Episodi
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Renato Vallanzasca da Milano, detto René, professione bandito, accoglie il giornalista Carlo Verdelli in un parlatoio del carcere-fortezza di Opera una mattina del febbraio 2015, qualche tempo dopo essersi fottuto l’ultima possibilità di una vecchiaia, almeno quella, diversa. Evasioni a parte, è in galera da quando non aveva ancora 27 anni. Il 4 maggio 2021 ne ha compiuti 71. Il conto è facile: a parte la gioventù bruciata, il resto della vita (quarant’anni e passa) l’ha consumato dentro. E quando stava per mettere un piede fuori, semilibertà nel giugno 2014, ha pensato bene di rubacchiare robetta in un supermercato (anche se lui nega). Marcia indietro e stop delle concessioni fino a fine vita e anche oltre. Per scontare tutto quello che gli hanno dato (4 ergastoli più 295 anni), di vite dovrebbe averne sette, come i gatti.
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Nel giorno della Liberazione, un 25 aprile dunque, una visita guidata al posto che si prepara a mettere fine alla libertà incondizionata di cui ha fin qui goduto il cavalier Silvio Berlusconi, signore di Arcore e per quattro volte dell’Italia intera. Un carcere? Ma no, un centro per anziani. Per lui, che nel 2014 ha 77 anni ma se ne sente sempre 30, un supplemento di pena crudele.
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Episodi mancanti?
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Un altro caso Cucchi, probabilmente. Cambia però, e di molto, il finale, almeno quello giudiziario. Stefano Cucchi viene fatto morire nel 2009 e, dopo una battaglia legale estenuante, dieci anni più tardi finiscono condannati i carabinieri che lo ridussero a spettro.
Giuseppe Uva, operaio varesino, esce cadavere da una notte, il 14 giugno 2008, nelle mani delle forze dell’ordine. Carlo Verdelli scrive la sua storia nel 2014, dopo il primo proscioglimento di tutti i presunti colpevoli del suo scempio e alla vigilia del processo che dovrebbe cominciare a stabilire un po’ di verità.
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Un gruppo di ex tossicodipendenti, giovani cattolici, qualche comunista e soprattutto lui, un fuori quota venuto dal Sessantotto e diventato la star di una piccola televisione locale. Nell’autunno del 1988, l’opposizione alla mafia a Trapani, la Svizzera bancaria delle cosche, è tutta qui. Cosa Nostra sbriga l’impiccio con un’esecuzione. La Giustizia ci metterà più di vent’anni per riconoscerlo.
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Una vita povera ma non balorda. Poi due mesi da Arancia meccanica: ragazze violentate in serie e derubate, a viso scoperto, nello stesso quartiere di Milano. Lo arrestano facile, lo condannano a 18 anni e 9 mesi. Succedeva parecchi anni fa, succede quasi ogni giorno. Solo che questa storia ha qualcosa che le altre non hanno: l’amore infrangibile di una donna, che lui, proprio lo stupratore, aveva salvato dalla rovina. E lei dice che lo aspetta, lo aspetterà fino a fine pena, fino alla fine.
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C’è un prima da Mulino Bianco, un mentre da Apocalypse Now e un dopo irreale. Un caso del 2014 che va oltre la cronaca nera, che si consuma in un giorno e scompare nel nulla. Come il tornado emotivo che all’improvviso trasforma un angelo in un demone, lasciandosi dietro un imprevisto relitto umano e i corpi di tre innocenti.
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I nomi, i luoghi e alcune circostanze di questa cronaca in forma di racconto sono di fantasia, inventati per camuffare una sto- ria che invece, purtroppo, è vera. La storia di un piccolo migrante, per metà africana e per metà italiana. Uguale a tante, diversa da tutte.
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“Scopate incrociate tra gente perbene.” Provò a ridicolizzare il caso, il magistrato che per primo si trovò tra le mani la storia dell’acido. Non era così. In una riedizione molto spinta della Milano da bere degli anni Ottanta, nel 2014 la capitale morale, si fa per dire, verrà flagellata da una grandinata di sesso e follia, crudeltà e sadismo.
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Pietro Maso aveva 19 anni quando nel 1991 compì la mattanza, perché di questo si trattò, di padre e madre. “Per soldi,” disse e la chiuse lì. Dopo 22 anni di galera, viene scarcerato. La cosa non passa inosservata, anche perché lui è ormai diventato un marchio indelebile, il simbolo di un abisso che non ti spieghi.
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“Io non sono innocente. Io sono estraneo.” Uno degli italiani più conosciuti e più sfregiati. Una storia ignobile, ricostruita nel 2013, a trent’anni dall’arresto di un gran signore delle serate italiane, quando il piccolo schermo era piccolo per davvero ma faceva diventare grandi i volti e i nomi di cui ospitava le gesta. Tortora e il suo Portobello, per esempio.
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Era filtrata la notizia che, dentro il carcere, Olindo coltivasse rose. Come i carnefici nazisti che si scioglievano in tenerezze per i canarini. Carlo Verdelli scrisse di Olindo e di sua moglie Rosa nel settembre del 2014, otto anni dopo il macello. Avvicinandosi alla scena della strage, vivendoci dentro per qualche giorno, l’autore cominciò a non vederci più tanto chiaro.
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