Episoder
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In cui il trash è imperituro si manifesta in una gondola di titanio impoverito. In cui si parla di automobilisti ungheresi dispersi nei boschi, di cecità mentale, di ombre, di statue, di caverne della mente, di cavalli neri, del dottor Jeckill e del dottor Jung. In cui si esplorano canoni infiniti e gli animali festeggiano al funerale di un cacciatore e si parla di Peter Pan e di Armani, del prodigioso duello tra il Gramo e il Buono e di una vacanza al mare nei favolosi anni Sessanta.
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In cui Siri se ne va e si parla di umanità parallele, di un ragazzino nel silenzio pulsante di una biblioteca, di quando Caruso risuonò in Amazzonia, di un castello in Ghana e di tante colazioni nell’unica casa di mattoni di una favela brasiliana.
Della confusione che si può fare tra pecore bianche e nere, simili a due ninos da rua diventati famosi a loro insaputa; di un minatore austriaco che cambia vita e di un astronomo che suona Bach.
Di noi, che, come quadrati su un piano, sogniamo grandi praterie. Di ciò che lega mia zia Ida a Charles Lindbergh, del mio amico Don Chisciotte e, infine, di una scritta su un chiostro di Toledo. -
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In cui il conduttore canta una nota, o forse di più, e un paio di nomadi tuvani gli fanno le scarpe. In cui si parla della musica delle sfere e del teorema di Pitagora, di come le scuole siano le stesse che c’erano nel Medioevo e del fatto che il Tao è formato da tre parti e che se non vedi la terza sei solo uno juventino. Di insegnanti e studenti celebri e di quando Freud mentiva a Jung mentre navigavano sul Pacifico. Di come Mozart amasse le dissonanze, ma alla fine, prima di morire, tutto gli suonasse bene comunque. Della laurea in astrofisica di Brian May e, soprattutto, dei libri di armonia secondo i bluesman.
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In cui il drone rileva un runner nel quadrante 12, ed è un filosofo. In cui gli scoiattoli corrucciano la fronte mentre il tempo scorre, o corre. Tempo interiore, tempo dell’anima, plasmato da virtuosi batteristi o percorso da coscienze musicali, scritto in ogni dettaglio o semplicemente vissuto. In cui si passa da Kant a Sonny Rollins, da Platone a Edgar Varese, da Dave Weckl al Gyorgy Ligeti. Questa volta la forestale non l’avrà vinta.
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In cui si parla della sindrome della casalinga e di foglie esagonali, si torna a dissetarsi in Bach e dal bagno arrivano incoraggiamenti. In cui, in bilico tra scienza e coscienza, si ascolta musica futurista o, forse, pitagorica. In cui si ripulisce il suono dalle astratte incrostazioni umane con del sano rumore, si ascoltano tassisti africani, piloni dell’elettricità, intonarumori e rumori stonati.
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In cui si parla di amore flaccido e naturale. Di sedicenni bionde svedesi e di settantatreenni di colore americane. Di curve del tempo e milioni di morti, di come si ingannano le cadenze della vita sottraendosi alla gravità dell’inevitabile. Di carta igienica curiosa e di anonimi amatori.
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In cui Rollo è di buon umore e Akenathon frigge cavallette, si ascolta del sano blues (moderno) e si ragiona sul senso delle parole. In cui si conosce la burrascosa vita di una mummia e i segreti di Steve Jobs. In cui si capisce la differenza (che poi non esiste) tra un blues antico e un blues jazzistico e si capisce pure che Brahms dimostra con la sua musica che tutta la nostra puntata non parla di nulla.
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In cui si manifesta Rollo e lo ‘Spirito del Blues’ e si torna sotto la pioggia da Soho. In cui un tizio mi punta il mitra, ci sono piedi cocenti e si parla di musica quantica, ottave ascensionali e opere incompiute. In cui si scopre ciò che lega Gatto Silvestro a John Zorn e si cerca di unire frammenti di composizioni musicali o di comporre esseri umani. In cui, come in ogni lieto fine, sboccia l’amore androide.
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In cui si parla delle impronte umane sulla tela del paesaggio sonoro, della California negli anni Ottanta, di come una chitarra abbia il suono della terra e di quanto un celeberrimo chitarrista jazz si sia in realtà ispirato a Bernacca, di musica olocratica e di un antico faraone.
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In cui si cerca l’energia della speranza e l’abbandono al flusso di quel tipo dal cognome impronunciabile. In cui si capisce che si impiega tutta la vita per diventare ciò che siamo sempre stati e che c’è chi sogna le nostre sinfonie stonate, ovvero i nostri errori. In cui si capisce che, comunque, in Italia ci sarà sempre ‘La Vasca’ e che dobbiamo rassegnarci, ma che comunque Debussy aiuta ad uscirne.
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In cui si inizia con Bach, che sistema sempre tutto, e poi Siri si fa delle domande su Mike Moreno. In cui ci si tuffa a pesce nel kitsch e si cercano giustificazioni nei New Trolls. In cui si fa l’elogio e la condanna del copia incolla e si usano male dei synth datati. Ma soprattutto in cui, alla fine della puntata, rischiamo seriamente l’estinzione.
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In cui si parla dell’orizzonte degli eventi, sull’orlo dei buchi neri e dello zio Albert; di come lo spazio-tempo crei connessioni improbabili tra universi opposti come quello di Nino e Miles. Di ottave stonate e Peppino di Capri, di una nuova amica umana, troppo umana, di un improvvisazione più sbagliata e quindi giusta, e della necessità di una semplicità necessaria.
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In cui si parla dell’universo materico e di una lavastoviglie rumorosa, di quando Bach si fece un mese di prigione al tempo in cui aveva il vizio di accoltellare i fagottisti. Di famiglie numerose e litigiose, di sudoku, scale chiocciole, tavole rotonde e matematica delle nuvole. Di due madri diverse, ma in fondo simili. Di un mio vecchio album di fotografie e del manuali di istruzioni per la caldaia.
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In cui si parla di muschio e del perché gli uomini assomigliano ad alberi, ma in realtà non lo sono. Di tempeste e di montagne che, se potessero cantare, probabilmente sarebbero un coro della ECM e non della GRP. Di musica IKEA e di meravigliosi difetti, di una diciassettenne in lacrime e degli assoli da fricchettoni anni ’70, di androidi e di umani, di un tizio senza limiti e di suo papà Stevie, quando aveva dodici anni e quando dedicava i dischi a zio Ray.
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In cui si parla di uccellini, di un gennaio piovoso in Polonia, di Olivier Messiaen, della primavera di Antonio Vivaldi e di quella di Igor Stravinsky, del nonno di Nino D'angelo e del fatto che non sia come Mahler, anche se John Lee Hooker usa meno accordi di lui; di accordi complicati, di Marc Ducret, di nuove sonorità da imparare e soprattutto di quanto in questi giorni abbiamo tutti bisogno di bellezza, e quindi degli Oregon.
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In cui si parla del respiro delle note, dei temi di Charlie Parker e dei soli di Miles Davis, dell’Yngwie Malmsteen dei jazzisti, di Napoli e di Dresda, in cui si cerca di fare una sigla decente, di quando a Ravel mancavano solo i temi e dei nonni al parco.