mantenere un margine negoziale in preparazione all’arrivo di Donald Trump, il quale premerà sull’attuale fragilità del regime iraniano (al suo interno e nella regione) per spingere Teheran, forse, a un nuovo accordo. Mentre Cina e Russia si stringono in sua difesa, ma non così tantocomepensiamo.
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Più che un vuoto di potere, in Germania c’è un vuoto di potenza. La stagnazione economica combinata alla crisi di governo in corso porterà a elezioni il paese un tempo più stabile d’Europa, col rischio di trascinare l’intero continente con sé. Com’è stato possibile? La logica economica guida Berlino dalla fine della guerra fredda, ma oggi le fondamenta su cui è stato costruito il modello tedesco sono venute meno. Il gas russo non c’è più, il mercato cinese dove esportare il surplus tedesco ha rallentato e la sicurezza militare garantita dagli americani vacilla. Ma la leadership di Berlino manca ancora degli strumenti culturali per comprendere che nel nuovo disordine globale la difesa prevale sul mercato e sul pareggio di bilancio. Al punto che, in un vortice di contraddizioni, Scholz che è prossimo a essere sfiduciato, chiama Putin. Dopo due anni di silenzio, con Trump in arrivo alla Casa Bianca e Biden che dà il via libera a Kiev per l’uso di missili americani a lungo raggio per colpire il territorio russo.
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Mentre da Mar-a-Lago la prossima amministrazione sforna nomine di peso sugli esteri e sulla sicurezza nazionale e s’inventa un dipartimento ad hoc per Elon Musk, il primo dossier su cui Donald Trump prova già a mettere le mani è la fine della guerra in Ucraina. Ben poco si conosce del suo piano di pace, ma il negoziato per un cessate il fuoco durevole non coinciderà con la “pace giusta” che Kiev si auspica. Di certo le trattative saranno lunghe e complicate: chi garantirà militarmente per l’Ucraina se Trump vuole riportare i soldati americani a casa e i governi europei non hanno difese adeguate nemmeno per proteggere i propri territori? Al Cremlino Putin attende le proposte di Washington con sentimenti contrastanti: a Mosca il timore è che se con un cessate il fuoco si distendono i rapporti con l’Occidente, Pechino potrebbe non prenderla molto bene.
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Trump stravince il voto popolare intercettando la rabbia e le paure della classe media statunitense. Quella che adesso gli chiede di salvare il sogno americano da un declino percepito come inesorabile. Il realismo del presidente neo-eletto dovrà però ricucire le ferite di un’America spaccata che chiede benessere, protezione e sicurezza, mentre fuori il mondo impazza e tende a trascinare gli Stati Uniti in un vortice più eccezionale di loro. Ma può Trump vincere le sfide interne ed esterne che lo attendono, restando fedele alla promessa di far tornare l’America grande? E come?
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Il prossimo presidente americano avrà metà America contro e non riuscirà a riportarla all’unità. La polarizzazione fra le anime degli Stati Uniti (che non è solo politica fra democratici e repubblicani) riflette concezioni contrapposte dell’American way of life che si disprezzano fra loro. Questo malessere in America dura da anni ed è, fra le altre cose, figlio del ruolo di egemone che gli USA hanno assunto da più di 30 anni – con la fatica, gli errori, l’ideologia e le sbagliate convinzioni che hanno accompagnato la sua missione universalistica. Disfunzionalità che oggi limitano la formulazione di una strategia americana coerente nei dossier di politica estera, un’impasse che diventa inaffidabilità per gli alleati e i partner e opportunità per i rivali che insidiano il primato americano nei suoi punti più deboli.
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Nel momento più fragile per il potere americano, ovvero a pochi giorni dalle elezioni presidenziali, si moltiplicano i tentativi di interferenze. Alcune sono interne, come la fuga di notizie di documenti top secret del Pentagono (difficilmente voluta da Washington) sui piani di attacco israeliano all’Iran che mostrano un apparato statale permeabile a spie, hacker o potenze ostili. Altre sono esterne e di più ampio respiro, come il summit dei BRICS in corso a Kazan, in Russia. Qui Mosca e Pechino provano a convincere anche paesi alleati o amici di Washington che il sistema internazionale guidato dagli Stati Uniti sta fallendo e che, soprattutto, va eroso, a partire dalla riduzione della dipendenza dal dollaro. E talvolta ci riescono pure.
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10 mila caschi blu (tra cui oltre 1000 soldati italiani della Brigata Sassari) si trovano ora in un’area del Sud del Libano dove il cessate il fuoco ha ceduto il passo allo scontro aperto. In questione è il mandato che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato per la missione Unifil: le attività dei peacekeepers sono legate al debole esercito libanese e non possono usare la forza se non per autodifesa. Ma la guerra fra Hezbollah e lo Stato Ebraico già impervia: le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro basi Unifil, Netanyahu ci chiede di toglierci di mezzo, il Segretario dell’ONU Guterres si rifiuta e Meloni vola in Libano in cerca di garanzie di sicurezza. Intanto tutti i delegati delle 49 nazioni coinvolte nella missione protestano al Consiglio di Sicurezza, l’unico organo che potrebbe cambiare le regole di ingaggio, ma che difficilmente lo farà perché è in un’impasse. Vi raccontoperché.
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A un anno dal 7 ottobre, la guerra per l’esistenza di Israele ha tanti volti, tutti reali e tutti contraddittori. Per lo Stato ebraico è ancora una guerra difensiva ed esistenziale che secondo il premier israeliano Netanyahu è un po’ la stessa cosa (“dalle nostre parti, se non ti puoi difendere non puoi esistere” ha detto all’Onu). Nel concreto, però, i piani militari prevedono offensive a sud (Gaza), a nord (Libano) e a est (Cisgiordania) per ampliare i confini di Israele ed eliminare l’accerchiamento di attori e milizie ostili – Hamas, Hezbollah, Houthi – parte di quell’Asse della Resistenza costruito dall’Iran negli ultimi 40 anni. È una scommessa pericolosa. Certo del sostegno degli Stati Uniti, Israele rischia di precipitare in una guerra senza fine contro la Repubblica Islamica, potenza regionale sempre più vicina a Russia e Cina. E senza avere in mente come fare la pace.
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La NATO com’è oggi non basta più. 75 anni fa era nata per “tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto” secondo le parole di Lord Ismay, primo Segretario Generale. Ma oggi gli Stati Uniti pensano a espandere la difesa comune agli alleati dell’Indopacifico per bloccare la Cina. Mentre i paesi europei vedono allontanarsi la copertura americana senza essere pronti a proteggersi da soli. La soluzione, allora, più che l’allargamento – col rischio di quinte colonne interne (vedi l’Ungheria di Orbán che si defila dall’aiuto all’Ucraina) – potrebbe essere la ripartizione delle aree di competenza nel contenimento della massa euroasiatica, riorientando il futuro dell’Alleanza verso i nostri interessi.
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Da studentessa in Sorbona ho visto sorgere il sogno macroniano. Oggi assistiamo al tramonto della sua formula centrista. La Francia è un paese sempre più polarizzato fra estrema destra ed estrema sinistra e il rischio di scontri e proteste di piazza è alto. Per due vie opposte, la crisi sociale ed economica è entrata nelle istituzioni e le sta conducendo allo stallo. Con un parlamento appeso e un presidente indebolito, considerato voce arrogante di quella élite non in contatto con la gente comune. Cittadini che si sentono declassati, sfiduciati, e che in parte temono un attacco alla propria identità nazionale. E quando lo Stato è debole, il protagonismo internazionale, la “grandeur” francese soffre.
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Il nuovo volto dell’Unione Europea non verrà deciso questi giorni a Bruxelles. Anche perché se tradizionalmente politici e funzionari sono ben capaci di giocare al risiko dei nomi per la prossima Commissione, non lo sono affatto alla definizione di una strategia europea. Ma cos’è nel nostro interesse? Gli Stati Uniti, nostro principale alleato, pare lo sappiano bene: per la prima volta ci vogliono più autonomi, armati e pronti a difenderci da soli. E pure ostili a Russia e Cina. Due potenze che con la guerra in Ucraina, la penetrazione nel mercato europeo e l’intrattenimento di legami speciali con singoli Stati membri, invece, attentano alla coesione interna perché certi che un interesse comune europeo, in realtà, non potrà mai esistere. Â
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Nei rapporti fra potenze esiste un canale di dialogo noto come «diplomazia della violenza». Non è esattamente quello che sta avvenendo fra i tre grandi della Terra in questi giorni, ma quasi. Le dimostrazioni sulla disponibilità all’uso della forza sono aumentate. È successo ad esempio con l’attracco di un gruppo navale russo, incluso un sottomarino a propulsione nucleare, a Cuba, cortile di casa e storico tallone d’Achille degli americani perché fuori dalla sfera di influenza a stelle e strisce. Russi e cinesi si sentono insidiati da Washington rispettivamente in Ucraina e a Taiwan, spazi che Mosca e Pechino considerano casa loro. Presentandosi a Cuba - i primi con navi da guerra e i secondi, forse, con spie - restituiscono le attenzioni ricevute.
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Cominciano gli Europei 2024 in Germania. E noi tutti tiferemo gli azzurri che proveranno a difendere il titolo conquistato nel 2021. Perché appassionati o no, il calcio resta un fattore identitario, specialmente nei paesi europei, ma con una forza di proiezione universale. Forse uno dei pochi strumenti di soft power mai davvero «made in USA». Uno sport che solletica i cuori, le tasche, i mercati e pure le ambizioni delle superpotenze. Al punto che la Cina, forse credendoci un po’ troppo, ha adottato una strategia ben precisa per scalarne la vetta. Così la Russia, che fra oligarchi e Mondiali ha pensato di fare del campo da gioco un terreno di incontro diplomatico, guerra in Ucraina a parte.
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A Roma le redazioni dei giornali, le tv e i palazzi del potere sono in fermento. Tutti aspettano i risultati del voto europeo per capire quale testa salterà e quali saranno le nuove nomine. In pochi si chiedono se cambierà davvero qualcosa per il ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo. Anche perché a leggere i programmi elettorali, le idee sembrano scarse e confuse. Se c’è una cosa però che non cambierà è la base fondamentale che dovrebbe essere all’origine di qualsiasi strategia italiana: il Mar Mediterraneo. Conteso fra russi, cinesi e non solo. Abbiamo perso anche il Mare Nostrum?
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Jons Stoltenberg non decide niente dentro la Nato, gli americani sì. E a Washington di quel che ha detto il Segretario NATO se ne sta discutendo: è ora di permettere agli ucraini di attaccare obiettivi militari in Russia anche con le nostre armi? Finora è stata una linea rossa dell’amministrazione Biden, ma quella in Ucraina è la guerra delle linee rosse abbattute (impazzite?). Nelle ultime ore, poi, dietro ai timori di un’escalation inevitabile, dello scontro diretto fra NATO e Russia, molti cominciano a discutere di piani di pace, di negoziati. Qualcosa che fa meno rumore, ma che serve di più. Putin con una proposta arrivata attraverso fonti della Reuters (e non per canali diplomatici, così da poterla poi smentire ufficialmente), Pechino con un piano concordato col Brasile, Zelensky col prossimo summit sulla pace in Svizzera. Il problema è che tutti vogliono finire questa guerra alle proprie condizioni.
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Qualche giorno fa ho incontrato Bergoglio. Per la prima volta, il Capo della Chiesa Cattolica ha deciso di presenziare all’Arena di Pace storicamente organizzata a Verona con centinaia di movimenti popolari e oltre 12 mila persone. E a me è stato chiesto di presentare l’evento. Non è un caso né una circostanza che Francesco decida adesso di esporsi apertamente a sostegno della diplomazia e del negoziato contro l’idea delle guerre inevitabili. È la strategia del suo pontificato ai tempi della “terza guerra mondiale a pezzi”, espressione da lui coniata nel 2014. Una visione, la sua, che allontana il pontefice da quella di “Cappellano dell’Occidente”, intestazione che ha rifiutato categoricamente imprimendo al futuro della Chiesa una svolta nuova. Al prezzo di venire accusato di essere filorusso, antiamericano e pure filocinese. Cosa c’è di vero?
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Nell’ultimo anno quando Joe Biden e Xi Jinping dialogano dal vivo o al telefono, parlano sempre di Fentanyl. Un oppioide sintetico, piaga numero uno della società americana (uccide 200-300 americani per overdose al giorno), sbarcato anche in Europa e, come dimostrano gli ultimi casi di cronaca, anche da noi in Italia. I cosiddetti “precursori chimici”, i componenti, provengono tutti in gran parte dalla Cina. Lo sanno bene i cartelli del narcotraffico messicano che - è notizia recente - per anni hanno imparato dai produttori cinesi come sintetizzare illegalmente il farmaco in Messico che poi contrabbandano in Usa dal confine sud. Ma c’è chi pensa che Pechino voglia ora cambiare passo e usare la lotta comune al fentanyl per trovare un terreno comune con Washington e abbassare la conflittualità, almeno per ora. Per altri, invece, la crisi resta un potente strumento di destabilizzazione della società americana, tutto in mano al suo nemico principale.
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