Folgen
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Tredici presidenti – la vita, l’azione di governo, l’impatto che hanno avuto sull’America (e oltre) – raccontati in forma di una chiacchierata – non sempre seria. A fare le domande, Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dell’Istituto Affari Internazionali. Chi risponde è Mario Del Pero, illustre americanista e Professore di Storia Internazionale presso SciencesPo a Parigi.
Oggi parliamo del 44° presidente degli Stati Uniti, il Democratico Barach Hussein Obama, in carica dal 2009 al 2017.
Obama ha libertà di governare sul piano domestico solo per il biennio 2009-10 in cui i Democratici controllano tanto la Camera quanto il Senato, dove peraltro hanno una supermaggioranza di 60 senatori (fino alla morte di Ted Kennedy). Dopo che i Repubblicani torneranno a controllare la Camera (dal 2011) e poi il Senato (dal 2015), di fatto Obama riuscirà a fare poco in politica interna, e tutto quello che farà (in particolare sul fronte delle regolamentazioni ambientali e della protezione dei migranti entrati negli USA come minori o neonati) sarà soggetto a cause legali, a volte perse dell’Amministrazione.
Nei due anni in cui può governare Obama ha due priorità: continuare e anzi accelerare la gestione della macro-crisi del 2008 e avanzare un’agenda di governo di ispirazione democratica. L’azione dell’Amministrazione Obama si traduce soprattutto nella promozione di tre grandi leggi approvate dal Congresso: La prima è il grande stimolo fiscale (del valore di circa 900 miliardi di dollari; la seconda legge è il Wall Street Reform and Consumer Protection Act, la riforma del mercato finanziario nota come Dodd-Frank; l’ultima grande legge fatta varare da Obama è naturalmente il Patient Protection and Affordable Care Act, ovvero la grande riforma sanitaria nota come Obamacare.
In politica estera Obama abbandona la retorica della Guerra Globale al Terrore, ma intensifica l’uso di droni per colpire sospetti terroristi, nonostante le controversie legali ed etiche per le vittime civili. In Europa rilancia la collaborazione con l’UE, che vede come un pilastro dell’ordine globale a guida americana e opera il reset con la Russia di Putin (ottenendo aiuto sull’Afghanistan, Iran e New Start); ma non prevede – e non si oppone con sufficiente durezza all’invasione russa dell’Ucraina del 2014 che risulta nell’annessione della Crimea e la destabilizzazione del Donbas. Le difficoltà in Medioriente ed Europa gli impediscono di dare maggiore sostanza al famoso pivot to Asia. Mantiene però relazioni molto buone con l’India e relativamente cordiali con la Cina, nonostante quest’ultima si faccia più aggressiva nel Mar cinese meridionale e sul fronte dello spionaggio.
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A cura di Francesco De Leo. Montaggio di Silvio Farina.
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Obama ha libertà di governare sul piano domestico solo per il biennio 2009-10 in cui i Democratici controllano tanto la Camera quanto il Senato, dove peraltro hanno una supermaggioranza di 60 senatori (fino alla morte di Ted Kennedy). Dopo che i Repubblicani torneranno a controllare la Camera (dal 2011) e poi il Senato (dal 2015), di fatto Obama riuscirà a fare poco in politica interna, e tutto quello che farà (in particolare sul fronte delle regolamentazioni ambientali e della protezione dei migranti entrati negli USA come minori o neonati) sarà soggetto a cause legali, a volte perse dell’Amministrazione.
Nei due anni in cui può governare Obama ha due priorità: continuare e anzi accelerare la gestione della macro-crisi del 2008 e avanzare un’agenda di governo di ispirazione democratica. L’azione dell’Amministrazione Obama si traduce soprattutto nella promozione di tre grandi leggi approvate dal Congresso: La prima è il grande stimolo fiscale (del valore di circa 900 miliardi di dollari; la seconda legge è il Wall Street Reform and Consumer Protection Act, la riforma del mercato finanziario nota come Dodd-Frank; l’ultima grande legge fatta varare da Obama è naturalmente il Patient Protection and Affordable Care Act, ovvero la grande riforma sanitaria nota come Obamacare.
In politica estera Obama abbandona la retorica della Guerra Globale al Terrore, ma intensifica l’uso di droni per colpire sospetti terroristi, nonostante le controversie legali ed etiche per le vittime civili. In Europa rilancia la collaborazione con l’UE, che vede come un pilastro dell’ordine globale a guida americana e opera il reset con la Russia di Putin (ottenendo aiuto sull’Afghanistan, Iran e New Start); ma non prevede – e non si oppone con sufficiente durezza all’invasione russa dell’Ucraina del 2014 che risulta nell’annessione della Crimea e la destabilizzazione del Donbas. Le difficoltà in Medioriente ed Europa gli impediscono di dare maggiore sostanza al famoso pivot to Asia. Mantiene però relazioni molto buone con l’India e relativamente cordiali con la Cina, nonostante quest’ultima si faccia più aggressiva nel Mar cinese meridionale e sul fronte dello spionaggio.
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Esistono monumenti e luoghi del mondo che, non appena li sentiamo pronunciare, iniziano a farci viaggiare con l’immaginazione: pensiamo a piazza San Marco a Venezia o al monte Fuji, alle cascate del Niagara o a Mont Saint-Michel, alle piramidi egizie o a Gerusalemme, a Stonehenge o a Ponte Vecchio a Firenze. Ma cosa succede quando questi luoghi accendono gli occhi degli artisti e prendono vita nei loro quadri? Questo ci racconta in questo podcast, Emanuela Pulvirenti, architetto e celebre divulgatrice di storia dell’arte.
Il risultato è un sorprendente itinerario tra le meraviglie del mondo antico e moderno, viste dalla prospettiva unica dei pittori: un viaggio nello spazio e nel tempo. Un’immersione inedita nella storia dell’arte per scoprire retroscena, storie e curiosità su alcuni dei luoghi più belli del mondo che, grazie allo sguardo degli artisti, si dischiudono davanti a noi come se li osservassimo per la prima volta.
Emanuela Pulvirenti ha scritto per Rizzoli “Cartoline d’Artista. Viaggio tra le meraviglie del mondo nei dipinti più belli della storia dell’arte”. E’ storica dell’arte, architetto e dottore di ricerca in Fisica Tecnica Ambientale con specializzazione in illuminotecnica. Nel 2001 ha fondato lo Studio Triskeles Associato, per il quale ha curato l’illuminazione di musei, chiese e aree archeologiche in tutta Italia.
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Tredici presidenti – la vita, l’azione di governo, l’impatto che hanno avuto sull’America (e oltre) – raccontati in forma di una chiacchierata – non sempre seria. A fare le domande, Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dell’Istituto Affari Internazionali. Chi risponde è Mario Del Pero, illustre americanista e Professore di Storia Internazionale presso SciencesPo a Parigi
Oggi parliamo del 43° presidente degli Stati Uniti, il Repubblicano George Walker Bush, in carica dal 2001 al 2009.
L’amministrazione Bush ha lasciato un’impronta profonda nella politica estera americana, soprattutto a causa della sua risposta all’11 settembre, che ha segnato l’inizio della Guerra Globale al Terrore. Questa guerra, inizialmente diretta contro al-Qaeda e i talebani in Afghanistan, si è rapidamente estesa a una lotta più ampia contro le minacce terroristiche globali e i cosiddetti “stati canaglia”, come Iraq, Iran e Corea del Nord, accusati di sviluppare armi di distruzione di massa. Bush ha inquadrato questa lotta come una difesa morale dei valori americani, legando la sicurezza nazionale alla promozione della libertà e della democrazia su scala globale, un approccio che ha influenzato profondamente anche le successive amministrazioni.
Con Bush il conservatorismo religioso di destra antiliberale, socialmente reazionario e antiscientifico lascia i margini del dibattito pubblico e comincia a occupare il centro, basti pensare alle leggi anti-terrorismo, alla posizione di Bush su i matrimoni gay o l’aborto, per non parlare della negazione del cambiamento climatico e del tentativo di promuovere una visione della biologia basata sull’idea a-scientifica del ‘disegno intelligente’.
Con le sue scelte di politica economica il presidente Bush è stato il promotore di un’agenda socialmente iper-conservatrice.
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Tredici presidenti – la vita, l’azione di governo, l’impatto che hanno avuto sull’America (e oltre) – raccontati in forma di una chiacchierata – non sempre seria. A fare le domande, Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dell’Istituto Affari Internazionali. Chi risponde è Mario Del Pero, illustre americanista e Professore di Storia Internazionale presso SciencesPo a Parigi
Oggi parliamo del 43° presidente degli Stati Uniti, il Repubblicano George Walker Bush, in carica dal 2001 al 2009.
L’amministrazione Bush ha lasciato un’impronta profonda nella politica estera americana, soprattutto a causa della sua risposta all’11 settembre, che ha segnato l’inizio della Guerra Globale al Terrore. Questa guerra, inizialmente diretta contro al-Qaeda e i talebani in Afghanistan, si è rapidamente estesa a una lotta più ampia contro le minacce terroristiche globali e i cosiddetti “stati canaglia”, come Iraq, Iran e Corea del Nord, accusati di sviluppare armi di distruzione di massa. Bush ha inquadrato questa lotta come una difesa morale dei valori americani, legando la sicurezza nazionale alla promozione della libertà e della democrazia su scala globale, un approccio che ha influenzato profondamente anche le successive amministrazioni.
Con Bush il conservatorismo religioso di destra antiliberale, socialmente reazionario e antiscientifico lascia i margini del dibattito pubblico e comincia a occupare il centro, basti pensare alle leggi anti-terrorismo, alla posizione di Bush su i matrimoni gay o l’aborto, per non parlare della negazione del cambiamento climatico e del tentativo di promuovere una visione della biologia basata sull’idea a-scientifica del ‘disegno intelligente’.
Con le sue scelte di politica economica il presidente Bush è stato il promotore di un’agenda socialmente iper-conservatrice.
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L’amministrazione Bush ha lasciato un’impronta profonda nella politica estera americana, soprattutto a causa della sua risposta all’11 settembre, che ha segnato l’inizio della Guerra Globale al Terrore. Questa guerra, inizialmente diretta contro al-Qaeda e i talebani in Afghanistan, si è rapidamente estesa a una lotta più ampia contro le minacce terroristiche globali e i cosiddetti “stati canaglia”, come Iraq, Iran e Corea del Nord, accusati di sviluppare armi di distruzione di massa. Bush ha inquadrato questa lotta come una difesa morale dei valori americani, legando la sicurezza nazionale alla promozione della libertà e della democrazia su scala globale, un approccio che ha influenzato profondamente anche le successive amministrazioni.
Con Bush il conservatorismo religioso di destra antiliberale, socialmente reazionario e antiscientifico lascia i margini del dibattito pubblico e comincia a occupare il centro, basti pensare alle leggi anti-terrorismo, alla posizione di Bush su i matrimoni gay o l’aborto, per non parlare della negazione del cambiamento climatico e del tentativo di promuovere una visione della biologia basata sull’idea a-scientifica del ‘disegno intelligente’.
Con le sue scelte di politica economica il presidente Bush è stato il promotore di un’agenda socialmente iper-conservatrice.
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Hasan Nasr Allah, leader degli Hezbollah libanesi, è stato assassinato il 27 settembre 2024 dalle forze di difesa israeliane (IDF).
Hezbollah, sostenuto dall’Iran, esercita un grande potere in Libano, ma Hassan Nasrallah conduceva una vita ritirata per evitare di essere assassinato dal principale nemico del suo gruppo, Israele. L’uomo più potente del Libano e l’unico nel piccolo Paese mediterraneo con il potere di scatenare una guerra, è stato ucciso all’età di 64 anni durante un’ondata di attacchi israeliani contro il principale bastione di Hezbollah a sud di Beirut.
Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche e Responsabile del programma “Attori globali” dell’Istituto Affari Internazionali, coglie l’occasione con questo podcast per trarre alcune conclusioni, necessariamente preliminari, su quanto sta accadendo nel Vicino Oriente e allo stesso tempo sollevare alcune questioni sul fosco futuro di quell’area.
A cura di Francesco De Leo. Montaggio di Silvio Farina.
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Il vasto e perdurante interesse suscitato da Francesco d’Assisi – vissuto a cavallo fra il XII e il XIII secolo – scaturisce dalla sua continua tensione verso una prassi che realizzi il modello di vita proposto dal Vangelo. Sulla figura di Francesco si sono stratificate le interpretazioni più disparate e contrastanti; ciò si deve alla scarsità e all’eterogeneità delle fonti storiche, ma anche al fatto che spesso sono state lette in modo ingenuo e capzioso. In questo podcast, frutto di un esame critico delle fonti, Franco Cardini – autore del libro Francesco d’Assisi (Mondadori) – ci restituisce un’immagine viva e affascinante del Povero d’Assisi, senza semplificarne gli aspetti problematici ma lasciando spazio a una narrazione acuta e avvincente.
Franco Cardini è professore emerito di Storia medievale presso l’Istituto italiano di Scienze umane e sociali / Scuola normale superiore e Directeur de Recherches nell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, nonché Fellow della Harvard University.
A cura di Francesco De Leo. Montaggio di Silvio Farina.
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L’analista Gianluca Ansalone, autore della docuserie sul Mossad (https://storiainpodcast.focus.it/il-mossad/), racconta a Storiainpodcast la strategia delle esplosioni sincronizzate di dispositivi wireless, pannelli solari, “cercapersone” scoppiate in tutto il Libano, a Damasco e nella Siria orientale, in operazioni sincronizzate che a metà settembre 2024 hanno colpito numerosi miliziani di Hezbollah.
Operazioni che anche il creatore di Fauda, Avi Issacharoff, ha definito “al di sopra di ogni immaginazione” e che portano alla mente i precedenti attacchi tecnologici del Mossad contro i nemici dello Stato di Israele.
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Parliamo del 40° presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Ronald Reagan.
Reagan è un presidente che ha alimentato giudizi estremamente diversi: per i conservatori è l’eroe che ha servito il mercato contro lo stato e la causa della libertà contro il comunismo (è a lui che attribuiscono la vittoria nella Guerra Fredda); per i progressisti, è l’ideologo classista e razzista che ha deliberatamente perseguito lo smantellamento della rete sociale a supporto delle classi più povere (in particolare tra le minoranze razziali) e rischiato di scatenare la terza guerra mondiale, salvato solo dalla fortuna e dall’ascesa di Gorbaciov a Mosca.
L’opinione pubblica USA lo tiene in alta considerazione, un po’ per la vicinanza storica, un po’ per la nostalgia verso un decennio – gli anni Ottanta – in cui politica, media e industria dell’intrattenimento tornarono a remare nella stessa direzione dopo le contestazioni del ventennio Sessanta-Settanta, dipingendo un quadro di una nazione forte, fiduciosa, libera e sempre più ricca. Gli storici ne hanno un’opinione più critica: nei ranking degli storici degli ultimi vent’anni Reagan è generalmente inserito tra la nona e la diciottesima posizione.
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Parliamo del 40° presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Ronald Reagan.
Reagan è un presidente che ha alimentato giudizi estremamente diversi: per i conservatori è l’eroe che ha servito il mercato contro lo stato e la causa della libertà contro il comunismo (è a lui che attribuiscono la vittoria nella Guerra Fredda); per i progressisti, è l’ideologo classista e razzista che ha deliberatamente perseguito lo smantellamento della rete sociale a supporto delle classi più povere (in particolare tra le minoranze razziali) e rischiato di scatenare la terza guerra mondiale, salvato solo dalla fortuna e dall’ascesa di Gorbaciov a Mosca.
L’opinione pubblica USA lo tiene in alta considerazione, un po’ per la vicinanza storica, un po’ per la nostalgia verso un decennio – gli anni Ottanta – in cui politica, media e industria dell’intrattenimento tornarono a remare nella stessa direzione dopo le contestazioni del ventennio Sessanta-Settanta, dipingendo un quadro di una nazione forte, fiduciosa, libera e sempre più ricca. Gli storici ne hanno un’opinione più critica: nei ranking degli storici degli ultimi vent’anni Reagan è generalmente inserito tra la nona e la diciottesima posizione.
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Tredici presidenti – la vita, l’azione di governo, l’impatto che hanno avuto sull’America (e oltre) – raccontati in forma di una chiacchierata – non sempre seria. A fare le domande, Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dell’Istituto Affari Internazionali. Chi risponde è Mario Del Pero, illustre americanista e Professore di Storia Internazionale presso SciencesPo a Parigi.
Parliamo del 40° presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Ronald Reagan.
Reagan è un presidente che ha alimentato giudizi estremamente diversi: per i conservatori è l’eroe che ha servito il mercato contro lo stato e la causa della libertà contro il comunismo (è a lui che attribuiscono la vittoria nella Guerra Fredda); per i progressisti, è l’ideologo classista e razzista che ha deliberatamente perseguito lo smantellamento della rete sociale a supporto delle classi più povere (in particolare tra le minoranze razziali) e rischiato di scatenare la terza guerra mondiale, salvato solo dalla fortuna e dall’ascesa di Gorbaciov a Mosca.
L’opinione pubblica USA lo tiene in alta considerazione, un po’ per la vicinanza storica, un po’ per la nostalgia verso un decennio – gli anni Ottanta – in cui politica, media e industria dell’intrattenimento tornarono a remare nella stessa direzione dopo le contestazioni del ventennio Sessanta-Settanta, dipingendo un quadro di una nazione forte, fiduciosa, libera e sempre più ricca. Gli storici ne hanno un’opinione più critica: nei ranking degli storici degli ultimi vent’anni Reagan è generalmente inserito tra la nona e la diciottesima posizione.
A cura di Francesco De Leo. Montaggio di Silvio Farina.
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In questo podcast – settimo episodio della docuserie “Il Mossad. Successi e fallimenti del più grande e temuto servizio segreto al mondo” – l’analista strategico Gianluca Ansalone (Docente di Geopolitica al Campus Biomedico di Roma-Università di Roma Tor Vergata) racconta la vicenda del pogrom di Hamas contro Israele.
Il 7 ottobre 2023 un gruppo di terroristi palestinesi appartenenti ad Hamas fa irruzione nel territorio dello Stato di Israele con un’azione spettacolare.
Alle 6 del mattino i vertici dell’organizzazione palestinese danno il via all’operazione “Alluvione Al-Aqsa”, termine arabo che rimanda al quartiere di Gerusalemme in cui sorgono alcune delle moschee più sacre all’Islam.
Vengono lanciati oltre 2500 razzi Kassam dalla Striscia di Gaza, che colgono di sorpresa le difese aeree israeliane e colpiscono diversi bersagli. Contemporaneamente, 3500 uomini armati tagliano come un coltello nel burro le difese di terra e penetrano in territorio israeliano da sud. Alcune unità attraversano il confine di filo spinato con dei deltaplani, per dirigersi verso centri abitati, luoghi di ritrovo e kibbutz. Sarà una strage.
A cura di Francesco De Leo. Montaggio di Silvio Farina.
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In questo podcast – settimo episodio della docuserie “Il Mossad. Successi e fallimenti del più grande e temuto servizio segreto al mondo” – l’analista strategico Gianluca Ansalone (Docente di Geopolitica al Campus Biomedico di Roma-Università di Roma Tor Vergata) racconta la vicenda della lotta ad Hamas.
Israele ha conosciuto fasi e condizioni di sicurezza molto diverse nella storia. Minacce esterne, aggressioni dai vicini, fenomeni di estremismo e fanatismo interno. Ogni volta, il Mossad ha avuto il compito di anticipare e distruggere queste minacce, anche in collaborazione con altri servizi segreti e con altri apparati dello Stato ebraico.
Negli anni ’90 il pericolo principale si chiama Hamas, organizzazione estremista che in quegli anni si propone come l’ultimo baluardo della lotta palestinese, dando avvio ad una drammatica stagione di attentati.
A cura di Francesco De Leo. Montaggio di Silvio Farina.
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In questo podcast – sesto episodio della docuserie “Il Mossad. Successi e fallimenti del più grande e temuto servizio segreto al mondo” – l’analista strategico Gianluca Ansalone (Docente di Geopolitica al Campus Biomedico di Roma-Università di Roma Tor Vergata) racconta la vicenda del super cannone di Saddam Hussein – il progetto Babilonia – durante la lunga guerra Iran-Iraq (1980-1988).
A cura di Francesco De Leo. Montaggio di Silvio Farina.
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Tredici presidenti – la vita, l’azione di governo, l’impatto che hanno avuto sull’America (e oltre) – raccontati in forma di una chiacchierata – non sempre seria. A fare le domande, Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dell’Istituto Affari Internazionali. Chi risponde è Mario Del Pero, illustre americanista e Professore di Storia Internazionale presso SciencesPo a Parigi.
Parliamo del 37° presidente degli Stati Uniti, il Repubblicano Richard Milhous Nixon, in carica dal 1969 al 1974. Il nome di Nixon è inestricabilmente legato a quello che fino a qualche anno fa era senza dubbio il più grave scandalo che avesse coinvolto la Casa Bianca in epoca moderna, ovvero il caso Watergate che portò alle dimissioni di Nixon stesso (caso unico nella storia presidenziale). Così famoso, quasi iconico, è il caso Watergate che era divenuta prassi usare il suffisso -gate per dare una dimensione di crisi istituzionale a uno scandalo pubblico. Eppure Nixon è stato molto più del caso Watergate, così come Johnson prima di lui era stato molto di più del Vietnam. Così come Johnson, anche la presidenza Nixon è stata trasformativa, non tanto del governo federale per il suo intervento a sostegno della società, quanto della mappa elettorale politica degli Stati Uniti. Né si può trascurare il suo significativo lascito in politica estera. In questo episodio vedremo se anche l’eredità di Nixon aldilà dell’episodio del Watergate sia stata positiva, come era stato per Johnson, oppure se la sua sia stata una presidenza che ha arrecato più danni che benefici all’America.
Nixon nasce povero, in un piccolo centro urbano della California meridionale, in una famiglia di quaccheri, il 9 gennaio 1913. Riesce comunque a laurearsi al college (il Duke), poi intraprese la carriera di avvocato prima di finire a lavorare per il governo federale a Washington nei primi anni ’40. Dopo aver partecipato un po’ alla lontana alla II Guerra Mondiale (fu impiegato nella logistica nel Pacifico, ma bisogna dire che insistette per fare il servizio militare attivo nonostante fosse esentato), nel ’46 viene eletto alla Camera dei Rappresentanti (dopo una campagna finanziata anche con le sue vincite a poker), dove si distingue per il suo furore anti-comunista. Nel ’50 vince un seggio al Senato (dopo aver sconfitto una candidata donna, Helen Douglas), che lascia però già a inizio ’53 per spostarsi alla Casa Bianca come vice-presidente di Eisenhower. Dopo otto anni di vice-presidenza (i secondi 4 ottenuti con un famoso discorso intitolato a un cane), perde prima le presidenziali del ’60 contro Kennedy e poi la corsa senatoriale in California del ’62, il che lo porta a ritirarsi dalla vita politica. Ritiro dal quale però riemerge trionfalmente nel ’68, quando si ripresenta e vince le presidenziali. Cominciano così sei anni di turbolenta presidenza.
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Parliamo del 37° presidente degli Stati Uniti, il Repubblicano Richard Milhous Nixon, in carica dal 1969 al 1974. Il nome di Nixon è inestricabilmente legato a quello che fino a qualche anno fa era senza dubbio il più grave scandalo che avesse coinvolto la Casa Bianca in epoca moderna, ovvero il caso Watergate che portò alle dimissioni di Nixon stesso (caso unico nella storia presidenziale). Così famoso, quasi iconico, è il caso Watergate che era divenuta prassi usare il suffisso -gate per dare una dimensione di crisi istituzionale a uno scandalo pubblico. Eppure Nixon è stato molto più del caso Watergate, così come Johnson prima di lui era stato molto di più del Vietnam. Così come Johnson, anche la presidenza Nixon è stata trasformativa, non tanto del governo federale per il suo intervento a sostegno della società, quanto della mappa elettorale politica degli Stati Uniti. Né si può trascurare il suo significativo lascito in politica estera. In questo episodio vedremo se anche l’eredità di Nixon aldilà dell’episodio del Watergate sia stata positiva, come era stato per Johnson, oppure se la sua sia stata una presidenza che ha arrecato più danni che benefici all’America.
Nixon nasce povero, in un piccolo centro urbano della California meridionale, in una famiglia di quaccheri, il 9 gennaio 1913. Riesce comunque a laurearsi al college (il Duke), poi intraprese la carriera di avvocato prima di finire a lavorare per il governo federale a Washington nei primi anni ’40. Dopo aver partecipato un po’ alla lontana alla II Guerra Mondiale (fu impiegato nella logistica nel Pacifico, ma bisogna dire che insistette per fare il servizio militare attivo nonostante fosse esentato), nel ’46 viene eletto alla Camera dei Rappresentanti (dopo una campagna finanziata anche con le sue vincite a poker), dove si distingue per il suo furore anti-comunista. Nel ’50 vince un seggio al Senato (dopo aver sconfitto una candidata donna, Helen Douglas), che lascia però già a inizio ’53 per spostarsi alla Casa Bianca come vice-presidente di Eisenhower. Dopo otto anni di vice-presidenza (i secondi 4 ottenuti con un famoso discorso intitolato a un cane), perde prima le presidenziali del ’60 contro Kennedy e poi la corsa senatoriale in California del ’62, il che lo porta a ritirarsi dalla vita politica. Ritiro dal quale però riemerge trionfalmente nel ’68, quando si ripresenta e vince le presidenziali. Cominciano così sei anni di turbolenta presidenza.
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Parliamo del 37° presidente degli Stati Uniti, il Repubblicano Richard Milhous Nixon, in carica dal 1969 al 1974. Il nome di Nixon è inestricabilmente legato a quello che fino a qualche anno fa era senza dubbio il più grave scandalo che avesse coinvolto la Casa Bianca in epoca moderna, ovvero il caso Watergate che portò alle dimissioni di Nixon stesso (caso unico nella storia presidenziale). Così famoso, quasi iconico, è il caso Watergate che era divenuta prassi usare il suffisso -gate per dare una dimensione di crisi istituzionale a uno scandalo pubblico. Eppure Nixon è stato molto più del caso Watergate, così come Johnson prima di lui era stato molto di più del Vietnam. Così come Johnson, anche la presidenza Nixon è stata trasformativa, non tanto del governo federale per il suo intervento a sostegno della società, quanto della mappa elettorale politica degli Stati Uniti. Né si può trascurare il suo significativo lascito in politica estera. In questo episodio vedremo se anche l’eredità di Nixon aldilà dell’episodio del Watergate sia stata positiva, come era stato per Johnson, oppure se la sua sia stata una presidenza che ha arrecato più danni che benefici all’America.
Nixon nasce povero, in un piccolo centro urbano della California meridionale, in una famiglia di quaccheri, il 9 gennaio 1913. Riesce comunque a laurearsi al college (il Duke), poi intraprese la carriera di avvocato prima di finire a lavorare per il governo federale a Washington nei primi anni ’40. Dopo aver partecipato un po’ alla lontana alla II Guerra Mondiale (fu impiegato nella logistica nel Pacifico, ma bisogna dire che insistette per fare il servizio militare attivo nonostante fosse esentato), nel ’46 viene eletto alla Camera dei Rappresentanti (dopo una campagna finanziata anche con le sue vincite a poker), dove si distingue per il suo furore anti-comunista. Nel ’50 vince un seggio al Senato (dopo aver sconfitto una candidata donna, Helen Douglas), che lascia però già a inizio ’53 per spostarsi alla Casa Bianca come vice-presidente di Eisenhower. Dopo otto anni di vice-presidenza (i secondi 4 ottenuti con un famoso discorso intitolato a un cane), perde prima le presidenziali del ’60 contro Kennedy e poi la corsa senatoriale in California del ’62, il che lo porta a ritirarsi dalla vita politica. Ritiro dal quale però riemerge trionfalmente nel ’68, quando si ripresenta e vince le presidenziali. Cominciano così sei anni di turbolenta presidenza.
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