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  • Se vi dicessi che alla metà degli anni Ottanta è esistito un prospetto NCAA in grado di mettere in dubbio l’egemonia di Michael Jordan, ci credereste? Un esterno che giocava come MJ, con quella stessa tenacia, ma più alto e con la possibilità di incidere dall’arco più di MJ? Con un jumper ritenuto da compagni e avversari superiore, in termini di qualità, rispetto a quello di Jordan? Uno straordinario ibrido tra il basket degli anni Ottanta e quello che avremmo visto nei decenni a venire. Probabilmente no, pensereste che sono pazzo, perché questo giocatore, in Nba, non si è mai visto. Avreste ragione soltanto in parte. Perché quel giocatore è effettivamente esistito. Ma è morto due giorni dopo essere stato scelto al draft. «Durante quegli anni in ACC, i due giocatori più dominanti che io abbia visto sono stati Michael Jordan e Len Bias». (Coach K) Autunno 1984. I Boston Celtics decidono di assecondare la corte spietata dei Seattle Supersonics, consegnando alla franchigia della Città dello Smeraldo Gerald Henderson, una combo guard che avevano scelto nel 1979 e che aveva impresso il proprio nome nella storia dei Celtics con una mitica palla rubata ai danni di James Worthy in Gara 2 delle Finals del 1984, poi vinte da Boston: i Lakers erano avanti 113-111 con 18 secondi da giocare prima del furto con destrezza di Henderson, che aveva messo a segno il più comodo dei layup. In cambio, Boston ottiene una scelta al primo giro dai Sonics per il draft del 1986. E i Sonics vanno male, malissimo. Il 31-51 finale porta Seattle all’undicesimo posto della Western Conference, vale a dire il secondo peggior record a Ovest. Alla lottery si decidono le prime otto posizioni per il draft. A rappresentare i Boston Celtics, con il suo immancabile sigaro, c’è Red Auerbach. Non è ancora l’epoca delle palline, ma sono direttamente i rappresentanti delle squadre a consegnare, da una gigante sfera trasparente, un logo a testa, andando così a stabilire l’ordine delle prime otto posizioni. New York non va oltre la numero 6, mentre i Celtics, campioni Nba in carica, si ritrovano nelle prime due. Auerbach ride e mette in bocca il suo sigaro, Boston ottiene la scelta numero 2, con i Sixers che vincono la lottery. È un risultato incredibile, perché le prime due scelte vanno a due corazzate: Phila, infatti, si è fermata a un passo dalle finali di Conference, perdendo in sette partite contro Milwaukee, ed è arrivata così in alto grazie a una scelta arrivata tramite trade con i Los Angeles Clippers. Ma il board dei Sixers combinerà un disastro nel corso dell’estate, scambiando la numero 1 con i Cleveland Cavaliers in cambio di Roy Hinson, reduce da un’ottima stagione con i Cavs che non verrà mai più replicata.

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  • «Questo è uno dei quintetti più talentuosi della storia della Nba». (New York Times)  «Non solo ci aspettiamo che vincano il titolo, ma che lo facciano all’insegna dei record». (Espn)  Queste sono soltanto due delle previsioni che la stampa specializzata aveva prodotto alla vigilia della stagione Nba 2012-13. Riguardavano entrambe la stessa squadra, i Los Angeles Lakers. Chi ricorda bene quell’annata sa già di cosa sto per parlare, chi invece ha la memoria corta, non seguiva l’Nba o aveva semplicemente meglio da fare, può allacciarsi le cinture, perché quello che sto per raccontarvi è uno dei fallimenti più fragorosi della storia della lega. Questo è il disastro dei Los Angeles Lakers 2012-2013.  LE PREMESSE  Campioni Nba nel 2010 agli ordini di Phil Jackson e semifinalisti di conference un anno più tardi sempre guidati da coach Zen, i Lakers avevano iniziato la loro trasformazione nella stagione 2011-12, con Mike Brown in panchina, il tutto dopo aver visto sfumare per volontà di David Stern la trade che avrebbe portato a Los Angeles, sponda gialloviola, Chris Paul. La semifinale di conference persa contro gli Oklahoma City Thunder, futuri finalisti, era parsa una buona base da cui ripartire, pur con alcuni tasselli da sistemare. Il primo, e forse il più importante, nel ruolo di playmaker: quello di CP3, appunto. Dopo anni improntati sull’attacco a triangolo, caro a Jackson e a Tex Winter, l’introduzione della Princeton Offense voluta da Mike Brown richiedeva un play di caratura leggermente diversa rispetto a Ramon Sessions e Steve Blake. Il secondo, invece, riguardava il centro titolare. Andrew Bynum era reduce dalla sua migliore stagione in carriera per punti e rimbalzi, ma a preoccupare i Lakers c’erano due motivi che poco avevano a che fare con il suo talento: la prospettiva di perderlo in caso di mancato rinnovo del contratto e alcune grosse preoccupazioni sulle condizioni delle sue ginocchia.   L’11 luglio, i Los Angeles Lakers annunciano di aver chiuso una trade con i Phoenix Suns: Steve Nash arriva in gialloviola in cambio di due prime scelte e due seconde scelte. Già da qualche anno, l’ex MVP deve convivere con problemi alla schiena: capita di frequente di vederlo seduto o addirittura sdraiato sul parquet durante le soste in panchina. Ha compiuto 38 anni, il passo non è quello degli anni in cui riusciva a dominare la lega, ma rappresenta certamente un upgrade rispetto alla stagione precedente.  Il 10 agosto, un mese dopo la firma di Nash, arriva un altro scambio. Stavolta è un terremoto per la lega. Sono coinvolte quattro squadre. Gli Orlando Magic ricevono Al Harrington, Arron Afflalo, Moe Harkless, Nikola Vucevic, Josh McRoberts, Christian Eyenga, tre prime scelte e una seconda scelta. Ai Denver Nuggets arriva Andre Iguodala. Philadelphia abbraccia Jason Richardson e Andrew Bynum, l’elemento principale sacrificato dai Lakers per arrivare a Dwight Howard. Miglior difensore dell’anno dal 2009 al 2011, miglior rimbalzista dal 2008 al 2010, miglior stoppatore nel 2009 e nel 2010, Howard arriva con due grossi punti interrogativi nonostante il curriculum: la ripresa fisica dopo l’infortunio che lo aveva costretto a saltare quasi metà stagione e il futuro contratto. Howard, infatti, è in scadenza a fine anno e potrà valutare le offerte da free agent. I Lakers, in sostanza, decidono di fare all-in: una stagione ai massimi livelli per dare l’assalto al titolo, poi si vedrà. Nello scambio arrivano anche Earl Clark e Chris Duhon. A posteriori, l’unica scelta azzeccata si rivelerà quella di scaricare Bynum: giocherà solamente 26 partite in carriera dopo la trade prima di ritirarsi.

  • I nostri occhi si sono abituati a vedere il basket Nba in un certo modo. Un lungo di 2 metri e 10 che mette palla per terra come un esterno e arriva al ferro, o che tira dall’arco come uno specialista, non ci sorprende più. Siamo passati attraverso una rivoluzione dei corpi quasi senza accorgercene. Il concetto di ruolo resiste, ma i confini sono sempre più labili, confusi, impercettibili. Ammiriamo notte dopo notte degli atleti che non sono solamente dei freak atletici, ma anche portatori sani dei “sacri” fondamentali. Pensate al pallone che lascia la mano di Kevin Durant al momento del tiro: quanti gesti tecnici più puliti avete visto nel corso della vostra vita? Pensiamo alla sua struttura fisica, alla sua altezza, e portiamola indietro nel tempo, fino all’inizio degli anni Novanta. Che giocatore sarebbe stato? Come sarebbe stato incasellato? Una delle prime cose che ho letto sul conto di KD, in quelle schede pre-draft che ogni tanto spuntano sul web, era una frase lapidaria sul suo “best case scenario”, un giochino che molti analisti fanno per provare ad azzardare un paragone per un giocatore che sta entrando nella lega. Da una parte il “worst case”, ossia chi e cosa può diventare quel determinato atleta nel caso in cui tutto vada storto, e dall’altra il best case, l’allineamento perfetto dei pianeti. Quello di KD era “Tracy McGrady meets Kevin Garnett”. Ora, il titolo del video è già abbastanza chiaro, e non mi dilungherò oltre su Durant: non è lui il Kevin che ci interessa, non oggi almeno, ma vi garantisco che all’epoca immaginare una fusione tra KG e T-Mac era qualcosa di insensato. Quello che posso dirvi è che la storia che sto per raccontarvi, la storia di chi è stato e cosa ha rappresentato Kevin Garnett per l’Nba, racchiude tutto ciò che la lega più bella del mondo è diventata negli anni che hanno seguito il suo sbarco in Nba. Ha avuto tanti soprannomi, ma uno più di tutti ci aiuta a capire l’essenza reale di Kevin Garnett. The Revolution. KG nasce il 19 maggio del 1976 a Greenville, South Carolina. Prende il cognome da mamma Shirley, vista la rottura della relazione con il padre. Ma non è l’unica cosa che gli viene trasmessa dal sangue materno. Kevin cresce nel culto della disciplina, del rispetto delle regole, di una determinazione sconfinata. «Non era una madre affettuosa, non era brava negli abbracci o nel tenerti la mano. Ma era incredibile nel trasmettere un concetto: “Devi imparare a fare le cose per poi farcela da solo”. Era una leonessa che mi ha reso un leone». Il piccolo Kevin tiene in ordine la casa, falcia l’erba, taglia la legna. Tutto al suo posto, tutto nel massimo rispetto delle regole di mamma Shirley. Ancora oggi, entrare in casa di Garnett pare sia un’esperienza da “malati del pulito”. Impara tutto dalla donna che ne forgia il carattere. Le uniche fughe concesse a KG sono quelle della fantasia: è un bambino vivace, con una fervida immaginazione, e la sua camera da letto può essere il rifugio nel quale inventare storie fantastiche. Poi però c’è la realtà. Mamma Shirley, in alcuni fine settimana, prende Kevin e le sue due sorelle e porta tutta la famiglia ad Atlanta. Mostra loro le case più belle, le piante, gli alberi, la cura sopraffina di quelle case di città. È un altro modo per indicare la via ai suoi figli. «Kevin lavora duro, diventa intelligente, e riuscirai ad avere una casa come quella. La gente come noi può permettersi queste case, il comfort e il lusso non sono un privilegio unico dei bianchi». che io sentivo di avere.».

  • Un racconto di Gianluca Fraula e Marco Gaetani.

    «Stand on the right path». Nel breve discorso con cui Derrick Rose ringrazia tutti per avere ricevuto il premio di Mvp, nel maggio del 2011, c’è questo concetto che ricorre, che domina i suoi pensieri. Deve ancora compiere 23 anni e avrebbe tutto il diritto di sentirsi immortale. Nessuno si è mai aggiudicato questo ricevimento così giovane: ha appena scalzato dagli annali Wes Unseld, che nel 1969 era riuscito a imporsi contemporaneamente come rookie dell’anno e miglior giocatore della lega. Ma era un’altra pallacanestro, un’altra Nba, un altro mondo. Rose è appena diventato il simbolo dei Bulls tornati a spaventare la Lega, con un record di 62-20 che profuma di epoca jordaniana. Ovviamente è anche il primo giocatore di Chicago a vincere l’Mvp dopo Jordan e per il momento anche l’ultimo. Ma Rose, con il suo volto serio e l’espressione perennemente concentrata, facile da confondere per tristezza, nel guardare al futuro pensa a un passato difficile, agli sforzi fatti per rimanere perennemente sulla giusta strada, per evitare di perdersi mentre tutti, intorno a lui, facevano rumore. È un concetto prezioso, che gli servirà nel corso di una carriera dai mille volti, stravolta dagli infortuni. Eppure, nonostante questo, mai uscita davvero dai radar dell’Nba che conta. Perché il faro che ha guidato la vita di D-Rose è sempre stato quello: stand on the right path. Con il lavoro e con la serietà. Questa è la storia di Derrick Martell Rose.

  • Il 22 febbraio del 1980, a Lake Placid, va in scena una partita dal finale apparentemente già scritto. Gli Stati Uniti sono arrivati all’ultimo atto del torneo olimpico di hockey su ghiaccio, ma la corsa all’oro pare sbarrata. Dall’altra parte c’è la corazzata dell’Unione Sovietica, che l’allenatore statunitense, Herb Brooks, deve affrontare con un gruppo di dilettanti e giocatori universitari. Dave Anderson, sulle pagine del New York Times, non lascia scampo a Team Usa:  «A meno che il ghiaccio non si sciolga, o a meno che la squadra americana non compia un miracolo, i russi vinceranno l’oro per la sesta volta nelle ultime sette Olimpiadi». La partita scivola via equilibrata, ma quando i sovietici trovano il 3-2 con Malcev sembra finita. Arrivano invece le firme di Mark Johnson e Mike Eruzione: Stati Uniti 4, Unione Sovietica 3. Restano dieci minuti da giocare e il fortino statunitense, non si sa come, regge. Si entra negli undici secondi finali e Al Michael, telecronista della ABC, consegna ai posteri del racconto sportivo una frase leggendaria:  «Do you believe in miracles? Yes!».  È questa la frase dalla quale dobbiamo partire.

  • Dieci secondi sul cronometro. Cosa sono dieci secondi? Nella vita di un uomo, praticamente nulla. In una partita di basket, possono rappresentare tutto. In una partita Nba, con i Lakers sotto di due e Kobe Bryant in campo, vogliono dire soltanto una cosa: il numero 8, sta per farsi carico del tiro che può portare la sfida all’overtime, oppure della tripla che risolverebbe, in un senso o in un altro, la faccenda. Non è un caso che il pallone finisca rapidamente dalle mani di Robert Horry per trovare quelle di Kobe. Ora, di secondi, ne mancano nove, Bryant si è messo con i piedi verso il canestro e deve trovare il modo per andare ad attaccare il ferro. Sulla sua strada c’è Doug Christie, un cliente decisamente scomodo con il quale trattare in circostanze simili. Ma Kobe riesce a prenderlo alla larga, ad aggirarlo senza quasi mostrare fatica. Sta per mettere piede nel pitturato quando di secondi ne mancano ormai solamente cinque e sulla direttrice di penetrazione di Bryant appare un uomo molto grosso, le braccia lunghe, la barba sfatta. Stop. Ci serve un attimo. La Continental Airlines Arena di East Rutherford, New Jersey, è la sede del Draft Nba del 1996. È il 26 giugno e quello che sta per avere luogo è uno dei draft più profondi della storia. Alla prima chiamata, senza discussioni, i Philadelphia 76ers scelgono un prodigio come Allen Iverson. Subito a seguire, cinque scelte che definirei senza dubbio educate: Marcus Camby, Shareef Abdur-Rahim, Stephon Marbury, Ray Allen, Antoine Walker. Man mano che si scende, le cose iniziano a complicarsi. Ci sono ancora due futuri Mvp della lega da scegliere, ma ben sei franchigie non se ne avvedono. Il primo dei due a essere scelto, alla chiamata numero 13, è il non ancora diciottenne Kobe Bryant, da Lower Merion High School. È uno dei due giocatori ad aver seguito la strada tracciata da Kevin Garnett, che un anno prima aveva deciso di saltare il college per fare immediatamente il salto in Nba: l’altro è Jermaine O’Neal, che sarà chiamato alla 17 da Portland. Come saprete, a chiamare Kobe Bryant non sono i Los Angeles Lakers, bensì gli Charlotte Hornets. La prima immagine che abbiamo di Kobe in Nba, dunque, è la stretta di mano con David Stern e il cappellino degli Hornets. Durerà poco, perché il piano di Jerry West è di arrivare a quel ragazzo. I Los Angeles Lakers mettono le mani su Kobe anche per creare spazio salariale: l’altro obiettivo dei gialloviola è dare l’assalto a Shaquille O’Neal, stella degli Orlando Magic in regime di free agency. La moneta di scambio per avere Kobe Bryant è proprio quell’uomo molto grosso, con le braccia lunghe e la barba incolta. Si chiama Vlade Divac, e quando scopre che sta per essere scambiato per un liceale perde la testa. Si mette di traverso, minaccia il ritiro. Dieci giorni dopo il draft, Jerry West lo supplica chiedendogli un incontro. Era stato lui, in fin dei conti, a portarlo ai Lakers dal Partizan Belgrado.

  • Quella del 9 dicembre 1977 a Los Angeles, più precisamente allo storico Forum di Inglewood, è una serata come un’altra di Regular Season. O meglio, dovrebbe esserlo, prima che la partita tra Rockets e Lakers si trasformi in un tragico turning point per la storia dell’NBA. Prima che un pugno, anzi Il Pugno, conosciuto da tutti come “The Punch”, tirato da Kermit Washington a Rudy Tomjanovich scriva una delle pagine più drammatiche della storia dello sport americano. “Non dimenticherò mai quel rumore. Un colpo sordo, come quello di un melone che viene scaraventato contro l’asfalto”.

  • Siamo per le strade di Sepolia, un quartiere a nord del centro di Atene. Sono gli anni della crisi finanziaria che ha colpito l’intera Grecia nel 2008. Ci sono 4 giovani ragazzi e 2 adulti che stanno spingendo un frigo su uno skateboard. È tutto ciò che gli rimane insieme a qualche vestito consumato. Sono appena stati cacciati dalla casa in cui si trovavano. Si tratta della famiglia Antetokounmpo. Sono in grande difficoltà economica e non riescono a pagare l’affitto. Si stanno dirigendo verso casa di un amico, che sperano possa ospitarli. Nonostante abbiano vissuto quella situazione più di una volta, non sanno cosa gli riserverà il futuro d’ora in poi.

  • Dennis Rodman è in auto, senza scarpe e senza calzini. Ha il fucile puntato sotto il mento. Sta pensando se porre fine alla sua esistenza. La squadra che credeva essere una famiglia si è sgretolata, la ex-moglie ha portato lontano la figlia e lui sente di non essere stato se stesso fino a quel momento. È in stato confusionale e prima di premere il grilletto accende la radio.

  • 11 Febbraio 1993. Siamo fuori dal Palace, la casa dei Detroit Pistons, una delle squadre che ha scritto la storia della NBA. Dennis Rodman, uno dei giocatori di quel team, si trova nel parcheggio all’interno della sua auto. Quel giovane timido e introverso, sì avete capito bene timido e introverso, ha un fucile in mano e se lo sta puntando sotto il mento. Il mondo gli sta crollando addosso, tutto quello in cui aveva creduto sta svanendo. È davvero la fine? O il punto di partenza per un nuovo inizio? Per scoprirlo bisogna partire dal principio. Provando a conoscere una delle personalità più affascinanti, se non la più affascinante che sia mai esista nel mondo dello sport. Questa è la storia di Dennis “The Worm” Rodman.

  • Chissà chi avrebbe scommesso su quel ragazzino  che giocava nel playground in provincia di Bologna. Forse nessuno, o almeno in pochi. L’unica cosa certa è che lui lo sapeva  fin da bambino, di voler diventare un giocatore di pallacanestro, di voler confrontarsi con i migliori al mondo e soprattutto sapeva che voleva vincere. Non c’era scritto da nessuna parte che ce l’avrebbe fatta, questa volta non era stabilito dal destino. Questa è la storia di chi si è costruito l'opportunità da solo, con il lavoro e con una forza mentale che in pochi hanno. Questa è la storia dell’unico italiano ad aver vinto un anello NBA. Questa è la storia di Marco Belinelli.

  • 4 Giugno 1998. Siamo a Salt Lake City, Utah. Gara 6 delle Nba Finals. I Bulls stanno conducendo la serie per 3 a 2 contro i Jazz. Mancano poco più di 10 secondi alla fine della gara e Chicago è sotto di uno. Michael Jordan ha la palla in mano. Tutti sanno cosa sta per accadere. Lo sanno gli avversari, gli spettatori, anzi lo sa tutto il mondo ancora prima che accada. Mancano pochi attimi al sesto anello in 8 anni per Chicago o ad un incredibile gara 7. Ma come si è arrivati a quel momento? Chi c’è sul parquet? Perché Utah in quel preciso istante è data come favorita?

  • È l’estate 2010 e LeBron James ha appena concluso il suo settimo anno a Cleveland. Tanti punti segnati, tanti record superati, tante partite incredibili ma ancora 0 anelli. Non è andato nemmeno vicino a vincerne uno. È un peso incredibile da sopportare, perché se non riesci in quell’impresa nella Nba non sei nessuno, non importa se sei il più forte di sempre. Come tanti giocatori il prescelto è ormai obbligato a conquistarlo per consacrarsi.

  • Siamo ad Akron, Ohio, a circa 40 minuti d’auto da Cleveland. È il 30 dicembre 1984. Gloria James ha 16 anni e sta per partorire. È semplicemente una ragazzina che solo pochi mesi prima ha provato a nascondere la sua gravidanza a tutti i costi. Quel giorno dà alla luce LeBron Raymone James. In quel momento la giovane sa che la sua vita e quella del piccolo saranno in salita.